Come intrattenere Dibba? Storia dello psicodramma grillino
Quegli sms con Giorgetti. L’ex parlamentare è la mina vagante del M5s. Gli scontenti lo useranno per picconare Di Maio
Roma. A un giornalista di cui si fida, uno dei pochi, s’era rivolto poco prima che il governo gialloverde saltasse per aria. “Tu, al posto mio, che faresti?”. E il consiglio era stato di quelli spassionati, più da amico che da consigliere: “Alessà, c’hai moglie e figlio, adesso. Trovati un lavoro”. Al che il prode Di Battista, in effetti, alla ricerca di una nuova occupazione ci si era messo davvero: solo che proprio lui, che tra i complimenti trasversali aveva deciso nel 2018 di abbandonare il Palazzo perché “la vita è fuori”, alla fine s’era ritrovato a dover ammettere, forse per primo a se stesso, che all’infuori della politica gli era proprio difficile immaginarsi un futuro. E allora, riposte le velleità da reporter giramondo, accantonate pure le ambizioni da apprendista falegname, s’era messo a tifare per la fine prematura della legislatura. “Il suo interesse è tornare in Parlamento, magari da leader dell’opposizione”, aveva spiegato Luigi Di Maio ai suoi confidenti, un po’ interdetti nel vedere il redivivo Dibba impegnarsi a disfare quel che loro provavano a fare, e cioè intessere un’alleanza col Pd che consentisse al M5s di restare al governo.
E però la famiglia, a quanto pare, in cima ai pensieri di Di Battista ci resta davvero. E infatti giovedì, a chi gli chiedeva del perché di tutto quell’acredine secreto nel consueto post settimanale su Facebook in cui urlava il suo “Io non mi fido del Pd”, lui candidamente rispondeva: “Ho una moglie e un figlio a cui badare, e sono stato tagliato fuori da tutto, nel M5s, solo perché continuo a credere nei nostri valori. Non come Di Maio, che non crede in niente”. Ed ecco che allora, in questa furia distruttiva, in questa smania di apparire il più puro dei puri nella lotta all’establishment, Dibba non disdegna neppure di chiedere pareri a chi, secondo l’ortodossia grillina, incarna il nemico assoluto, o quasi. E’ così che Giancarlo Giorgetti, raccontavano i deputati lombardi tra gli stand del sacro pratone di Pontida, ultimamente s’è ritrovato tampinato proprio da Di Battista, che a suon di messaggi ed sms chiedeva informazioni su come attaccare, nel merito, l’odiato Giovanni Malagò. Colpevole, agli occhi del descamisado della Casaleggio & Associati, non solo di “deviare per suoi fini lobbistici e clientelari” il Coni, ma anche di confondere “un decreto legge con una legge delega”, nonché di farsi avvistare “‘stranamente’ all’Olimpico accanto a Veltroni”.
E insomma si spiega perché, quasi spontaneamente, intorno all’improbabile carisma del guerrigliero di Roma nord, si vada addensando il malumore di tanti, nel M5s. Perché Danilo Toninelli, che pure ha evitato di lasciarsi coinvolgere direttamente nelle iniziative mediatiche di Di Battista, non ha potuto che restare compiaciuto dalle lusinghe dell’ex deputato, che lo elogia come “il migliore ministro del M5s” e lo esorta, anche privatamente, a non desistere nella crociata contro Autostrade. Perché Gianluigi Paragone sta ancora aspettando di sapere cosa ne sarà, di quella Commissione d’inchiesta sulle Banche di cui gli era stata promessa la presidenza, e la cui negazione sarebbe per lui la scusa ideale per compiere il grande gesto e andarsene esibendo le stigmate del martire, del paladino truffato dei risparmiatori truffati. Perché in fondo anche Giulia Grillo non ha gradito il suo siluramento dal ministero della Sanità.
E poi c’è Barbara Lezzi. “Il centralino”, la chiamavano, nei giorni tribolati delle trattative per il governo rossogiallo, quando la grillina tarantina, in uscita dal ministero del Sud, tempestava di telefonate i vertici del suo partito, per un posto di governo, sia pure da sottosegretario, o magari un ruolo a Palazzo Chigi con delega alle Telecomunicazioni di cui si dice esperta. E, di rimando, nelle chat dei parlamentari grillini tornavano a circolare vecchie cattiverie: come quando l’avevano criticata per la sua incapacità di accorgersi di un emendamento leghista che di fatto svuotava di risorse il suo ministero (“Non sa leggere: è ‘barbara’”), come quando avevano creato perfino una gif col suo viso, e sopra scritto “Tap if you like”, per irridere i suoi isterismi di fronte all’approvazione del gasdotto pugliese.
Ma è tutto anarchico, nel M5s, e più di tutto lo è il dissenso interno: una nebulosa di risentimenti, screzi, ansie di vendetta. Che, per ora, non spaventano i ministri più vicini al capo politico: “Certo, ci sono malumori, ma al dunque ognuno dovrà scegliere se fare affondare la nave su cui è caricato”. Si scommette, insomma, sull’attaccamento alla poltrona. Ma quel che è certo è che tutti, specie i suoi fedelissimi, guardano con una certa apprensione all’indubbio appannamento della leadership di Di Maio. Perché puoi pure disprezzarlo, l’opportunismo di Di Battista, come in effetti quasi tutti i parlamentari fanno. Ma se poi ti ritrovi come il senatore Stefano Lucidi, a dover attendere giorni e giorni prima di capire cosa dire ai tuoi elettori umbri sull’eventuale accordo col Pd, non puoi sentirti rispondere dal tuo capo, durante l’assemblea del gruppo, “questo tema non è all’ordine del giorno” senza arrabbiarti. Così come si arrabbiano anche deputati e senatori che, convocati per capire quale sia la strategia da seguire in vista della imminente legge di Bilancio, ascoltano il leader dirgli, semplicemente, “datevi voi un metodo di lavoro a livello di commissioni”, che è un po’ come dire “arrangiatevi”. E’ di questa incapacità di tenere il gruppo da parte di Di Maio che sono spaventati i colonnelli del M5s. “Alla fine – dice uno dei ministri – il carisma di Di Battista può anche essere il grimaldello che altri usano per picconare Luigi”.
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