Divagazioni, sbuffi, maschi alfa. Il crollo del populismo è un grande spettacolo popolare

Gli interventi in Aula di Conte, Salvini e Renzi, Di Maio immobile. È stato bello come una finale dei Mondiali da vedere tutti insieme davanti alla tv

Andrea Minuz

La Terza Repubblica crolla così, sepolta in un cumulo di divagazioni e citazioni da tema della maturità: Habermas, Cicerone, Saviano, Federico II di Svevia o di Prussia, il Vangelo secondo Matteo (anche in quota Pasolini), Giovanni Paolo II, il Sacro Cuore di Maria, “Omnia Vincit Amor”, subito tradotto da Matteo Salvini in “l'amore vince sempre”, forse in omaggio ai cinquant’anni di Woodstock, chissà. Basta metterle in orizzontale, una dopo l’altra, ed eccoci nello scintillante spettacolo dell’egemonia del liceo classico che resiste immacolata anche ai tempi del populismo (già che ci siamo mettiamoci anche Tomaso Montanari che evoca prontamente Kant contro il bikini spudorato di Maria Elena Boschi). E’ il trionfo dello Spirito sulla materia, della parola sui fatti, delle fumisterie della politica populista sulla realtà, è il trionfo dell’estate italiana.

 

 

Conte, Salvini, Renzi: tre maschi alfa che si parlano addosso. Come in una puntata di “Uomini e donne” fatta solo di tronisti, con la Casellati nei panni di Maria De Filippi. Siamo ben oltre la personalizzazione della politica. Siamo in una parata di “drama queen”. Però che grande spettacolo popolare. Che regolamento di conti e di Conte. Non sarà stata la fine del populismo, ma è stato bello come una finale dei Mondiali da vedere tutti insieme davanti alla tv. “Rifarei tutto”. “Ti sfido anche a Bibbiano”. “Questa non te l’avevo detta Matteo”. Già hit dell’estate.

 

 

 

E poi le facce. Salvini che gesticola, alza gli occhi al cielo, sbuffa (sbuffa anche Bongiorno all’ennesimo richiamo sul Russiagate, che palle! Terza media, ultimo banco). Di Maio invece immobile, ipnotizzato, l’aria da rappresentante di istituto appena eletto, perso nei volteggi scolastici di Conte. Forse terrorizzato di dover parlare, di dover sviluppare il passaggio su Habermas di Conte. E poi lui. Il più grande premier morente nel suo primo e ultimo giorno da De Gasperi, le pause da crooner consumato, gli sguardi piacioni à la Bryan Ferry, “more than this”, giustamente a un certo punto si chiama anche l’applauso. Conte era partito benissimo col “senso dello Stato”, l’avvenire del paese, la bella politica, poi sbrodola, si attorciglia, dice sedici volte “oggettivamente”, tira fuori il folklore, i borghi, le “energie rinnovabili dei moti ondosi” (tra le riforme più urgenti c’è quella dei tempi a disposizione negli interventi alle camere). Salvini ormai quasi irriconoscibile in giacca e cravatta, senza cuffie e senza mojito. Non eravamo più abituati a sentirlo parlare in chiave istituzionale. Neanche lui. Balbetta. Pasticcia. Si perde, sfodera un latino improbabile per far vedere che ha studiato. Improvvisamente è come se Salvini ammettesse a sé stesso di esistere politicamente solo su Facebook, Twitter e Instagram. Il bacio del rosario in aula non funziona. E se c’è una lezione da trarre dallo spettacolo surreale andato in scena ieri al Senato, forse è proprio questa.