Gianluca Savoini è il secondo da sinistra (foto tratta dall'account Twitter @SavoiniGianluca)

L'indifendibilità di Savoini spiegata con la legge del contrappasso

Massimo Adinolfi

Ridiamoci su. La linea difensiva del leghista ha una lontana ispirazione platonica, da sempre combattuta da Lega e M5S

Non c’è dubbio: Platone la sapeva molto più lunga di Gianluca Savoini. Dell’incontro di quest’ultimo con alcuni emissari russi, in cui par di capire che si è discusso di soldi ed Europa, petrolio e finanziamenti alla Lega, abbiamo infatti una registrazione, e ora, intervistato, il malcapitato leghista prova a prendere le distanze dagli audio diffusi dal sito americano BuzzFeed. Delle famose (o famigerate) dottrine non scritte di Platone si sa invece molto di meno perché il filosofo, informato del fatto che circolavano voci incontrollate sul suo insegnamento, smentì categoricamente, prima ancora che lo chiamassero in procura o che proto-giornalisti dell’epoca ne dessero ampia diffusione. Platone mise tutti sull’avviso preventivamente: su certi argomenti non leggerete mai un mio scritto; tutto quello che mi viene attribuito, tutto quello che altri dicono di aver trascritto alle mie lezioni, tutto quello che pretendono di aver sentito con le loro orecchie, non è mio, non mi appartiene, non ne riconosco la paternità. E ora provateci pure, aggiunse: vi denuncio tutti.

  

O forse non lo aggiunse: va’ a sapere. Però ha funzionato ugualmente, perché da allora in poi i filosofi si son fatti avvertiti che una semplice trascrizione, anche la più accurata possibile, non è innocente. Io parlo, tu prendi appunti. Ora però, come diranno in seguito i medievali, “quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur”. Ovvero: qualunque cosa venga “recepita”, viene recepita alla maniera del “recipiente”. I medievali non avevano ovviamente in mente le registrazioni audio di uno smartphone, che si suppongono “obiettive”, come noi diciamo, ma Platone invece sì. O meglio: nemmeno Platone possedeva un telefonino, ma aveva un’enorme diffidenza nei confronti della scrittura, e della sua pretesa di riprodurre fedelmente, esattamente, obiettivamente, il contenuto delle sue lezioni. Interrogato, il testo scritto non risponde: in che senso io ho detto quel che ho detto, in quale contesto, con quali intenzioni, con che tono, in quale registro, tutto questo non c’è scritto. E se anche fosse scritto il problema si riproporrebbe per queste ulteriori istruzioni scritte, che andrebbero a loro volta interrogate, e così via all’infinito.

 

Quindi, niente da fare: quegli allievi che, per fare lo scoop, van dicendo che io mi sono occupato di Questo o di Quello tradiscono lo spirito delle mie parole, che bisogna apprendere dal vivo: ogni trascrizione le tradisce.

 

La linea difensiva di Savoini sembra ispirarsi al modello platonico (a parte la minore accortezza di arrivare quando ormai la frittata è fatta). Prima Savoini mette in dubbio che la registrazione sia corretta – c’è un audio? “E che ne so, chi se lo ricorda? Guardi che oggi come oggi non serve molto per manomettere un file, tagliare frasi, alterare la voce” – poi produce l’argomento decisivo, degno dell’illustrissimo predecessore: “Non mi riconosco nella voce né nei discorsi che faccio”. Per la barba di Platone! E’ vero, la difesa di Savoini appare, a un lettore non del tutto ingenuo (o un po’ meno filosofo del sottoscritto), piuttosto disperata. Questo dipende da un paio di cose: la prima, sacrosanta, che dopo l’originaria diffidenza platonica nei confronti della scrittura son seguiti un paio di migliaia di anni e più in cui l’uomo ha scritto, e ha fatto bene a scrivere: non avremmo il sapere che abbiamo senza l’ausilio della scrittura e di ogni altro mezzo di trascrizione, registrazione, archiviazione. La seconda, un po’ meno sacrosanta, che Savoini parla e si difende come se la maggioranza alla quale appartiene non avesse per anni abbondantemente sguazzato dentro un mare di parole intercettate, come se l’opinione pubblica non fosse cresciuta, in Italia, a pane e intercettazioni, senza alcuna preoccupazione che non fosse la rilevanza pubblica delle parole carpite, e anzi scoraggiando qualunque forma di regolamentazione efficace. Così, per quella famosa regola del contrappasso, ora tocca a lui, e alla Lega. Dopodiché torniamo a Platone: la sua non è un’“excusatio non petita”, ma ci manca molto poco: quanto più tu dici che le parole non sono tue, tanto più vien voglia di attribuirtele, quelle parole. Soprattutto se lo dici dopo che han preso a circolare. Poi, per scrupolo di storici e filosofi, al significato del platonismo e delle sue dottrine non scritte ci si dedica da un paio di millenni, per cercare di ricostruire significati e riferimenti; alle parole di Savoini ci si dedicherà, presumo, un po’ meno. Perché di cosa si tratti, fra Europa e soldi, petrolio e finanziamenti, è un po’ più facile a capirsi.

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