Chiara Appendino (foto LaPresse)

Salvare la soldata Appendino. La zavorra olimpica su un M5s che ha trattato per perdere

Valerio Valentini

Così il sindaco grillino ha gestito nel peggiore dei modi l’intera partita sui Giochi

Roma. Deve avere pensato che la migliore difesa è l’attacco, e allora s’è subito affrettata a dire che la colpa era dei grillini romani, “che non sono stati attenti” nonostante le sue mille raccomandazioni. E ovviamente ha pensato bene di affidare questo suo sfogo ai giornali. Così Chiara Appendino, nel suo perenne sforzo di dissimulazione, ha cercato di sgravarsi da qualsiasi responsabilità: come se la figuraccia del M5s sulla candidatura olimpica non fosse, innanzitutto, da imputare a lei e alla sua incapacità di gestire un gruppo consiliare sempre più lacerato.

 

E insomma dopo avere stressato per mesi i vertici del suo partito, dopo avere preteso che da Roma piovessero le soluzioni che lei non era in grado di trovare, è infine riuscita perfino a innescare il risentimento postumo di buona parte degli esponenti di governi grillini. I quali, a leggere le sue accuse neppure troppo velate, reagiscono ora con rabbia, quasi d’impeto: “Bella faccia, che ha”. “Per mesi – dice chi pure ha provato ad accompagnarla in questo tortuoso percorso verso la candidatura olimpica – siamo stati zitti per seguire le sue bizze, e ora è questo il suo ringraziamento”.

 

La verità, d’altronde, è che la Appendino – la bocconiana efficiente, la sindaca “autonoma”, la pragmatica, quella che “visto? non abbiamo mica solo la Raggi, che è la Raggi?” – è sempre stata la vera zavorra su una trattativa che il M5s è stato obbligato a condurre per perdere, mentre altri puntavano a ottenere un successo reale. “Quando devi giocare sulla difensiva, quando devi preoccuparti più di non perdere una città che amministri anziché di strappare una candidatura olimpica, è evidente che fai la parte del vaso di coccio tra i vasi di ferro”. Appendino ha gestito l’intera partita nel peggiore dei modi: facendosi dapprima affascinare dall’idea – instillatale da quelle categorie produttive della Torino che conta, e che di lei si era innamorata – di riportare i cinque cerchi sotto la Mole; poi smentendo qualsiasi interessamento, quindi cercando scorciatoie ed espedienti che a lei dovevano apparire astuti, e che invece erano patetici (uno su tutti: trasferire la discussione dal Consiglio comunale a quello metropolitano, illudendosi di aggirare le rimostranze dei suoi consiglieri recalcitranti). Il tutto, peraltro, trattando i suoi consiglieri con sufficienza, tenendoli all’oscuro di tutto, e insomma inimicandosi non solo quella pattuglia di oltranzisti del No, gente cresciuta tra i centri sociali e i comitati ambientalisti torinesi, ma anche la maggioranza del gruppo che una candidatura seria, con costi contenuti, la avrebbe presa quantomeno in considerazione. Ne sono seguite liti e delazioni interne, riunioni concluse a tarda sera a Palazzo di città e condita da lacrime e sceneggiate della sindaca, che il 26 giugno arriva a minacciare per tre volte le sue dimissioni davanti ai consiglieri grillini. Quattro giorni dopo a Torino arriva Luigi Di Maio, fresco vicepremier chiamato dalla Appendino per cercare di disinnescare una faida ormai già degenerata. “Ci rassicurò dicendoci che avrebbero fatto un’analisi costi-benefici”, racconta ora uno dei grillini della Sala Rossa. Ma l’accordo vero, tra il capo del Movimento e la sindaca in preda a una crisi di nervi, è un altro, e lo spiega un ministro a cinque stelle: “Decidemmo che avremmo giocato per perdere, ma almeno avremmo salvato la giunta”. Insomma, sabotaggio interno? “Certo, perché lei aveva in mente, sennò, uno schema suicida”. Che era, in sostanza, questo: dimettersi, e sfruttare i venti giorni di margine prima di confermare il passo indietro per obbligare i vertici del Movimento a risolvere la partita, in un modo o nell’altro.

 

E allora, a Roma, Di Maio si è convinto, con la convinzione di cui si sostanzia l’arroganza dei neofiti che si credono più furbi di tutti, di poter fregare la Lega. Ha sfruttato le titubanze del Coni, che ha optato per una irrealistica candidatura tripartita, per avere un alibi da utilizzare all’ultimo minuto, sfilandosi in extremis. E così ha provato a fare: solo che Giancarlo Giorgetti aveva da tempo fiutato l’aria, e s’era preparato la soluzione di riserva, su cui aveva già ottenuto un primo, parziale via libera, dal Coni. Una candidatura tutta leghista, lungo l’asse Veneto-Lombardia, che anche il sindaco di Milano Beppe Sala ha dovuto poi accettare. E allora eccola, la rabbia di Appendino: “Doveva saltare tutto, questa era la promessa”, ha sbuffato con chi le ha parlato. “Mi avevano garantito che non ci sarebbero state opzioni B. E invece…”. Ma puoi davvero lamentarti della “disattenzione” dei tuoi referenti romani se accetti che a trattare con Giorgetti sia tale Simone Valente, uno che in cinque anni da deputato ha prodotto un solo disegno di legge (sulla “istituzione della figura del docente di educazione fisica e sportiva nella scuola primaria”), che è arrivato in Parlamento solo dopo che una faida interna al Meet Up savonese tolse di mezzo chi aveva preso più dei suoi 89 click, che ha scalato quel po’ che c’era da scalare nelle gerarchie interne del M5s grazie alla sua fedeltà a chi gestiva gli account delle chat interne, Erik Festa, che poi si è guadagnato l’incarico di sottosegretario di stato allo Sport perché laureato all’Isef?

 

“I nostri a Roma hanno sempre creduto di essere i più smagati degli altri”, dice un consigliere comunale torinese. “Ma gli altri facevano politica, noi i tweet”. E così ora la Appendino si dimena sotto il fuoco incrociato delle associazioni di categoria torinesi che la attaccano, e parla di “imboscata”, di un “doppio gioco” della Lega e del Pd. E così Luca Zaia e Beppe Sala hanno gioco facile nello stanarla: la invitano a ripensarci, la esortano a tornare al tridente. E lei nicchia, si schermisce, bofonchia giustificazioni che in realtà tradiscono il suo imbarazzo. Anche se poi, alla fine, la sua vittoria l’ha ottenuta anche lei: “Abbiamo salvato la giunta – dice un suo assessore – e questo basta. Alle Olimpiadi, in fondo, non ci avevamo mai creduto fino in fondo”.

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