Un lavoratore sul cantiere del tunnel per la linea ad alta velocità Lione Torino, a Saint-Martin-la-Porte, Francia (LaPresse)

Alta voracità di governo

Valerio Valentini

Il sì di Conte alla Tav, lo sfogo della Stefani, il Senato in bilico. Ma il M5s s’aggrappa a Salvini, che non rompe

Roma. A un certo punto, lunedì mattina, sembrava imminente l’arrivo dell’ordine categorico: “Matteo dirà a tutti di dimetterci, ministri e sottosegretari”, si informavano tra sé gli uomini di governo della Lega. Poi però le ore passavano, e passavano ancora, e l’attesa scoloriva nella speranza, nell’illusione. E così, ieri pomeriggio, mentre camminava nel Transatlantico, a Erika Stefani non restava che dissimulare la frustrazione per l’ennesimo rinvio sulle autonomie. “Ormai è inutile anche parlare di date, di scadenze ne sono già state indicate fin troppe”, dice il ministro per gli Affari regionali. Avrebbe dovuto incontrare Giuseppe Conte, in giornata, e invece nulla: la convocazione non è arrivata, pure il Cdm previsto per giovedì finisce per essere rinviato. “Che il premier voglia vedere Zaia e Fontana – dice la Stefani – mi fa piacere. Ma ai governatori di Veneto e Lombardia va presentato un testo condiviso e completo che, al momento, non c’è. Finché non si definisce la parte finanziaria, è inutile parlare di altri dettagli. Non si discute del tetto di un palazzo se prima non ci sono le fondamenta. Il M5s continua a parlare di fondi perequativi e altre ipotesi che modificano l’accordo raggiunto qualche settimana fa col Mef, bisogna trovare una quadra prima su quello. Altrimenti l’impressione è che si voglia solo tirarla per le lunghe”.

   

  

E sembra, insomma, l’ennesimo accorato sfogo di frustrazione, il preludio a una rottura che a tutti, nella Lega, sembra inevitabile. E invece di lì a poco tra i corridoi di Montecitorio comincia a risuonare l’eco di un’altra dichiarazione, quella di Salvini che annuncia, dal proscenio di Bibbiano, l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle case famiglia. E allora altro che dimissioni in blocco.

 

“E’ scontato che si vada avanti, certo, noi siamo qui per lavorare”, dice Andrea Ostellari, presidente leghista della commissione Giustizia del Senato a cui Salvini ha demandato il compito di provvedere al varo del nuovo organo d’indagine. D’incanto, una volta di più, tutto si stempera. E così anche il giorno del preventivato duello a favore di telecamere, in programma oggi al Senato, sembra destinato a finire catalogato nell’ennesima puntata di una commedia scritta male. Perché prende consistenza la voce che alla fine Salvini non ci andrà, a Palazzo Madama, a replicare a muso duro al premier, peraltro dai banchi della Lega e non da quelli del governo, sull’affaire Metropol (pronto pure l’alibi: perché alle 16, mentre Conte parlerà al Senato, il ministro dell’Interno dovrà presiedere il Comitato per l’ordine e la sicurezza al Viminale). E al contempo diventa chiaro, del resto, che Conte non si arrischierà nel riferire sul presunto finanziamento occulto moscovita alla Lega, né tanto meno sulle fanfaronate – non si sa più patetiche, o più pericolose – di Gianluca Savoini, uno dei fedelissimi sherpa filorussi del “Capitano”. “Parlerà piuttosto come capo del governo”, spiegano nel M5s, “ribadendo l’ancoraggio dell’Italia all’Alleanza atlantica e la fede europeista del nostro paese, indipendentemente da rubli e petrolio”. Vestirà insomma i nuovi panni che tra Bruxelles e il Quirinale gli hanno cucito addosso: quelli di un premier istituzionale, imparziale, garante – per quel che può valere – di alleanze ed equilibri diplomatici che non possono essere messi in discussione.

  

E nella stessa ottica, in fondo, ieri Conte ha di fatto annunciato il via libera definitivo alla Tav, con un video in diretta Facebook molto istituzionale in cui, dopo mesi di manfrine e fumisterie da azzeccagarbugli, ha riconosciuto l’ovvio, e cioè che “non realizzare” l’alta velocità tra Torino e Lione “costerebbe molto più che completarla”. E così ha anticipato i contenuti della lettera che scriverà in risposta alla Inea, l’agenzia europea che sovrintende alla realizzazione e al finanziamento delle infrastrutture, e che dovrà essere firmata dal ministro dei Trasporti, quel Danilo Toninelli che potrebbe perfino cogliere l’occasione per opporre il suo stoico gran rifiuto e dimettersi, risolvendo un problema in più a Luigi Di Maio. Il quale, ormai, se lo sente ripetere da parecchi dei suoi consiglieri che “Danilo per noi è un problema, continua a farci perdere voti ogni volta che parla”. E però, finora, è rimasto intoccabile: non fosse altro che per il fatto che, ogni qualvolta lo si è messo in discussione, gli attivisti lo hanno difeso strenuamente, sui social. E tanto basta, nello scombiccherato mondo a cinque stelle, per blindare un ministro. “Tutti sanno che per bloccare la Tav abbiamo fatto il possibile, non potranno rimproverarci nulla” ripete in queste ore, ai deputati grillini che la interpellano un po’ interdetti, Laura Castelli, la viceministro dell’Economia grillina, eletta a Torino, che più di tutti si è spesa sul dossier e che mette in conto, come possibile ripercussione interna, il traballamento ulteriore della giunta comunale di Chiara Appendino, sostenuta da un maggioranza già in subbuglio.

   

Ma in verità le ricadute più preoccupanti potrebbero esserci al Senato. “Se tre dei grillini lasciano, la maggioranza salta”, ragionava, quasi pregustando la crisi, qualcuno tra i leghisti più insofferenti. Ma in verità il solo Alberto Airola sembra pronto ad abbandonare il M5s. Elisa Pirro, senatrice pure lei torinese e No Tav, mette le mani avanti: “Mi riservo di approfondire, poi farò le mie valutazioni”. Altri potrebbero esprimere il loro dissenso “ma in maniera puntuale”, riflettono nel M5s. Cioè senza mettere a repentaglio la sopravvivenza della maggioranza. Anche perché, finora, i tentativi di cambiare la rotta del partito, ritornando all’ortodossia originaria, sono andati falliti. Anche i colonnelli del Senato, quelli che – guidati da Nicola Morra – da tempo vanno invocando una svolta e criticando lo schiacciamento di Di Maio sulle posizioni leghiste, si sono visti bloccati dallo stesso Beppe Grillo, la cui sentenza sarebbe imprescindibile per una eventuale defenestrazione del vicepremier. “Trovatemi un’alternativa a Luigi come capo politico, altrimenti è inutile” s’è sfogato il comico genovese, non ricevendo però alcuna risposta. Anche perché una soluzione del genere sarebbe il preludio alla crisi di governo, e al rifiuto di quel certo prestigio che l’essere ministro, sottosegretario o presidente di commissione comunque garantisce.

  

E dunque, paradossalmente, questo scricchiolante baraccone gialloverde sembra destinato a reggersi proprio grazie alla sua fragilità. Anche perché, checché ne dica Salvini, il tempo stringe. Lo stesso Giancarlo Giorgetti, dopo il colloquio con Sergio Mattarella giovedì scorso, lo va ribadendo: “Entro questa settimane bisogna decidersi sul da farsi”. Ma il capo della Lega non sembra affatto deciso a intestarsi la rottura. O si suicidano i grillini, oppure si va avanti.

Di più su questi argomenti: