La necessità di un'opposizione sul modello Uber, contro lo sfascio

Claudio Cerasa

I vecchi taxi della politica non bastano più. L’Italia ha bisogno di trovare in fretta un’alternativa equidistante dalla Lega e dal M5s. Cosa fare per provare a votare il 26 maggio e non trasformare il congresso del Pd nell’eutanasia del riformismo

Come si fa a costruire un’opposizione sul modello Uber? La prossima settimana sarà la settimana in cui Marco Minniti scioglierà la sua riserva e deciderà cosa fare della candidatura alla guida del Pd. Salvo sorprese, sarà lui il candidato che sfiderà Nicola Zingaretti e questo giornale ne sarebbe lieto perché nel nostro piccolo lo scorso 30 luglio siamo stati i primi a dire che una battaglia tra l’ex ministro dell’Interno e il governatore della regione Lazio sarebbe stata l’unica capace di togliere la museruola al Pd. Il Pd, scriveva il Foglio, ha bisogno “di un congresso subito, da fare a febbraio”, di “una leadership vera, non ordinaria, e una competizione tra i volti che forse più degli altri – insieme ai Renzi, ai Gentiloni e ai Calenda – in questo momento rappresentano le due anime di un centrosinistra possibile, non due candidati premier del futuro ma due capipartito: Nicola Zingaretti e Marco Minniti”. Andrà probabilmente così e se davvero la sfida sarà questa per il Pd potrebbe essere una buona notizia, perché Zingaretti e Minniti rappresentano due anime alternative e complementari e dunque sintetizzabili di un Partito democratico che oggi si trova al suo minimo storico, sì, ma che ha di fronte a sé un’autostrada che in questo momento, fino a quando non emergerà un altro soggetto politico che inevitabilmente prima o poi affiancherà il Pd, è l’unico partito a poter percorrere con una certa coerenza: l’opzione al governo dello sfascio. Per provare a riportare il Pd non ai livelli irraggiungibili del 2014 (40,8 per cento) ma a quelli raggiungibili del 2013 (26 per cento) o a quelli non impossibili del 2008 (33 per cento) – in fondo Salvini in cinque anni ha preso un partito al 4 per cento e lo ha portato a più del 20 per cento e c’è chi dice persino al 30 per cento – ci sono alcuni paletti che meritano di essere fissati sul terreno da gioco.

  

Il primo paletto, tecnico, riguarda le candidature. Se il Pd vuole suicidarsi, e trasformare quello che potrebbe essere l’ultimo congresso della sua vita in una guerra tra bande e tra piccole e insignificanti correnti, fa benissimo a moltiplicare le candidature per accelerare la sua eutanasia politica. Se il Pd vuole invece provare a ragionare sul futuro, e non solo sul passato, dovrebbe fare uno sforzo ed evitare di far moltiplicare le candidature, limitandosi così a due o a massimo a tre nomi. Con pochi nomi, si può discutere di contenuti, di progetti, di futuro. Con troppi nomi si discute solo di se stessi. Il secondo paletto da fissare sul terreno di gioco riguarda invece l’approccio con il governo e qui ci rifacciamo a uno scambio di lettere avuto con un nostro lettore qualche giorno fa. Il nostro lettore ci ha segnalato un intervento pubblicato martedì da Marco Minniti e un’intervista a Nicola Zingaretti pubblicata qualche giorno prima sul Corriere. Zingaretti sabato scorso aveva detto: “Salvini ha come legittimo obiettivo quello di fare il premier. Quello che non capisco è perché i 5 stelle siano complici e vittime di questo disegno”. Minniti ha poi risposto: “Mi permetto di suggerire anche a quei potenziali dissidenti di essere meno ingenui verso la natura del Movimento cinque stelle, che con la Lega condivide un disegno autoritario e isolazionistico certificato da un’infinità di scelte e posizioni comuni. Dentro la coalizione non vi è una parte politica da liberare da una prigionia inflitta da un’altra parte politica”. Per il bene del Pd, e siamo sicuri che anche Nicola Zingaretti la penserà così, sarebbe necessario rivolgersi al governo senza commettere un errore che rischia di essere letale per il Partito democratico. E l’errore è questo: considerare Salvini e Di Maio alternativi l’uno con l’altro e provare a dividere il governo dimostrando che uno dei due (Di Maio) in realtà a certe condizioni potrebbe essere complementare al Partito democratico. Se il tema dell’alleanza sì o no con il Movimento 5 stelle diventasse il cuore del dibattito del Pd, il Pd è destinato a diventare una corrente del partito di Pietro Grasso e tanto vale a quel punto iscriversi a Leu. 

   

Se il Pd accetta invece di considerare questo governo per quello che è – ovvero considerandolo come un fronte compatto i cui leader fingono di litigare su tutto ma si trovano poi in perfetta sintonia sulle cose che contano, dalla visione dell’Europa, all’assistenzialismo, passando per le pensioni, il lavoro, il reddito di cittadinanza, i vaccini, lo statalismo il rapporto con la Russia – il Pd avrà la possibilità di essere percepito come un’alternativa coerente, solida e compatta agli azionisti del governo dello sfascio. In caso contrario, se il congresso fosse sull’alleanza sì o alleanza no con il Movimento 5 stelle, il Pd starebbe semplicemente concorrendo alla trasformazione del Movimento 5 stelle nell’unica alternativa alla Lega e starebbe in qualche modo certificando che il bipolarismo del futuro è quello presente all’interno della maggioranza di governo: Lega vs M5s. Un terzo elemento importante da considerare riguarda il tema della discontinuità con il passato e qui arriva come un meteorite la figura di Matteo Renzi. Sarà inevitabile che i candidati alla segreteria del Pd vogliano marcare una distanza dall’ex segretario, anche per provare ad allargare la base elettorale del partito. Ma prima o poi il Pd dovrebbe avere il coraggio di dire che per quanti errori Matteo Renzi possa aver commesso, il suo vero limite non è stato quello di aver fatto ciò che ha fatto, ma è stato quello di non averlo saputo fare abbastanza. Per questo le nuove coordinate del Pd non vanno abbattute ma vanno semmai rafforzate. Piccoli esempi. Può realisticamente dire oggi un elettore democratico che non sia stata una benedizione scesa dal cielo aver allontanato ogni tipo di giustizialismo dalla cultura progressista? Può realisticamente dire oggi un elettore democratico che non sia stata una benedizione scesa dal cielo aver trasformato il taglio della pressione fiscale in una battaglia di sinistra? Può realisticamente dire oggi un elettore democratico che non sia stata una benedizione scesa dal cielo aver trasformato il Pd in un partito schierato in difesa del partito del pil? Può realisticamente dire oggi un elettore democratico che non sia stata una benedizione scesa dal cielo aver trasformato il Pd nel partito schierato a difesa dell’euro? Può realisticamente dire oggi un elettore democratico che non sia stata una benedizione scesa dal cielo aver trasformato il Pd nel partito schierato a difesa dell’alta velocità? Può realisticamente dire oggi un elettore democratico che non sia stata una benedizione scesa dal cielo aver avuto dei governi che hanno contribuito a migliorare l’occupazione, a stimolare la crescita, a contenere i conti pubblici e persino a risolvere, senza purtroppo rivendicarlo abbastanza, diversi problemi legati alla gestione dell’immigrazione? E si può realisticamente negare oggi che sia una manna scesa dal cielo che il Pd non sia ostaggio del modello Landini e della dottrina Davigo?

   

Per chiunque sceglierà di candidarsi, nel Pd, sarà inevitabile dividersi sul passato ma sarà necessario non dividersi troppo sul futuro. E a proposito di futuro, un anno fa il Foglio lanciò una piccola provocazione al Pd che meriterebbe di essere riconsiderata. La proposta era questa: per dimostrare di essere alternativi al fronte unico sovranista il Pd deve fare quello che nessun partito nazionalista e protezionista avrà mai il coraggio di fare. Ovverosia: mettere i colori dell’Europa nel simbolo del proprio partito e trasformare l’Europa in una bandiera da mostrare per mettere in mutande tutti coloro che non hanno il coraggio di scommettere sull’Europa. Quell’appello venne firmato anche da Marco Minniti e da Nicola Zingaretti oltre che da Maurizio Martina. Un vero congresso del Pd, se ci pensiamo bene, non potrebbe che partire da qui, da questi princìpi non negoziabili, da questi valori non scardinabili, e da una convinzione precisa: prepararsi a guidare il Pd con l’idea di costruire un’opposizione sul modello Uber. Uber ha avuto il merito di dare un primo sfogo a una domanda esistente per la quale non esisteva un’offerta soddisfacente. Ha creato un’offerta innovativa costringendo i taxi a migliorare se stessi. Costruire un’opposizione sul modello Uber significa capire che in Italia esiste una domanda elettorale che al momento nessun partito sembra essere in grado di rappresentare fino in fondo: un’alternativa politica equidistante sia dalla Lega sia dal Movimento 5 stelle. Più il taxi del Pd riuscirà a rispondere a questa domanda e meno possibilità ci saranno che accanto al Pd nasca una nuova creatura politica. L’Italia ha bisogno con urgenza di un movimento dodici stelle, dodici come quelle della bandiera dell’Europa, da contrapporre alla Lega a cinque stelle. Non per fare del Pd uno strumento per manovre di palazzo ma per portarlo il prima possibile alle elezioni. La data c’è. Il 26 maggio. Europee e politiche. Un movimento dodici stelle contro una Lega a cinque stelle. Che aspettiamo?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.