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Cosa vuol dire non contare in Europa

Claudio Cerasa

Le nomine dei commissari, le presidenze del Parlamento, la partita della Bce e il cortocircuito perfetto della Lega: avere consensi alle stelle e non sapere cosa farci. Perché l’isolamento dell’Italia rischia di far perdere sovranità al nostro paese

Il futuro della legislatura, come sentiamo ormai ripetere da mesi, dipenderà in buona parte dal risultato che i partiti di governo otterranno tra 86 giorni alle elezioni europee. Ma per capire quale sarà il futuro dell’Italia in Europa i giorni più importanti da seguire non sono quelli che ci separano dal voto europeo ma sono i 35 giorni che separano il 26 maggio dal 30 giugno. In questo arco temporale, una volta registrate le performance dei partiti che riusciranno a superare la soglia del quattro per cento in giro per l’Europa, all’Italia spetterà il compito di contare qualcosa nelle grandi partite con cui dovranno fare i conti il Parlamento europeo, la Commissione e il Consiglio europeo. Tra fine maggio e fine giugno verrà eletto il nuovo presidente del Parlamento europeo, verrà scelto il nuovo capo della Commissione, verranno scelti i nuovi commissari europei, verranno assegnate le presidenze delle commissioni parlamentari, verrà deciso il nuovo governatore della Banca centrale europea, potrebbe essere sostituito un membro del board della Bce (il mandato di Draghi scade a fine ottobre ma tutti i giochi si faranno nel Consiglio europeo del 30 giugno). E in questo scenario la particolarità, la straordinarietà e l’unicità del nostro paese è quella di trovarsi in una condizione strategica difficile da non definire in modo diverso da un suicidio politico.

 

Tutti i principali sondaggi dicono che l’Italia ha le carte in regola per essere nel prossimo Parlamento europeo il paese con il maggior numero di deputati appartenenti a un singolo partito – la Lega con il 33 per cento avrebbe 29 parlamentari, lo stesso numero di seggi della tedesca Cdu, mentre nel 2014 il Pd con il 40 per cento ebbe 31 seggi, tre in meno della Cdu – ma ciò che in questi mesi gli antieuropeisti devono aver sottovalutato è che per far contare un paese in Europa non basta accrescere il consenso del proprio partito. Serve fare qualcosa di più: serve far parte di una squadra più grande che, come si dice in gergo calcistico, sappia finalizzare l’azione di un singolo. Il paradosso del prossimo Parlamento, un paradosso drammatico più per l’Italia intera che per i soli populisti, è che nella prossima legislatura il governo del nostro paese, pur avendo buone probabilità di portare a Bruxelles e a Strasburgo un numero significativo di parlamentari, rischia di non contare nulla, di non toccare palla e di dimostrare in modo plastico quanto sia vero che in un mondo globalizzato, come ha ricordato la scorsa settimana Mario Draghi, i paesi per essere davvero sovrani devono imparare a cooperare. Buona parte del governo italiano, pur non potendolo ammettere esplicitamente, sta imparando a capire in queste ore quanto sia pericoloso, dannoso e sbagliato isolarsi in Europa e non bisogna essere intelligenti come Danilo Toninelli per capire che più l’Italia si allontana dal cuore dell’Europa e più l’Europa verrà governata a colpi di bilaterali franco-tedeschi (vedi il trattato di Aquisgrana) all’interno dei quali difficilmente troverà spazio l’interesse italiano. Ma il cortocircuito creato dai cialtro-sovranisti italiani (forse dovremmo imparare a chiamarli così) diventerà ancora più evidente nei prossimi mesi quando Salvini e Di Maio dovranno spiegare ai propri elettori che senso ha avuto per l’Italia la costruzione in Europa di alleanze farlocche e letteralmente fuori dal mondo.

 

Salvini e Di Maio forse ancora non lo sanno ma i trattati europei dicono che sia quando si discute di nomine in Parlamento sia quando si discute di nomine in Commissione il sistema con cui vengono premiati i paesi ha a che fare con il peso della delegazione di cui si fa parte e non con il peso del partito di appartenenza. Le prime scelte sono dunque del primo, del secondo, del terzo, del quarto gruppo della prima delegazione e se sei il primo gruppo della terza o della quarta delegazione, come rischia di essere il partito di Salvini per non parlare di quello di Di Maio, in Italia potrai pure far pesare i tuoi voti, ma in Europa no. Di fronte a questo problema, dunque, ci si potrebbe limitare a fare un sorriso e a ironizzare sull’incapacità del cialtro-sovranismo italiano. Il problema però diventa molto più grande e molto più serio se si pensa a cosa rischia di perdere il nostro paese a causa dell’isolamento costruito in Europa. E il pericoloso paradosso di fronte al quale si troverà l’Italia nei prossimi mesi è grosso modo questo. Negli anni in cui gli antieuropeisti hanno rimproverato all’Italia di non contare nulla in Europa, l’Italia è riuscita a portare un italiano alla guida della Banca centrale europea (Mario Draghi), un italiano alla guida del Parlamento europeo (Antonio Tajani), un’italiana alla guida della politica estera europea (Federica Mogherini), un italiano alla guida di una delle commissioni più importanti del Parlamento europeo (Roberto Gualtieri, presidente della Commissione per i problemi economici e monetari). Nei mesi in cui gli antieuropeisti si sono presentati in Europa promettendo di far contare di più gli italiani, l’Italia si ritrova di fronte a un numero incredibile di opportunità che rischia di perdere. Rischia di non avere voce in capitolo per il prossimo presidente del Parlamento europeo, che sarà proposto dal Consiglio europeo di fine giugno e sarà eletto ai primi di luglio. Rischia di non avere un commissario europeo di peso: per farlo bisogna fare quello che non stiamo facendo, ovvero costruire accordi con i grandi paesi che oggi non sono nostri alleati senza dare per scontato che chiunque sarà proposto dal governo italiano verrà accettato (ricordate il caso Buttiglione?). Rischia di essere fuori dai giochi per le presidenze delle commissioni: le presidenze verranno decise dai gruppi più forti in Europa, non dai partiti più forti in un singolo paese, e alla fine l’unico italiano di peso in Parlamento europeo su cui potrebbero contare Salvini e Di Maio è Roberto Gualtieri, del Pd, che sembra avere buone possibilità di restare nello stesso ruolo strategico occupato negli ultimi cinque anni. Rischia di guardare da spettatore il rimescolamento che ci sarà subito dopo le europee all’interno della Banca centrale: l’Italia avrebbe tutto l’interesse a stringere un accordo con la Francia di Macron per sostenere il francese François Villeroy de Galhau alla guida della Bce, perché con un francese alla guida della Banca centrale l’altro francese attualmente nell’executive board, Benoît Coeur, sarebbe costretto alle dimissioni, e in quel caso l’Italia – pur avendo già Andrea Enria alla presidenza del Consiglio di sorveglianza della Bce – potrebbe tentare di avere un ruolo importante nella partita del rinnovo del board (la Francia ha avuto per anni contemporaneamente nell’executive board Benoît Coeur e alla guida della Vigilanza Danièle Nouy). Rischia tutto questo, l’Italia, ma rischia soprattutto di essere protagonista di un incredibile cortocircuito: essere contemporaneamente il paese meno rappresentato nell’Europa del futuro pur avendo il partito più rappresentato in Parlamento.

 

“In un sistema economico integrato a livello mondiale e regionale – ha ricordato Mario Draghi la scorsa settimana nel suo splendido discorso all’Università di Bologna – i paesi europei devono cooperare per poter esercitare la propria sovranità. E la vera sovranità si riflette non nel potere di fare le leggi, come vuole una definizione giuridica di essa, ma nel migliore controllo degli eventi in maniera da rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”. L’Italia si avvicina all’Europa del futuro trainata da un partito che si autodefinisce sovranista ma che in realtà ogni giorno sembra voler fare un passo in avanti per isolarsi dal mondo, diventare irrilevante in Europa e mettere a rischio la nostra sovranità. E più che difensori della sovranità, forse, i campioni dell’antieuropeismo meriterebbero di essere definiti per quello che sono: difensori non dell’interesse dell’Italia ma della propria misera pagnotta politica.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.