Matteo Salvini (foto LaPresse)

Gabelliere Salvini

Luciano Capone

Così la “flat tax” è scomparsa tra sgravi di propaganda, tasse al credito e deficit senza crescita. Perché la promessa elettorale leghista di ridurre la pressione fiscale è annegata in una manovra strabica

Roma. E’ vero che la politica è in gran parte narrazione, ma a un certo punto bisognerà tenere in considerazione anche i fatti. Lo storytelling prevalente, soprattutto per l’abilità mediatica del ministro dell’Interno sui temi legati a sicurezza e immigrazione, è che questo sia il “governo Salvini”, con il M5s completamente schiacciato sulle posizioni della Lega. Ma i numeri della manovra, appena arrivata in Parlamento, raccontano tutta un’altra storia: questo è il governo delle tasse e del deficit spending, è il governo M5s. Di Maio ha vinto su tutta la linea.

 

Prima di arrivare ai numeri e ai dettagli della legge di Stabilità, il quadro dei vincitori e vinti di questa trattativa può essere sintetizzato dalle dichiarazioni di due leader dei partiti di maggioranza. La prima è di Luigi Di Maio che, rispondendo al Corriere che chiedeva se non fosse stato meglio fare la cosiddetta flat tax della Lega al posto del reddito di cittadinanza, ha detto: “Hanno fatto loro una scelta politica. Sono le loro scelte per la legge di Bilancio. Io sono soddisfatto delle mie, se loro non sono soddisfatti delle loro non dipende da noi”. La seconda è di Giancarlo Giorgetti che il giorno seguente, rispondendo a Repubblica che chiedeva se non fosse stato meglio fare la flat tax prima della controriforma delle pensioni, ha detto: “E’ chiaro che l’approccio dei mercati e della Commissione sarebbe stato diverso se avessimo diminuito le tasse invece di aumentare le spese, ma ormai è fatta”. In pratica Giorgetti afferma che il governo ha sbagliato completamente impostazione e che la reazione della Commissione e dei mercati è comprensibile. Le parole del numero due della Lega non sono solo un giudizio negativo sulla manovra ma, soprattutto se incrociate con quelle di Di Maio, sono l’ammissione del fallimento del suo partito che si era presentato agli elettori promettendo a gran voce il taglio delle tasse e invece ha fatto il contrario.

 

Di Maio spiega con estrema semplicità che i due partiti si sono spartiti le risorse a disposizione. Il M5s ha scelto di puntare sulla sua bandiera, il reddito di cittadinanza, mentre la Lega ha messo la sua quota sulla cosiddetta “quota 100”, rinunciando al taglio delle tasse. Messa così sembra un pareggio, ma in realtà Di Maio ha ottenuto tutto ciò che voleva perché nel menù elettorale del M5s c’erano entrambe le portate, sia il reddito di cittadinanza sia il superamento della riforma Fornero. Ciò che distingueva il programma della Lega (e del centrodestra) da quello del M5s non era la controriforma delle pensioni (quello era un aspetto in comune), ma la cosiddetta flat tax. Pertanto, scegliendo di mettere la sua quota sulle pensioni, Salvini ha realizzato il programma del M5s. La manovra di un ipotetico governo Di Maio, monocolore grillino, non sarebbe stata molto diversa da quella gialloverde: ci sarebbe stato il reddito di cittadinanza, la “quota 100”, la disattivazione delle clausole di salvaguardia, qualche agevolazione alle piccole imprese e agli autonomi, la rottamazione delle cartelle e la cosiddetta “pace fiscale” senza gli aspetti condonistici.

 

Salvini ha raccolto un sacco di voti promettendo non una semplice riduzione della pressione fiscale, ma la “rivoluzione della flat tax”, il più grande taglio delle tasse della storia italiana. Ma nella manovra non c’è traccia. La Lega prova a rivendersi come “flat tax” l’estensione del regime forfetario dei minimi fino a 65 mila euro, ma è una misura che vale poco più di 300 milioni (più o meno come il bonus per i 18enni di Renzi). Un’altra misura di agevolazione fiscale per le imprese è la mini Ires sugli utili reinvestiti delle imprese, anche questa rivenduta come “flat tax”, che vale 1,1 miliardi. Ma entrambe queste misure sono più che compensate dall’abrogazione dell’Iri e dell’Ace, che per le imprese valevano insieme 2-3 miliardi, e dal taglio degli incentivi di Industria 4.0. Si aggiungono poi ulteriori tasse sulle banche, già in sofferenza per problemi loro e per l’aumento dello spread che incide sul capitale, per ulteriori 2 miliardi. In pratica le tasse aumentano. Nel Documento programmatico di bilancio inviato a Bruxelles, il governo scrive che nel 2019 la pressione fiscale resterà costante al 41,8 per cento, ma solo con una crescita dell’1,5 per cento, a cui crede solo il governo ma nessun osservatore o istituzione indipendente (nel terzo trimestre 2018 il pil è fermo). Questo significa che se come tutti prevedono l’anno prossimo ci sarà una crescita inferiore all’1,5 per cento, la pressione fiscale tornerà a salire dopo un triennio in cui è scesa dal 43,6 al 41,8 per cento (41,2 se si considera il bonus 80 euro). In questo si deve ammettere che davvero siamo di fronte a un governo del cambiamento. “Io sono soddisfatto delle mie, se loro non sono soddisfatti delle loro non dipende da noi”, dice Di Maio. “Sarebbe stato diverso se avessimo diminuito le tasse invece di aumentare le spese, ma ormai è fatta”, dice Giorgetti. Per il momento niente flat tax, chi ha votato Salvini dovrà accontentarsi di più tasse. Ormai è fatta.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali