Il discorso di Giuseppe Conte al Senato (foto LaPresse)

L'Italia festeggia una sua nuova Liberazione

Claudio Cerasa

Il governo più pericoloso dal Dopoguerra a oggi finisce con uno show: i populisti che combattono il populismo degli altri. Conte, il referendum sul salvinismo e l’irrazionalità dei falsi miti politici. Lezioni per il futuro

La ragione per cui passerà alla storia l’ultimo discorso di Giuseppe Conte da presidente del Consiglio ha poco a che fare con la sostanza del ragionamento dell’avvocato del popolo e ha molto a che fare, invece, con l’importanza simbolica della giornata di ieri, conclusasi come era prevedibile con le dimissioni di Conte e con la conseguente fine del governo gialloverde. Giuseppe Conte, ieri, ha tentato in tutti i modi di dimostrare ai senatori della Repubblica di aver cambiato profilo e di essere così passato dallo status di avvocato del popolo (e del populismo) a quello di grande accusatore del sovranismo (e dunque del salvinismo). Il tempo ci dirà se Conte (che ha scoperto di essere presidente del Consiglio nell’ultimo giorno da presidente del Consiglio) avrà o meno la possibilità di diventare una riserva della nuova Repubblica antisalviniana (ieri sera si è dimesso senza passare dal voto in Aula e ha trasformato il giorno della sfiducia al presidente del Consiglio nel giorno della sfiducia al ministro dell’Interno).

 

 

Ma ciò che merita di essere messo in rilievo nella giornata della Liberazione dal doppio populismo di governo è un tema cruciale che riguarda quella che forse è la lezione più importante offerta in questi mesi dal fallimentare governo gialloverde. Una lezione che riguarda tanto il ruolo del capo del governo quanto quello dei due azionisti dell’esecutivo più pericoloso mai avuto dall’Italia dal Dopoguerra a oggi e che potremmo tentare di sintetizzare così: la capacità del populismo di essere compatibile con la realtà è legata al modo in cui il populismo stesso riesce a tradire se stesso, a non rispettare le proprie promesse e mutare la sua natura. Nel corso dei suoi quindici mesi a Palazzo Chigi, Giuseppe Conte si è accorto numerose volte che il suo governo per essere credibile non aveva altra scelta se non quella di tradire molte delle promesse formulate dai suoi azionisti di maggioranza (pensate all’Europa, pensate all’euro, pensate al deficit, pensate al Tap, pensate all’Ilva, pensate ai trattati, pensate alle sanzioni alla Russia) e anche nel discorso consegnato ieri al Senato l’avvocato del popolo si è reso conto che per non passare alla storia come l’avvocato dei populisti aveva solo un’alternativa: condannare la linea politica portata avanti per quindici mesi in modo pressoché indisturbato da uno dei ministri del suo governo (Salvini) e rivendicare contemporaneamente la centralità del Parlamento di fronte a un movimento politico (di cui Conte è espressione) che per anni ha sostenuto la necessità di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno per superare la democrazia parlamentare a colpi di democrazia digitale.

 

 

In altre parole, l’avvocato dei populisti ha compreso che per coltivare la speranza remota di avere ancora un futuro politico doveva necessariamente trasformarsi nell’improbabile ma per un giorno efficace avvocato degli antipopulisti. Il ragionamento vale per Giuseppe Conte ma in una certa misura vale anche per la Lega di Matteo Salvini e per il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo. Dopo quindici mesi passati al fianco del Movimento 5 stelle, come ha goffamente ricordato ieri al Senato nel discorso di replica a quello del premier uscente (Salvini funziona meglio come dj che come oratore), il leader della Lega ha scelto di rompere con i suoi alleati perché convinto di non poter governare l’Italia al fianco di un altro movimento populista (“Siete il partito del No”). E poco prima di ritrovarsi ostaggio del suo stesso estremismo (il referendum sul trucismo lo ha voluto il Truce), Salvini ha tentato di rimettere insieme tutto il centrodestra (compreso il Cav.) mosso dalla convinzione di non poter guidare la settima economia più importante del mondo con le mani legate al partito della decrescita infelice (il governo, vale la pena ricordarlo, è caduto sul No alla Tav portato in Aula dal M5s).

 

Allo stesso modo, se ci pensiamo bene, dopo quindici mesi passati al fianco di Matteo Salvini, il Movimento 5 stelle, partito che in quanto a estremismo non ha nulla da invidiare a quello del Truce, ha compreso – su partite diverse da quelle economiche – che per potersi ritagliare uno spazio di sopravvivenza politica aveva la necessità di presentarsi sulla scena pubblica non come un complice ma come un avversario dello sfascismo salviniano (pensate al voto in Europa del M5s, europeista per opportunismo dopo aver indossato per lungo tempo i gilet gialli, e pensate alle accuse sul caso Savoini lanciate a Salvini, fatte da un partito che anche sui rapporti con la Russia ha in realtà poco da invidiare alla Lega savoinana).

 

I populismi della Lega e del M5s restano pericolosi anche dopo il formidabile fallimento del governo populista (e che meraviglia vedere i due azionisti del governo populista impegnati da mesi a demolire il populismo dei propri ex alleati) ma la ragione per cui il governo gialloverde passerà alla storia è legata a una verità che anche per i populisti oggi sarà difficile negare: per non essere respinto dalla realtà, il populismo ha bisogno di una certa dose di moderazione, ha bisogno di smentire se stesso, ha bisogno di tradire il suo progetto originario, ha bisogno di immergersi nel realismo, ha bisogno di far propria una grande lezione che non arriva dal Papeete ma arriva da un grande Papa. “Il primo servizio che fa la fede alla politica – ha scritto Joseph Ratzinger in “Liberare la libertà: fede e politica nel Terzo millennio” – è la liberazione dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consistite precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non l’assenza di compromesso ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.

 

In un certo senso, la storia del governo gialloverde, di cui nessuno oggi nel governo uscente sembra volersi assumere la paternità, è lì a dimostrarci che il nostro paese ha gli strumenti per cancellare orrori come quelli del 4 marzo e liberarsi dall’irrazionalità dei miti politici. L’Italia ieri ha festeggiato la sua Liberazione da un doppio populismo di governo che nel giro di pochi mesi ha isolato l’Italia, ha portato il paese in recessione, ha alimentato sentimenti xenofobi, ha giocato con i vaccini, ha introdotto nel corpo del paese il virus delle democrazie illiberali, ha provato a spostare il baricentro della terza economia più importante d’Europa più verso la Cina che verso l’America, più verso la Russia che verso l’Europa. Un incubo è finito. E sarebbe un peccato impegnarsi proprio ora per far nascere un governo costruito con l’unico scopo di provare a fare peggio. Cin cin.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.