Virginia Raggi e Chiara Appendino (foto LaPresse)

Esportare il movimento dieci novembre

Claudio Cerasa

Il 10 novembre a Torino contro la decrescita modello Appendino, l’11 novembre a Roma contro l’immobilismo modello Raggi. La nuova partita per l’opposizione e la trappola per Salvini. L’Italia può salvarsi solo con la rivoluzione del partito del pil

Forse sono solo piccoli segnali. Forse sono solo piccoli gesti di resistenza civile. Forse sono solo piccoli tentativi di non essere più tolleranti contro i professionisti del rancore. Ma la notizia che sabato prossimo a Torino scenderanno in piazza insieme gli industriali, gli artigiani, gli agricoltori, i costruttori edili, le cooperative, gli albergatori, i professionisti, gli architetti, i commercialisti, i sindacati della Cisl, della Cgil, della Uil, oltre che di Confindustria, per protestare “non contro qualcuno ma contro una politica che non tiene conto della realtà, che non dà futuro alle nostre imprese, alle nostre attività, ai nostri figli”, è una notizia da sballo, che ha un significato importante e che supera di gran lunga i confini della città catastroficamente governata da Chiara Appendino. La politica dei No contro la quale nasce la formidabile protesta torinese – No alle Olimpiadi, No all’alta velocità – è la stessa politica dei No usata dalla Lega di Matteo Salvini e dal Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio per guidare l’Italia ed è per questo che le ragioni per cui è nata la rivolta piemontese riguardano non una sola città ma un intero paese. Non c’è crescita se non si investe sulle grandi opere. Non c’è lavoro se non si investe sulle infrastrutture. Non c’è futuro se ci si isola dall’Europa. Non c’è efficienza se non si scommette sulla concorrenza. Non c’è prosperità se si trasforma l’immobilismo nell’unica forma di onestà consentita.

  

E’ difficile dire se dal punto di vista numerico la marcia degli indignati anti populisti potrà essere considerata una parente stretta della famosa marcia dei quarantamila organizzata a Torino il 14 ottobre del 1980 quando migliaia di impiegati e quadri della Fiat sfilarono insieme per le strade cittadine protestando contro i picchettaggi che impedivano loro di entrare in fabbrica. Dal punto di vista numerico si vedrà. Ma dal punto di vista simbolico è un fatto che l’indignazione del partito del pil è l’unica scintilla possibile che oggi può arginare, frenare e disarcionare i campioni della decrescita infelice. E se Roma non fosse la città senza spina dorsale che è diventata, la stessa indignazione anti populista che vedremo sfilare sabato a Torino – e che meriterebbe di sfilare anche per sbloccare la Tav e l’aeroporto di Firenze, anche per sbloccare il Terzo Valico di Genova, anche per accelerare i lavori per la Pedemontana – la dovremmo vedere domenica tra i seggi della Capitale d’Italia, dove nel silenzio generale si andrà a votare – grazie ai Radicali – per un referendum contro l’immobilismo, contro l’inefficienza e a favore della messa a gara dei bandi del trasporto pubblico romano, che dovrebbe avere un valore infinitamente più grande di una qualsiasi sentenza del tribunale di Roma su Virginia Raggi. Ma i fotogrammi della marcia che verrà organizzata sabato prossimo a Torino – marcia che arriva a due settimane dall’altra marcia civile e spontanea organizzata a Roma al Campidoglio contro l’altro sindaco grillino Virginia Raggi – avranno l’effetto di farci ragionare su almeno altre due questioni importanti che riguardano sia chi oggi si trova al governo sia chi oggi si trova all’opposizione. Il primo punto è evidente ed è un punto che riguarda la Lega.

 

Fino a oggi Matteo Salvini ha deciso di non difendere il ceto produttivo che la Lega avrebbe invece il dovere di rappresentare (vedi il disastro sul decreto dignità, vedi il disastro sulla flat tax, vedi il disastro sugli imprenditori trasformati in prenditori) e ha scelto così di rottamare il ragionevole partito della “Regione” rappresentato dagli Zaia, dai Giorgetti, dai Fontana e dai Garavaglia, per provare a conquistare alle europee il numero più alto possibile di elettori grillini. Il movimento 10 novembre che nascerà sabato prossimo tra le strade di Torino se non vedrà la partecipazione anche dei militanti e del gruppo dirigente della Lega diventerà come un pungolo dietro la schiena del leader leghista e permetterà di ricordare che il responsabile della decrescita dell’Italia non è solo il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio ma è prima di tutto la Lega di Matteo Salvini – la fondazione Hume guidata da Luca Ricolfi sostiene che visto l’andamento dell’economia ad aprile 2019, un mese prima delle Europee, l’Italia potrebbe essere già in recessione. E dunque il punto è sempre lo stesso: sulla Tav, sul Terzo Valico, sull’Atac, sull’aeroporto di Firenze fino a che punto Matteo Salvini accetterà di essere non parte di una soluzione ma solo parte del problema?

 

Il secondo punto da mettere a fuoco riguarda lo sbocco inevitabile del movimento 10 novembre. Gli organizzatori della manifestazione hanno suggerito di manifestare da privati cittadini e di lasciare a casa le bandiere dei partiti. Ma tutti coloro che sabato andranno in piazza a Torino a manifestare e che domenica andranno ai seggi a Roma per votare sanno che la bandiera giusta che il movimento 10 novembre dovrebbe portare in piazza è una e soltanto una. La Tav e l’Atac in fondo hanno un punto in comune. Chiedere di non rinunciare all’alta velocità significa chiedere di non rinunciare all’Europa. E chiedere di rendere più efficienti le aziende di trasporto pubblico locale significa restituire ai cittadini un servizio all’altezza di una capitale europea. Non sappiamo se il movimento 10 novembre produrrà un effetto uguale e contrario a quello prodotto in Spagna nel 2011 dopo la manifestazione del Movimiento 15-M (15 maggio) organizzato a Madrid dagli indignados. Sappiamo però che l’Italia si salverebbe se riuscisse a esportare da Torino il movimento di indignati anti populisti in tutto il paese. E sappiamo che anche se non ci saranno bandiere in piazza c’è una bandiera che da Torino a Roma meriterebbe di essere sventolata con forza contro l’Italia a bassa velocità sognata da Di Maio e Salvini: contro le cinque stelle del populismo non ci restano che le dodici stelle dell’Europa. Ci proviamo?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.