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Elogio del rito ambrosiano

Roberto Maroni

Delle differenze, in politica, tra Roma e Milano. Tatticismo e capacità di adattamento contro ascolto e pragmatismo. Con qualche cortocircuito nel governo gialloverde. Il nuovo libro di Roberto Maroni, che scrive anche del leghista Salvini. Un'anticipazione 

Pubblichiamo in questa pagina ampi stralci di un capitolo dell’ultimo libro di Roberto Maroni, “Il rito ambrosiano. Per una politica della concretezza” (Rizzoli, 176 pp., 17 euro), da domani in libreria. Maroni, che firma sul Foglio la rubrica “I barbari foglianti”, è stato ministro del Lavoro e dell’Interno, oltre che governatore della Lombardia dal 2013 al marzo scorso.


   

Il rito romano non è sempre stato identico a se stesso. Nel corso del tempo ha subito contaminazioni e modifiche che in qualche modo ne hanno alterato la forma, ma certo non la sostanza. Credo che la sua principale capacità rimanga quella di adeguarsi, con straordinario e infallibile mimetismo, a qualsiasi situazione. Prendendone il peggio. A differenza del rito ambrosiano, che ha come scopo quello di risolvere i problemi e si adatta anch’esso all’evoluzione del contesto. Prendendone, però, il meglio. Le parole chiave di chi pratica il rito romano 4.0 sono diventate superficialità, frettolosità, imprudenza. Alle quali voglio aggiungere anche un atteggiamento tra i più deprecabili a cui può ricorrere chi ha responsabilità di governo: la teoria del complotto. Che cos’è e come si manifesta? Se ne è avuta riprova nel corso delle lunghe e travagliate polemiche che hanno accompagnato il dibattito sul reddito di cittadinanza e la messa a punto della Legge di stabilità per il 2019. Il copione seguito dai grillini è stato molto chiaro, persino banale. Sapevano che c’era un limite che non si poteva superare, quello dell’1,6 per cento nel rapporto tra deficit e pil, sapevano altrettanto bene che il ministro dell’Economia Giovanni Tria aveva preso accordi in tal senso con la Commissione europea, eppure, ciononostante, hanno voluto forzare la mano. L’obiettivo, abbastanza esplicito, era trovare qualcuno che dicesse loro di no. Inventarsi un nemico, infatti, produce un doppio risultato: da una parte si può dire ai propri elettori di aver mantenuto le promesse, di non essere arretrati di un millimetro rispetto al contratto di governo; dall’altra, se le cose vanno male, si può sempre gridare al complotto demo-plutocratico-massonico di romana memoria, che assolve da ogni colpa. Sono gli altri che ci ostacolano. Sono gli altri che ci impediscono di fare le riforme necessarie al benessere del paese. Non voglio arrivare a dire che Di Maio ambisca a essere sconfitto e a subire una condanna senza appello da parte della Commissione europea, però è indicativo che abbia voluto precostituirsi un alibi.

     

Come si sa, agli inizi di ottobre, una volta “strappato” il famigerato 2,4 per cento al ministro Tria, ci sono state le reazioni negative dei mercati finanziari, che hanno causato un improvviso e preoccupante rialzo dello spread, e critiche molto dure sono giunte dai partiti dell’opposizione (soprattutto Pd e Forza Italia) e anche da Pierre Moscovici, commissario europeo per gli Affari economici e monetari.

  

La Lega, dal canto suo, sta cercando di limitare i danni, ma è ormai evidente che la contrapposizione tra rito ambrosiano e rito romano si configuri come qualcosa di inedito rispetto al passato: prima era la burocrazia centrale, malata di assistenzialismo, a entrare in conflitto con il governo, che con la sua azione cercava di introdurre elementi di innovazione, efficienza, concretezza; adesso il campo di battaglia è diventato il governo stesso. Il rito romano grillino 4.0 significa più spesa pubblica assistenziale e sforamento dei conti pubblici. Il rito ambrosiano leghista, che ritrovo soprattutto nelle voci autorevoli e moderate di Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia, punta alla mediazione, a evitare gli scivoloni più rischiosi e rocamboleschi. Non è un’impresa facile, perché troppo spesso alcuni membri della maggioranza vogliono scimmiottare i comportamenti del mondo social, conformarsi alla rapidità estrema con la quale le generazioni della società liquida e digitale cambiano gusti, interessi, progetti di vita. Con una differenza sostanziale, che non possiamo non sottolineare. Un ragazzo di venti o venticinque anni può mettersi in testa di iniziare un lavoro, mollarlo dopo tre mesi perché si è già stufato e trasferirsi improvvisamente a Londra. Nessuno, giustamente, avrebbe granché da ridire. La faccenda diventa più seria se a manifestare questa forma mentis è un ministro della Repubblica. Perché nel primo caso le conseguenze di certe scelte ricadono nell’ambito circoscritto del singolo. Nel secondo no, c’è in ballo il destino di un intero Paese. E bisogna prestare la massima attenzione (…).

  

Guardando all’attuale governo, l’impressione è che i grillini agiscano solo in superficie. Ci si concentra su quello che si vede, che rimane a galla, senza dare troppa importanza alle correnti, talvolta impetuose, che si agitano sul fondo e che possono trasformarsi in tempesta. La rete e i social network svolgono un ruolo cruciale in questa battaglia. Circola la strana idea, infatti, che se centomila follower scrivono a un ministro dicendogli che su una certa materia sta facendo la cosa giusta, il ministro possa star certo che quella cosa è senz’altro giusta. A prescindere, direbbe Totò… Dimenticando che un ministro della Repubblica risponde prima di tutto alla Costituzione, su cui ha giurato, alla coalizione di cui fa parte, a un accordo di programma sottoscritto e (soprattutto) a un progetto strategico di cambiamento che oggi pare totalmente assente. E’ come se a prevalere fosse una rigida e distorta filosofia dell’hic et nunc, che guarda sempre e soltanto al risultato immediato, dell’oggi, senza che siano valutate, con la necessaria attenzione, le conseguenze che determinati provvedimenti, soprattutto quelli di politica economica e fiscale, avranno sul medio e lungo periodo.

  

Al momento, le armi per contrastare questa deriva appaiono spuntate. Il nuovo rito romano 4.0 è così: insidioso, camaleontico, social, dinamico. E’ tutto tattica e niente strategia. Anzi, è solo tatticismo. La sua principale preoccupazione è con quale dichiarazione mantenere alta l’attenzione del web e ottenere il maggior numero di like. Il pensiero ambrosiano del trovare la strada migliore per risolvere concretamente i problemi arriva sempre dopo. Se arriva. Gestire il potere secondo il vecchio rito romano corrispondeva a curare gli affari degli amici degli amici. Adesso, mi viene da osservare, si curano solo i propri.

  

Insomma, a farla da padrona non è la realtà, ma la sua immagine. Riflessa e spesso distorta dagli algoritmi. E’ qui che si gioca ormai il consenso. A ogni livello. Dal leader della più grande potenza mondiale, Donald Trump, che polemizza con Google perché sarebbe colpevole di selezionare solo le notizie negative che lo riguardano, ai troll che tramite falsi account influenzerebbero le elezioni, fino a manipolarne i risultati. Per non parlare, in casa nostra, degli spazi di confronto e di dialogo, che dalle aule del Parlamento si sono trasferiti in massa su Facebook e Twitter. Si tratta di una degenerazione culturale sempre più diffusa e pericolosa, che come sappiamo sta alterando la natura stessa del dibattito politico. Facendolo diventare qualcosa di diverso, qualcosa che i più faticano ormai a comprendere. Gli esperti, del resto, ci mettono in guardia: i meccanismi su cui si regge il mondo dei social si stanno facendo sempre più inquietanti, e gettano un’ombra sul futuro delle nostre democrazie. Come ha scritto di recente Richard Rogers, un docente dell’Università di Amsterdam che si occupa di questi argomenti, sui social le opinioni si polarizzano, si fanno estreme, nessuno rinuncia alle proprie idee, anche quando si dimostrano palesemente fallaci. Come se non bastasse, “ai like piacciono i like e più ce ne sono più il sistema mette quel messaggio, quel video o quella foto, in evidenza. Idee vicine si uniscono e non interagiscono con quelle differenti. Le proprie convinzioni si specchiano in quelle di utenti che la pensano come noi. E più si autoconfermano più si estremizzano”. Non è esattamente questo il livello attuale del dibattito politico in Italia? (…).

  

Venti, venticinque anni fa era letteralmente un altro mondo. Non solo per quanto riguarda la presenza dei social e la loro importanza come strumento di comunicazione politica. Sotto altri aspetti, penso che l’artefice della più importante evoluzione che ha subito il rito romano sia stato Silvio Berlusconi. Per una semplice ragione. Prima della sua avventura del 2001 a Palazzo Chigi, i governi duravano in media così poco che a comandare davvero era solo e soltanto la struttura burocratica ministeriale, incentrata sull’ossequio ai corpi direttivi e dirigenziali. Io stesso ne so qualcosa. Fu il motivo per cui nel 1994, quando diventai ministro dell’Interno, mi sentii un intruso al Viminale, mal sopportato da chi certi ambienti li conosceva e padroneggiava assai meglio di me (come ho avuto modo di raccontare).

  

Il secondo governo Berlusconi, invece, sembrava avere tutte le carte in regola per durare. Il rischio che potesse porre fine a pratiche e abitudini consolidate era dunque concreto. E il rito romano come reagì? Semplice. Si adeguò. Cambiò atteggiamento. Per prima cosa, smettendo di trattare il ministro da intruso, all’insegna del detto latino tamquam non esset (“come se non esistesse”). In fondo, con un ministro che “minaccia” di restare in carica cinque anni è sempre meglio scendere a patti, dimostrarsi pronti a collaborare.

  

Tuttavia, a voler essere precisi, quella provocata dal governo Berlusconi non fu una vera e propria evoluzione. Preferisco chiamarla “contaminazione”. Sì, perché il rito romano, obbedendo in maniera tutta sua alla legge di Lavoisier – “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” – è sempre alla ricerca del consenso e del mantenimento del potere. Il modo più efficace per raggiungere l’obiettivo è assicurarsi il coinvolgimento di tutti gli attori della commedia, che si ritrovano a recitare, ciascuno la propria parte, sullo stesso palcoscenico: lobbisti, portatori di interesse, vertici del sindacato, di Confindustria, delle associazioni di categoria. All’epoca, la parola magica era “concertazione”.

  

Per quanto possibile, come ministro del Lavoro cercai di porre un freno a questa prassi, promuovendo il cosiddetto “dialogo sociale tripartito”, che non era una fumosa formula burocratica inventata per ingraziarmi qualcuno ma, né più né meno, una proposta di indirizzo avanzata dall’Unione Europea. Nel caso dell’Italia, l’idea era quella di mettere governo, rappresentanti delle imprese e dei lavoratori sullo stesso piano. Seguendo una logica che allargasse lo spazio di trattativa e di discussione ai vari soggetti istituzionali. Attorno a un tavolo dovevano riunirsi il ministro e il suo staff (non più il ministero inteso come struttura burocratica autonoma), i sindacati (tutti quelli più rappresentativi, non solo Cgil, Cisl e Uil) e i portavoce delle imprese (Confapi, Confesercenti e altre sigle, non solo Confindustria). Come sempre accade nelle strutture che durano nel tempo e sanno perpetuarsi oltre le contingenze, sia le parti sociali sia il ministero mi sostennero. O, quantomeno, non mi ostacolarono.

  

E questo per la ragione che ho appena spiegato: era l’unico modo per restare in sella, presidiare lo spazio decisionale e dimostrare di saper ottenere il più vasto consenso. Un risultato simile però, ed è bene ricordarlo, non lo si ottiene per grazia ricevuta. Occorre costanza, abilità, fatica, pressione bassa (come nel mio caso). Anche l’elemento psicologico diventa indispensabile: serve a capire chi hai di fronte. Che talvolta è diverso da come appare.

  

E’ proprio questo bagaglio di attitudini e competenze che è venuto meno nel rito romano 4.0. Invece che fare proprie le caratteristiche salienti del rito ambrosiano – ascolto, pragmatismo, capacità di negoziazione – oggi si preferisce saltare ogni passaggio. Con le conseguenze che conosciamo (…).

  

Dal dicembre 2013, come tutti sanno, Matteo Salvini è il nuovo segretario federale. Con lui la Lega è sopravvissuta a una nuova crisi, una fine che sembrava già scritta. E ha garantito, in particolare, un ricambio generazionale che Forza Italia, per esempio, non è riuscita a promuovere, con i risultati che sappiamo. Uomo di movimento, eccellente comunicatore, Salvini ha non solo proseguito il cammino della Lega ma, scommettendo su una rappresentanza elettorale nazionale, le ha impresso anche una nuova direzione, fino a togliere la parola Nord dal simbolo del partito. Si è trattato di una mossa rischiosa, alla quale io stesso, lo confesso, ho guardato all’inizio con scetticismo. Ma i fatti gli stanno dando ragione: la Lega è al governo con il Movimento 5 Stelle e vola nei sondaggi. L’operazione, va detto, è stata resa possibile anche da una serie di fattori contingenti che hanno trasformato il quadro politico, ma che in ogni caso Salvini ha saputo interpretare alla perfezione: lo spazio vuoto lasciato dalla crisi del berlusconismo, la parabola discendente di Renzi dopo la sconfitta nel referendum del dicembre 2016, il problema dell’immigrazione che due anni fa, come adesso, stava mettendo a rischio la tenuta dell’Europa. In merito a quest’ultimo aspetto, trovo numerose similitudini con la mia passata esperienza di ministro dell’Interno: Salvini si sta concentrando sul divieto di sbarco nei porti italiani, io mi ero basato sui respingimenti, ma si tratta di due facce della stessa medaglia. Salvini si ritrova indagato per la vicenda della nave Diciotti, e anche io finii indagato (tutto fu poi archiviato); Salvini deve affrontare un forte contenzioso con l’Europa su questo tema e la stessa cosa era successa a me; Salvini ha avuto uno screzio con il ministero degli Esteri lussemburghese Jean Asselborn, io lo ebbi allora con il ministro degli Interni tedesco Hans-Peter Friedrich; identica appare anche l’incapacità da parte dell’Europa di reagire e offrire risposte concrete.

   

Può dirsi simile anche il modo in cui Salvini si sta ponendo nei confronti del rito romano 4.0? Be’, anche qui vanno fatte alcune considerazioni storiche. Ai tempi di Bossi e della Seconda Repubblica c’era Gianni Letta, il gran cerimoniere sia del rito romano sia di tutto ciò che si portava dietro: burocrazia, lobby, potentati, Vaticano… Era lui che mediava tra le forti spinte regionalistiche e indipendentistiche del Nord e tutto il resto. Allora un dialogo era ancora possibile.

  

Adesso la forza di Salvini sta tutta nel mutato clima politico della Terza Repubblica. Rispetto a Bossi, lui può concedersi il lusso di scendere a patti con il rito romano, così come di ignorarlo. Perché dietro il mondo pentastellato dei grillini non c’è alcun retroterra significativo. Esiste solo lo spazio impalpabile della rete, che causa degenerazioni, pressapochismi, demagogie, derive assistenzialistiche.

    

Diciamo che Salvini sta cercando di “contaminare” il rito romano 4.0 attraverso una serie di azioni forti, coraggiose, anche troppo gridate sui social, se vogliamo, ma non potrebbe essere altrimenti. Dopotutto, ha di fronte una sinistra smarrita, in crisi di identità, vittima delle sue stesse ossessioni ideologiche, che non sa fare altro che denunciare l’ansia “securitaria” della Lega, espressione cacofonica utilizzata per denigrare consapevolmente l’avversario. Fin dalle sue origini, la Lega ha avuto a cuore sempre e soltanto una cosa un po’ diversa: la sicurezza dei cittadini, delle famiglie.

  

Quanto all’immigrazione, il vero problema, non di Salvini ma della politica in generale, è che non esistono autentici strumenti legislativi che permettano di gestire in maniera efficace un fenomeno così ampio e complesso. Si possono solo ipotizzare investimenti a lungo termine, tra i quali rientrano l’organizzazione di campi profughi nelle coste africane, per gestire i trasferimenti e le richieste di asilo politico, e la progressiva formazione, sempre in Africa, di una classe media, come ha ipotizzato di recente Bill Gates.

  

Solo le elezioni europee del maggio 2019 potranno imprimere un’inversione di marcia all’Europa. E’ dalle urne di Bruxelles che potrà spuntare la soluzione. Il primo a saperlo è Matteo Salvini.

  

La contrapposizione tra rito ambrosiano e rito romano si configura come qualcosa di inedito rispetto al passato: prima era la burocrazia centrale a entrare in conflitto con il governo, adesso il campo di battaglia è diventato il governo stesso. Il rito romano grillino 4.0 significa più spesa pubblica assistenziale. 

  

La forza di Salvini sta tutta nel mutato clima politico della Terza Repubblica. Rispetto a Bossi, lui può concedersi il lusso di scendere a patti col rito romano, così come di ignorarlo. Perché dietro il mondo pentastellato dei grillini non c’è alcun retroterra significativo. Esiste solo lo spazio impalpabile della rete

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