Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Quanto è squalificante sbagliare il nome dell'uomo più potente del mondo

Giulia Pompili

Di Maio vuole la Cina ma ne sa poco. L’analisi di un esperto, Andrea Fischetti dell’università di Tokyo

Roma. Erano altri tempi. Per esempio quelli in cui Richard Nixon imparava alcune parole nella lingua del paese che visitava da capo del mondo libero: presentarsi nell’idioma straniero dimostrava eleganza e diplomazia, in realtà era una fine strategia di grandezza e predominio. Perfino l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, prima di parlare al Congresso americano nel 2006, passò ore a esercitarsi nella pronuncia. Oggi, però, la preparazione e lo studio non sono più considerati valori su cui contare, quantomeno nei rapporti internazionali. Ieri, nel suo secondo viaggio in Cina nel giro di due mesi, il vicepremier e ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio è volato a Shanghai per partecipare al China International Import Expo. Per ben due volte, sia durante il discorso all’Hongqiao International Economic and Trade Forum, cioè davanti a gente come Bill Gates e Jack Ma, sia durante la conferenza stampa successiva, Di Maio ha sbagliato il nome del secondo uomo più potente del mondo, il presidente cinese Xi Jinping, chiamandolo “Ping”.

  

  

“L’inadeguatezza diplomatica che Di Maio ha dimostrato nei confronti della Cina coincide con il momento in cui Roma ha compiuto una discutibile apertura a Pechino”, dice al Foglio Andrea Fischetti, ricercatore della Todai (Università di Tokyo). Ma non è il primo sgarbo diplomatico: “Anche durante la sua prima visita in Cina, Di Maio ha viaggiato in economy su un volo di linea. Giustificabile per soddisfare gli elettori italiani, ma una caduta di stile agli occhi della società cinese, che considera cerimoniali e ufficialità elementi vitali della vita politica e del business”. Chiamare il presidente Xi Jinping “Ping” – così come riportato anche sulla pagina Facebook di Di Maio, e corretto ben due volte dopo la pubblicazione, è un fatto più grave: “In Cina, come in molti altri paesi asiatici, il cognome viene utilizzato prima del nome. Quindi, il ‘first name’ di Xi Jinping è ‘Xi’, ma nonostante questo sia un ‘first name’, è in realtà il suo cognome. Jinping invece è il suo nome di battesimo. Chiamare qualcuno con cui non si ha confidenza usando il suo nome di battesimo, specialmente se si tratta del presidente, è sicuramente negativo in Cina. Ancor peggio, è sbagliare il suo nome”.

 

Tempo fa anche Matteo Renzi aveva chiamato “Shinzo” il premier giapponese Abe, ma nell’ambito di un rapporto diplomatico più disteso e confidenziale. Sbagliare un nome proprio, lo dicono centinaia di studi sulla psicologia umana, è come dire al proprio interlocutore che la sua esistenza su questo pianeta è pressoché ininfluente – talmente tanto che non sono nemmeno disposto a imparare il tuo nome. Il complicato rapporto che l’Italia sta ingaggiando con la Cina meriterebbe molta, molta più attenzione. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.