Matteo Salvini a Pontida (foto LaPresse)

La rivolta del dio Po

Claudio Cerasa

Le imprese furiose in Lombardia. I 30 mila a Torino. Gli artigiani in rivolta in Veneto. L’insofferenza a Genova contro il governo. Il nord di Salvini è il vero nemico del populismo salviniano: buona notizia

Agostino Bonomo è un nome che a molti lettori dirà forse poco ma è un nome senza il quale oggi non è possibile capire fino in fondo un fenomeno gigantesco che riguarda un pezzo d’Italia che è centrale quando si parla di ricchezza, ma marginale quando si parla di governo: il nord. Agostino Bonomo è il presidente degli imprenditori artigiani del Veneto e per capire la portata delle sue parole rovesciate due giorni fa nel corso di un convegno di Confartigianato contro alcuni parlamentari eletti in Veneto bisogna fare uno sforzo di fantasia e immaginare uno stadio con sessantamila persone che improvvisamente inizia a fischiare la propria squadra del cuore.

 

E i fischi di Bonomo, che in Veneto rappresenta sessantamila artigiani, sono particolarmente dolorosi per la squadra di casa, la Lega, perché vengono da una tifoseria che aveva fatto una scommessa simile a quella fatta da un pezzo maggioritario del ceto produttivo del nord: investire forte su Matteo Salvini per avere al governo qualcuno capace di tutelare dalle stanze del potere il partito del pil. Il Veneto, per la Lega, non è una regione come le altre. E’ la regione di Luca Zaia. E’ la regione della Liga veneta. E’ la regione del 31,8 per cento ottenuto dal Capitano il 4 marzo. Ma è anche la regione in cui sta maturando in modo più strutturato un sentimento di lento e progressivo disamore verso il Capitano.

 

Qualche mese fa è stato il presidente degli imprenditori del Veneto ad aver accusato Salvini di “essersi venduto ai Cinque stelle solo per due immigrati in meno”. Oggi invece è la volta del capo degli artigiani che ha scelto di scomunicare la manovra del governo Salvini non per questioni legate al mancato rispetto delle regole europee ma per questioni legate al mancato rispetto delle promesse elettorali – il combinato disposto di reddito di cittadinanza e di lavoro nero, ha detto Bonomo, “appare fin d’ora un insieme di misure che provocheranno un incremento del lavoro nero, demotiveranno l’imprenditorialità, ignoreranno il fatto che per creare dignità alle persone occorre dare alle imprese la possibilità di produrre lavoro”.

 

E per spiegare le ragioni dei fischi dello stadio contro il Capitano, Bonomo usa una metafora perfetta: il condominio. “Il settore artigiano – dice – è uno degli appartamenti del condominio produttivo, sociale e istituzionale italiano. Gli altri naturalmente sono l’industria, il commercio e l’agricoltura. Le condizioni complessive di fornitura delle utilities e la solidità dell’edificio sovrastano e condizionano chiaramente le condizioni di vita nei singoli appartamenti. Le utilities cui facciamo riferimento sono il costo del credito, la burocrazia che non viene affatto meno, il minor valore del risparmio italiano, il valore della legalità, l’andamento dei mercati, la fiducia nel futuro la propensione agli investimenti e le conseguenze del nuovo indebitamento, che ci auguriamo possano produrre stimoli di ripresa, ma che al momento non registriamo”.

 

Mettete insieme le parole del capo degli artigiani del Veneto – che ha anche ricordato che per effetto del decreto dignità “si sono persi in Veneto ottantamila posti di lavoro perché altrettanti contratti a tempo determinato non sono stati convertiti a indeterminato” – con quelle del capo degli imprenditori della Lombardia, Carlo Bonomi, che pochi giorni fa ha rimproverato il governo per il suo atteggiamento da “stato paternalista che cerca un dividendo elettorale senza crescita e che torna a prepensionare aggravando il furto ai danni dei più giovani”. Unite queste affermazioni alle immagini degli oltre trentamila accorsi sabato scorso in piazza Castello a Torino per manifestare contro l’Italia a bassa velocità. Miscelate il tutto con l’insofferenza plastica manifestata dagli imprenditori e dai sindacati della Liguria e di Genova per l’insostenibile leggerezza e l’insopportabile lentezza con cui il governo sta gestendo la ricostruzione del ponte Morandi – e che potrebbe portare a organizzare a Genova, come hanno anticipato ieri Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, una marcia dei trenta o dei quarantamila sul modello di Torino (marcia che anche un importante parroco di Genova, don Giacomo Martino, direttore dell’ufficio Migrantes, ieri ha lanciato auspicando: “Dovremmo andare a De Ferrari e semplicemente stare seduti; dovremmo bloccare tutto, pacificamente”).

 

Unite tutti i puntini e avrete chiara la ragione per cui non ha torto chi sostiene che oggi il nord vive un paradosso mai vissuto prima d’ora. Il mattatore del governo, il Capitano, è il leader di un partito che si chiama Lega, e che in teoria dovrebbe mettere il nord in cima ai suoi pensieri. Ma proprio in questo momento, i nemici del nord, i nemici delle imprese, i nemici del benessere, i nemici del ceto produttivo, i nemici della pressione fiscale sono gli stessi che guidano il governo e che hanno scelto di mettere il Dio Po nelle condizioni di non avere più un suo partito di riferimento. E’ quello che ad alta voce hanno iniziato a urlare gli azionisti del partito del pil a tutti gli esponenti del governo. Ed è quello che a bassa voce ha notato nel suo libro appena uscito, “Il rito ambrosiano”, l’ex governatore della Lombardia Roberto Maroni.

 

Su Genova, scrive Maroni, “il governo ha fatto l’unica cosa che non doveva fare, ovvero scagliarsi subito contro i presunti colpevoli e scaricare le responsabilità su tutti i precedenti governi”. Sul lavoro, continua Maroni, “con il decreto dignità e il reddito di cittadinanza si è deciso di ricorrere, anziché a una seria politica di investimenti da realizzare soprattutto al sud, al vecchio asso nella manica del rito romano: l’assistenzialismo”. Sul piano generale, continua l’ex governatore leghista, “c’è una sordità assoluta nei confronti dei portatori di interesse”. La ragione per cui Matteo Salvini ha scelto coscientemente di lasciare il nord senza un partito è la stessa per cui il leader della Lega ha tolto la parola “nord” dal simbolo del partito: la scommessa è avere una Lega nazionale, capace cioè di sfondare anche al sud, e per sfondare al sud è necessario rinunciare a qualcosa del nord. In assenza di avversari, dal punto di vista elettorale la sfida di Salvini può funzionare. Ma se l’avversario un giorno dovesse coincidere con la realtà dei fatti, con la diabolicità dei numeri, con la spietatezza dell’economia, con la crudeltà della recessione, con la ferocia della decrescita, lo stadio degli artigiani inferociti del Veneto potrebbe diventare la regola del regime salviniano. Il Dio Po è inferocito. E qualcuno anche all’opposizione prima o poi se ne accorgerà: l’alternativa, quando ci sarà, in fondo non può che nascere da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.