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L'agenda Tafazzi del populismo è una minaccia per la prosperità

Claudio Cerasa

Guerra sui dazi, Brexit, manovra italiana. L’economia ha una pericolosa novità: le crisi autoindotte dalla pazza politica

Che cos’è esattamente l’agenda Tafazzi? A pochi giorni dall’approvazione finale della legge di Stabilità si potrebbe facilmente affondare il coltello nella piaga del populismo sfascista mettendo in rilievo le mille contraddizioni presenti nella legge di Bilancio ed evidenziando, per esempio, le misure contro le imprese, il taglio degli investimenti, la scarsa attenzione per l’innovazione, il non interesse per la ricerca, l’incapacità di creare lavoro, la propensione a generare disoccupazione, la predisposizione ad aumentare le tasse, la noncuranza per il debito pubblico. Si potrebbe dire tutto questo, e spiegare per l’ennesima volta le mille ragioni che fanno della manovra populista una manovra utile per il consenso di Lega e M5s ma inutile per la crescita dell’Italia, ma andando a spulciare tra le ventidue pagine di relazione sulla manovra consegnate pochi giorni fa in Commissione dall’ufficio parlamentare di bilancio, Dio lo benedica, c’è un passaggio che merita di essere isolato e che ci permette di sviluppare un ragionamento intorno a quella che rischia di essere la vera miccia che nel prossimo anno potrebbe andare a innescare la bomba della decrescita italiana: l’incertezza.

 

“Il quadro di finanza pubblica per il 2019 – scrive l’Upb – presenta caratteri di transitorietà e di incertezza, in particolare riguardo al disegno effettivo e alla realizzabilità delle misure (ad esempio, dismissioni immobiliari). La revisione sulla crescita del 2019, pari a cinque decimi di punto percentuale, è inoltre verosimilmente imputabile sia al minore trascinamento statistico della dinamica congiunturale in corso sia al minore stimolo fiscale della manovra, e l’effetto espansivo della legge di Bilancio sul pil del 2019 viene stimato dal Mef in 0,4 punti percentuali, mentre nella nota di aggiornamento era quantificato in 0,6 punti”. Sintesi estrema offerta alla fine dell’audizione dal presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, Giuseppe Pisauro: “La manovra è chiaramente recessiva almeno per il biennio 2020-2021”.

 

Il tema forse può sembrare molto tecnico ma diventa improvvisamente chiaro, trasparente e persino clamoroso se il giudizio vergato dall’ufficio parlamentare di bilancio viene miscelato con una serie di report messi insieme negli ultimi giorni da alcuni importanti analisti finanziari che, dovendo ragionare sul 2019, non hanno potuto fare a meno di notare come per i mercati globali la grande novità sia l’ingresso traumatico in un’èra per così dire Tafazzi, all’interno della quale i problemi per la crescita non arrivano più dal ciclo economico ma arrivano dal ciclo politico. “Un tempo – hanno scritto Pascal Blanqué e Vincent Mortier in un bel report pubblicato pochi giorni fa da Amundi – i fattori politici venivano percepiti come un rischio oppure come un rumore del mercato. Oggi invece rappresentano un fattore cruciale in un contesto economico e di mercato più fragile. In Europa, le elezioni parlamentari di maggio 2019 saranno fondamentali per identificare le dinamiche politiche prevalenti e per comprendere il potenziale di integrazione e, in ultima analisi, di sopravvivenza dell’euro nel lungo periodo”.

 

In questo senso si può dire, provando ad allargare la nostra inquadratura, che la caratteristica più importante e più inquietante della manovra sovranista è legata a un dato di fatto che non si può più far finta di ignorare e che in qualche modo ha involontariamente ammesso ieri il premier Giuseppe Conte nel corso della sua conferenza stampa di fine anno, quando ha detto che il governo populista, di fronte a uno scenario di crescita difficile, “ha scelto di rivoltare il paese come un calzino”. Il dato è questo: nei paesi più industrializzati del mondo i principali fattori di instabilità finanziaria non sono più legati all’improvviso manifestarsi di una fase di cicli economici avversi, ma sono legati all’improvviso manifestarsi di una fase di cicli politici ostili alla globalizzazione. E da questo punto di vista, a proposito di paesi rivoltati malamente come calzini, il contratto firmato dal governo del cambiamento contiene purtroppo molti ingredienti utili a dimostrare che il tratto distintivo del populismo sfascista non è quello di risolvere i problemi di un paese ma è quello di aggravarli grazie a un particolare cocktail economico in cui si trovano tutti gli elementi che fanno sì che nel migliore dei casi venga accelerato un ciclo economico avverso, mentre nel peggiore dei casi fanno sì che il ciclo economico avverso sia determinato proprio dall’isteria della politica populista. 

 

Due giorni fa, nel suo bollettino mensile, la Banca centrale europea – nel bocciare la manovra italiana che ha generato un quadro “particolarmente preoccupante” per “la circostanza che la più ampia deviazione rispetto agli impegni assunti” rispetto al Patto di stabilità e crescita “si riscontri in un paese in cui il rapporto tra debito pubblico e pil è notevolmente elevato” – ha notato che “desta preoccupazione il fatto che la conformità al Patto di stabilità è più debole nei paesi più vulnerabili agli choc” e che “la maggior parte dei paesi che non hanno ancora conseguito posizioni di bilancio solide è venuta meno agli impegni assunti nell’ambito del Patto di stabilità nel 2018 ed è a rischio di mancata conformità anche per il 2019”. Ma ciò che la Banca centrale europea non può dire fino in fondo è che le difficoltà economiche che si intravvedono all’orizzonte il prossimo anno, compresa la possibile recessione italiana, sono difficoltà che hanno un segno del tutto diverso rispetto al passato e sono difficoltà che per la prima volta nella storia recente dell’economia mondiale sono autoindotte direttamente dalla politica.

 

Il caso italiano, il caso cioè di un paese che nel giro di sei mesi ha bruciato la credibilità costruita in sei anni mettendo in fuga i capitali stranieri, mandando in sofferenza le banche italiane, facendo tornare il segno meno su tutti i principali indicatori del paese, è un caso eclatante. E’ lo stesso ufficio parlamentare di bilancio a riconoscere che parte delle difficoltà economiche dell’Italia sono create da problemi autoindotti dalla politica. Ma il caso italiano non è l’unico che merita di essere messo in rilievo, e le storie di processi economici positivi compromessi dalla politica iniziano a comparire sempre con maggiore frequenza all’interno del nostro contesto storico. Prendete per esempio il Regno Unito, dove la crisi finanziaria globale di dieci anni fa ha avuto un impatto negativo pari al 6,25 per cento del prodotto interno lordo e pari al 17 per cento del valore degli immobili, e dove ora invece secondo la Banca centrale inglese l’impatto che potrebbe avere una Brexit non ordinata e senza accordo potrebbe avere un impatto negativo pari all’8 per cento del pil nel giro di un anno rispetto alla ricchezza prodotta dal paese nel periodo pre referendum, e del 10,5 per cento nei cinque anni successivi – senza parlare poi del crollo del valore degli immobili, stimato intorno al 30 per cento, il crollo della sterlina stimato intorno al 25 per cento, l’impennata dell’inflazione pari al 6,5 per cento, il tasso di disoccupazione stimato al 7,5 per cento contro l’attuale 4,1. Prendete questo caso e prendete poi anche il caso della guerra commerciale condotta a colpi di dazi dagli Stati Uniti contro la Cina, che secondo le stime del Fondo monetario europeo ha avuto solo nel 2018 un impatto negativo sull’economia mondiale pari a 1,52 trilioni di dollari, e in mancanza di una tregua rischia di portare il mercato globale a una contrazione pari al 17 per cento, con un calo del prodotto interno lordo mondiale pari all’1,9 per cento destinato secondo gli esperti del Fmi ad aumentare in misura ancora più sostenuta il prossimo anno.

 

“Oggi – ha scritto in un bel report per la Columbia Threadneedle Investments il responsabile azionario per l’Europa, Philip Dicken – le preoccupazioni più radicate e significative dell’economia ruotano intorno al tasso di crescita cinese, agli interminabili negoziati per la Brexit e alla controversa legge di bilancio italiana: tutte questioni che difficilmente scompariranno nel breve termine”. Che ci sia una fortissima relazione tra l’incertezza e la crescita economica non è certo una novità. Ma la novità vera è la simultaneità con cui i “cambiamenti” populisti in modo sistematico stanno destabilizzando con decisione l’economia internazionale. Non sappiamo quanto la guerra dei dazi, il disastro della Brexit e la pazzia populista italiana riusciranno a far cambiare segno in modo definitivo al ciclo economico. Ma a pochi giorni dal 2019 sappiamo che il prossimo anno i disastri dell’economia per la prima volta non dipenderanno da una pericolosa bolla speculativa, o da un improvviso crash delle Borse, ma dipenderanno prima di tutto da una pericolosa bolla politica autoindotta dall’internazionale populista. E’ uno choc diverso dal passato, forse il primo di questo genere, e conviene prenderne nota per chiedere un giorno ai responsabili il conto di quelle politiche irresponsabili messe in campo dai rivoltatori di calzini che, in nome del popolo, piuttosto che proteggere gli interessi dei propri elettori hanno finito per aggredirli.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.