Foto Imagoeconomica

Arginare il populismo alle Europee significa (anche) pensare ai deboli

Guido Tabellini

Ragioni valide per spingere verso un’Europa meno concentrata sulla competizione e più sui bisogni della popolazione

Come scrive Claudio Cerasa, e come leggiamo tutti i giorni sui giornali, i sistemi politici occidentali stanno attraversando un momento storico particolare. Il conflitto politico si è spostato dal tradizionale asse destra-sinistra a un nuovo confronto tra nazionalisti e sostenitori della globalizzazione. I partiti social democratici, pilastri dei sistemi politici europei, sono in crisi, e gli elettori si spostano verso partiti populisti e nazionalisti. La fiducia nelle istituzioni tipiche della democrazia rappresentativa è scesa, per non parlare della fiducia nei confronti delle élite politiche e sociali. Numerosi studi empirici hanno mostrato che questi fenomeni politici sono correlati con i rapidi cambiamenti economici degli ultimi decenni. Gli elettori che si sono spostati verso i partiti populisti e nazionalisti lamentano l’insicurezza economica. Le regioni europee e le località americane dove questi fenomeni politici sono più pronunciati sono quelle più esposte all’aumento delle importazioni dalla Cina e alle conseguenze occupazionali dei progressi tecnologici. Negli Stati Uniti, il sostegno a Trump è più forte nelle aree geografiche dove la caduta della quota di reddito che va al lavoro anziché al capitale è stata più drammatica. In poche parole, i cambiamenti politici che stanno destabilizzando le democrazie occidentali sembrano essere una conseguenza della globalizzazione e del progresso tecnico. Se è così, non si tratta di un fenomeno passeggero. Vi è tuttavia qualcosa di sorprendente in ciò che sta accadendo. In passato, un aumento delle difficoltà economiche dei soggetti più deboli portava a un travaso di voti verso i partiti di sinistra. Ora invece, chi è colpito dalle conseguenze negative della globalizzazione e della tecnologia diventa nazionalista, rifiuta gli immigrati, diventa più conservatore in campo sociale, e paradossalmente spesso domanda anche meno imposizione fiscale. Perché questa reazione?

 

Una risposta plausibile è che negli anni recenti i partiti socialdemocratici, nonostante fossero spesso al governo, non sono riusciti a proteggere i cittadini più esposti alla globalizzazione. In parte ciò è accaduto perché i partiti di sinistra si sono trasformati: al contrario di quanto accadeva in passato, in molti paesi avanzati la sinistra ora rappresenta le fasce più istruite della popolazione e i ceti urbani, cioè elettori tendenzialmente progressisti in campo sociale ma che traggano vantaggio dalla globalizzazione e dal progresso tecnico. Ma se si è fatto troppo poco per proteggere chi era più esposto ai cambiamenti economici in atto, la colpa non è solo dei partiti socialdemocratici, o di chi non si è accorto di cosa stava succedendo. Quantomeno in Europa, anche l’Unione europea ha una responsabilità importante. Dalla nascita del mercato unico in poi, l’integrazione economica europea è stata guidata dal principio che era un bene costringere i paesi membri a competere tra loro per diventare più efficienti.

 

La tutela della concorrenza non ha riguardato solo i comportamenti privati, ma è stata applicata anche al settore pubblico e alle politiche economiche, tramite le regole sugli aiuti di stato. Inoltre, cosa ancora più importante, si è incoraggiata la competizione fiscale tra paesi. Tutto ciò è avvenuto per buone ragioni, e con l’incoraggiamento della migliore scienza economica. Spesso i governi democratici sono indotti a sprecare risorse per favorire gruppi di interesse o portatori di interessi specifici e particolarmente influenti, a scapito del benessere comune e dell’efficienza economica. Ben venga quindi un po’ di sana competizione tra sistemi, per spingere i governi ad adottare le politiche efficienti ma impopolari che altrimenti sarebbero stati riluttanti ad attuare. Il risultato di questa impostazione è che, non a torto, spesso l’Unione europea è vista dai governi e dall’opinione pubblica come uno dei fattori che hanno frenato le politiche redistributive e di protezione dei più deboli. Ciò è particolarmente evidente nelle politiche di tassazione, dove la mobilità dei capitali e la concorrenza fiscale impediscono di fatto un aumento del prelievo sul capitale, finanziario e industriale, a scapito del lavoro.

 

Questa evoluzione dell’integrazione economica europea non è scontata. Al contrario, in linea di principio un’entità sovranazionale come l’Unione europea potrebbe fare molto di più per rinforzare i poteri fiscali dei paesi membri, favorendo il coordinamento fiscale e lo scambio di informazioni, e adoperandosi per favorire le politiche redistributive nazionali. Se questo non è avvenuto, non è solo perché alcuni piccoli paesi europei che traggono vantaggio dalla competizione fiscale si sarebbero opposti. E’ anche perché le idee prevalenti, in campo economico e politico, hanno spinto nella direzione opposta: verso un’Europa che favorisce la competizione tra sistemi, anziché verso un’Europa che facilita il perseguimento degli obiettivi redistributivi dei paesi membri. Se vogliamo evitare che il nazionalismo e il populismo destabilizzino ulteriormente le democrazie europee, forse è giunto il momento di cambiare rotta. Chissà se i partiti socialdemocratici europei avranno imparato la lezione, quando tra qualche mese si entrerà nel vivo della campagna per le elezioni al Parlamento europeo?

Di più su questi argomenti: