Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

Il paletti del partito del voto

Valerio Valentini

C’è un gioco di sponda tra Pd e Quirinale per costringere il M5s alla resa immediata. Le condizioni di Zingaretti per far partire il nuovo governo, la battaglia in vista della direzione

Roma. Appoggiato a una colonna di un corridoio di Palazzo Madama, con l’aria un po’ crepuscolare di un San Sebastiano, Lorenzo Fontana conserva un residuo di speranza: “Tutto si decide nei prossimi due giorni. Pd e M5s hanno poco tempo per trovare l’intesa”. Accanto al ministro degli Affari europei, passa il collega leghista dell’Agricoltura, Gian Marco Centinaio: “Cosa succederà? Chiedetelo al Pd”. Solo che il Pd, come spesso capita, segue logiche tutte sue: e così, mentre si certifica la crisi del governo gialloverde, mentre Giuseppe Conte tronca qualsiasi possibile ritorno di fiamma tra Lega e M5s, i democratici s’accapigliano su una frase da inserire, oppure no, nel documento che domani la direzione del partito dovrà approvare. Perché c’è chi, tra le truppe renziane e non solo, vorrebbe assegnare al segretario Nicola Zingaretti e ai due capigruppo un mandato abbastanza indefinito in vista della sua salita al Quirinale, e chi invece pretende che ci sia una “radicale discontinuità” – eccolo, il passaggio incriminato – come condizione necessaria per aprire una trattativa che porti ad un eventuale governo demogrillino. 

 

E certo Zingaretti, e ancor più di lui il presidente Paolo Gentiloni, mostrano una ferrea irremovibilità. “Se qualcuno pensa che basti cambiare i nostri ministri con quelli della Lega, si sbaglia di grosso”, conferma Antonio Misiani, responsabile economico del Pd. E però, dietro questa apparente fermezza, traspare in controluce la voglia di farlo nascere, il nuovo governo, solo però tenendo il coltello dalla parte del manico. Utilizzare, cioè, lo spauracchio del voto, che per i grillini sarebbe “un suicidio” – parola di un ministro del M5s – come arma di ricatto per costringere Luigi Di Maio a cedere senza condizioni. Che poi, a detta di chi frequenta il Quirinale, è un po’ la stessa strategia che anche Sergio Mattarella ha in mente: paventare il ritorno immediato alle urne per scongiurare il rischio di tatticismi esasperati. “E’ complicata”, dice Pier Luigi Castagnetti, amico del capo dello stato, quando gli si chiede dell’intesa tra Pd e M5s: ma nel dirlo si frega le mani, quasi a volere dare l’idea delle trattative frenetiche in corso e che vivranno domani, nella direzione del Pd, un momento decisivo.

 

Zingaretti vuole un mandato chiaro. Andrà al Colle, con Andrea Marcucci e Graziano Delrio, per spiegare a Mattarella “il minimo sindacale” che il Pd chiede per accettare la responsabilità di governo. La prima richiesta sembra già esaudita, ed è lo scalpo di Giuseppe Conte. E basta sentire Luigi Zanda per capirlo: “Ho apprezzato a tal punto le critiche del premier a Salvini – dice il tesoriere del Pd, subito dopo la requisitoria dell’“avvocato del popolo” contro il Capitano – che quasi mi è sorto il dubbio che non fosse lo stesso premier che ha guidato questo governo per un anno e più”. Ed è un’anticipazione quasi perfetta del post che di lì a poco Zingaretti consegnerà ai social. E oltre al premier – per il quale si parla di un futuribile incarico da commissario europeo – bisognerà pretendere anche un ridimensionamento degli incarichi di Di Maio, che di certo non potrà fare il vicepremier né il doppio ministro. E neppure la riscrittura di un “contratto” è negli auspici di Zingaretti, che pretende invece una “ampia maggioranza parlamentare”. Sembra il preludio a un allargamento a Forza Italia che complicherebbe tutto, a meno che non si formi una pattuglia di responsabili azzurri.

 

Condizioni troppo pesanti? “Spero che il Pd lavori per far nascere il nuovo governo – dice il renziano Davide Faraone – e non per dimostrare che farlo nascere è impossibile”. Timore legittimo, certo, che non tiene però conto della paura che dilaga nel M5s, mista all’ansia di scalata di chi al giro precedente è rimasto escluso dalla spartizione delle poltrone. “Cambiare i nostri ministri? Mi sembra una richiesta ragionevole, che di fatto noi stessi avevamo avanzato mesi fa”, dice il senatore Enzo Presutto. Giovanni Currò, deputato vicino a Stefano Buffagni, aggiunge che “un ricambio sarà salutare, visto che dal 32 siamo passati al 17 per cento”. Insomma, “si sdraieranno”, scommettono i ministri leghisti: “Si sdraieranno come hanno in fondo sempre fatto con noi”. E se non lo faranno, a Zingaretti andrà comunque bene. “Perché a quel punto il No lo diranno i grillini”, afferma Valeria Fedeli. E allora, Renzi o non Renzi, “il voto sarà inevitabile”.

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