Foto LaPresse

Per difendere la famiglia serve una rivolta contro la strategia della pensione

Claudio Cerasa

Verona, gli oscurantisti, l’incapacità di affrontare il dramma della natalità. Perché l’inverno demografico si combatte costringendo la politica a interessarsi non più delle pensioni ma finalmente dell’occupazione femminile. Un libro

Il punto in fondo è tutto qui: come diavolo fai a difendere la famiglia, a denunciare la denatalità, a lottare per la demografia, a chiedere più figli, a definirti pro life se non accetti di denunciare con tutta la forza possibile gli orrori della strategia della pensione? Antonio Golini è un professore emerito della Sapienza, ha insegnato per oltre cinquanta anni demografia, è stato presidente dell’Istat, presidente della Commissione su popolo e sviluppo all’Onu e qualche settimana fa ha pubblicato insieme con il nostro amico e fogliante Marco Valerio Lo Prete un libro delizioso con la casa editrice della Luiss intitolato “Italiani poca gente. Il paese ai tempi del malessere demografico”. Vale la pena parlare oggi di questo libro, all’indomani dell’orripilante e oscurantista congresso delle famiglie di Verona, per via di un capitolo dedicato da Golini a un tema che è stato evitato come la peste nelle tre giorni veronese per non infastidire i professionisti del rosario a orologeria, spacciati dagli organizzatori del congresso delle famiglie come i grandi difensori della natalità in Italia. Il tema è legato agli effetti deleteri e antidemografici di quella che Golini ha definito la “strategia della pensione”. Il riferimento di Golini è a una famosa espressione che venne coniata dal settimanale inglese Observer subito dopo la strage di Piazza Fontana, la strategia della tensione, dove tensione era da intendersi come un diversivo, come il tentativo di mettere il paese in uno stato di tensione tale da giustificare una svolta autoritaria.

 

Oggi, dice Golini, l’Italia si trova in piena strategia della pensione perché la continua e quasi esclusiva ricerca di consensi da parte della classe politica all’interno del bacino dei pensionati ha spinto il legislatore a giocare sempre di più con il diversivo della pensione, che non ha avuto solo l’effetto di infilare sotto il tappetto i problemi dell’Italia ma ha avuto anche l’effetto di dare un colpo ulteriore alla demografia italiana.

 

La tesi di Golini è suggestiva ma è supportata da dati interessanti. Occuparsi solo degli elettori più anziani e meno degli elettori più giovani, sostiene il demografo, ha portato l’Italia a perdere di vista le politiche sul lavoro (“siamo il paese con la più alta spesa pensionistica d’Europa e allo stesso tempo quello che dedica minori risorse alle politiche attive del lavoro, siamo il paese in cui è diffusa l’idea che è tra gli anziani che si trovano le vittime più colpite della decennale crisi economica e invece tutte le statistiche indicano nei giovani e giovanissimi i più vessati da povertà materiale, insicurezza finanziaria, incertezza di prospettive”) e perdere di vista le politiche del lavoro significa non fare tutto ciò che sarebbe necessario fare in un paese in crisi di natalità per sostenere la demografia. Si dirà: e in che senso? Golini fa quello che ogni studioso interessato alla famiglia e alla natalità dovrebbe fare e dedica un importante passaggio del suo libro al potere rosa. Golini ricorda che l’Italia ha un grave problema legato all’occupazione femminile (soltanto il 48,9 per cento delle donne fra quelle che avrebbero l’età per lavorare lavora contro una media europea del 62,4 per cento); ricorda che secondo l’ultima rilevazione Istat sui salari la differenza percentuale media tra la retribuzione oraria di un uomo e di una donna è del 12,2 per cento (14,8 euro l’ora per l’uomo contro i 13 per la donna); nota che in Italia, in presenza di almeno un figlio di età inferiore ai 15 anni, il differenziale dei tassi di occupazione fra uomini e donne di età compresa tra i 25 e i 54 anni è pari a 30,7 punti percentuali, contro i 14,1 in assenza di figli (mentre nell’area Ocse le percentuali sono del 22,6 per cento e del 4,8 per cento). E una volta denunciato il problema smonta con uno studio dell’Ocse la tesi di quegli oscurantisti convinti che per incentivare la natalità sia necessario tenere le donne a casa, alla larga dal lavoro. “In tutti i paesi industrializzati – scrive Golini – è dimostrata l’esistenza di una correlazione positiva tra i tassi di occupazione delle donne e i tassi di fertilità. Nei paesi dell’area Ocse la relazione tra occupazione femminile e fecondità è infatti cambiata negli ultimi quatto decenni. Dal 1980 in poi la maggior parte dei paesi con tassi di occupazione femminile maggiore aveva bassi livelli di fecondità. Dal 2014, invece, i paesi con tassi di occupazione femminile bassi tendevano a registrare tassi di fecondità più bassi”.

 

E per sostenere la sua tesi Golini offre uno spunto di riflessione legato proprio all’Italia. “In Italia la fecondità, dopo il minimo storico del 1995, quando era pari a 1,2 figli, è aumentata anche al netto delle nascite straniere, soprattutto nelle regioni dove l’occupazione delle donne e le misure di conciliazione sono cresciute maggioramene (regioni come l’Emilia Romagna e la Lombardia, che da sole fanno aumentare del 50 per cento il tasso di fecondità totale). In regioni invece come il sud Italia, dove resiste il modello del così detto maschio breadwinner, le donne hanno meno opportunità di valorizzazione del proprio capitale umano. E più carenti sono i servizi per l’infanzia e il welfare pubblico, più aumentano le condizioni di depressione sia sul versante economico che su quello demografico”.

 

Secondo Golini, dunque, una maggiore occupazione femminile non sarebbe soltanto una spinta per la crescita economica del paese ma ad alcune condizioni sarebbe anche un sostegno alla natalità. Più si insegue la strategia della pensione, meno attenzione si dedica ai giovani, meno attenzione si dedica al lavoro, meno attenzione si dedica alla demografia. Senza combattere la strategia della pensione non sarà mai possibile sostenere le famiglie in cerca di un sostegno per far crescere i propri figli (l’entità dei trasferimenti finanziari a bambini e famiglie in Italia, secondo i dati riportati da Golini, è dell’1,1 per cento del pil, contro il 2,5 per cento della Francia, il 3,1 per cento della Germania, il 3,2 per cento del Regno Unito, il 4,1 per cento della Danimarca). Senza combattere la strategia della pensione non sarà mai possibile riflettere sugli studi di una brava economista di Torino, Daniela Del Boca, secondo la quale un incremento degli asili nido del 10 per cento farebbe aumentare del 7 per cento la probabilità di lavorare per le donne molto istruite e del 14 per cento la probabilità di lavorare per le donne con istruzione più bassa. A Verona forse non se ne sono accorti ma nell’Italia di oggi le battaglie farlocche in difesa della famiglia non sono solo quelle combattute dagli oscurantisti che sognano di cancellare le leggi sull’aborto e considerano l’omosessualità una malattia ma sono anche quelle combattute dai finti amici della natalità che usano il rosario come un trucco di magia per nascondere dietro il cilindro della propaganda la propria incapacità a fare il bene di una famiglia. Battaglie per la natalità sì, cialtroni no, grazie.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.