Il governo Conte dopo il giuramento al Quirinale (foto LaPresse)

La pericolosità dei due governi paralleli

Luciano Capone

Quanto costa al paese avere figure apicali come Conte, Tria, Moavero Milanesi delegittimate dai vicepremier Di Maio e Salvini

Per gli osservatori esteri l’interpretazione dei riti e delle formule della politica italiana è stata sempre un esercizio complicato. Si pensava che il punto più elevato di questa tradizione fosse l’ossimoro politicista delle “convergenze parallele” e invece in questi mesi stanno assistendo alla nascita dei “governi paralleli”. L’esecutivo gialloverde è infatti una specie di mostro a due teste, non tanto perché formato da Lega e M5s, ma perché è rappresentato da due governi che agiscono in maniera simultanea e spesso disarmonica. Da un lato ci sono le figure che occupano i principali ruoli istituzionali: il premier Giuseppe Conte, il ministro dell’Economia Giovanni Tria e il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Dall’altro i leader che detengono il potere politico reale, i due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Non sempre e non necessariamente il leader politico di una maggioranza coincide con i principali ruoli istituzionali, spesso nella storia delle democrazie occidentali queste due figure sono state distinte, ma mai si era visto un esecutivo con due governi paralleli in cui quello con il potere politico delegittima continuamente quello con il potere istituzionale.

 

Un esempio plastico arriva da una giornata delicata come quella di oggi (9 novembre ndr): proprio mentre Tria era impegnato in audizione in Parlamento per spiegare la legge di Bilancio, in contemporanea Di Maio era in diretta Facebook in una conferenza con la stampa estera, oscurando le comunicazioni del ministro dell’Economia. Probabilmente lo scopo della conferenza stampa di Di Maio era anche quello di distogliere l’attenzione della stampa straniera dall’intervento della Banca d’Italia, successivo a quello di Tria, che ha definito “ambiziosi” gli obiettivi di crescita del governo dando così ragione alle stime della Commissione europea, anche perché l’aumento dello spread “è già costato al contribuente quasi 1,5 miliardi di interessi in più negli ultimi sei mesi – dice Bankitalia – e costerebbe oltre 5 miliardi nel 2019 e 9 nel 2020”.

 

Questa strategia scoordinata alimenta l’incertezza e disturba il confronto con l’Europa: sempre oggi il presidente dell’Eurogruppo Mário Centeno ha incontrato il ministro Tria e il premier Conte per parlare della manovra, ben consapevole ormai che ogni loro impegno può essere smentito da chi detiene il vero potere, Di Maio e Salvini, che però al confronto diretto con le istituzioni europee preferiscono l’insulto via social. 

 

L’opera di delegittimazione delle figure apicali del governo si è vista anche in altre circostanze, in particolare in alcuni viaggi all’estero. Perché se è vero che Salvini e Di Maio non parlano con Bruxelles, sono molto più loquaci con Mosca e Pechino. Lo scorso 24 ottobre il premier Conte è volato a Mosca per un incontro con il presidente russo Vladimir Putin, ma la sua visita era stata preceduta una settimana prima da un viaggio di Matteo Salvini.

Il 17 ottobre, giorno in cui si apriva a Bruxelles il Consiglio europeo, il ministro dell’Interno era andato a Mosca per dire: “Io qui a Mosca mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no”. Fissando così alcuni paletti sul senso della visita che di lì a pochi giorni avrebbe effettuato Conte. E’ difficile trovare un altro paese al mondo in cui un ministro dell’Interno riesca a scavalcare in maniera così plateale il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri.

 

Una cosa analoga è successa con la missione di fine agosto in Cina dove – caso più unico che raro – il governo italiano si è presentato con una doppia delegazione che sosteneva cose diverse e contraddittorie: una capeggiata dal ministro Tria, che diceva di non essere a Pechino per cercare di piazzare titoli di stato italiani, e l’altra del Mise (quindi di Di Maio) capeggiata dal sottosegretario Michele Geraci che invece puntava alla Cina come prestatore di penultima istanza in vista della fine del Quantitative easing della Bce.

Peraltro, tre mesi dopo Di Maio è tornato per la seconda volta in Cina, dove è stato autore della ormai celebre gaffe sul “presidente Ping”. Ma, probabilmente per riparare l’offesa, il suo ministero si è reso autore di un’iniziativa (segnalata da Katane, la newsletter del Foglio curata da Giulia Pompili) poco istituzionale e anche poco “sovranista”: sul sito del Mise è apparsa un’intervista del ministero dello Sviluppo economico all’ambasciatore cinese in Italia Li Ruiyu, in cui gli si chiede di commentare il viaggio a Pechino di Di Maio e le iniziative di Geraci. Un ministero che intervista un ambasciatore di un paese straniero sull’operato del proprio governo è qualcosa che non si era visto prima. E’ difficile immaginare che sia avvenuta con l’accordo e con il consenso della Farnesina, ma cionondimeno agli occhi degli osservatori ha un impatto sulla credibilità del paese. Il governo parallelo Di Maio-Salvini che delegittima continuamente il governo istituzionale Conte-Tria-Moavero è sicuramente un fattore rilevante dell’aumento di quello spread che è già costato al paese 1,5 miliardi. E che molti di più potrà costarne in futuro.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali