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Difendere il diritto d'autore significa difendere la democrazia

Claudio Cerasa

Tre ragioni per salvare il copyright dagli apostoli dell’anarchismo digitale

L’interessante dibattito che si è sviluppato nelle ultime settimane intorno alla legge sul diritto d’autore, che verrà votata oggi in Parlamento europeo, merita di essere messo ancora a fuoco selezionando tre temi importanti che riguardano un intreccio relativo allo sviluppo della rete, al futuro dell’informazione e allo stato della democrazia. Al centro di tutto il dibattito, come sapete, c’è l’articolo numero 11 della legge europea sul copyright, che prevede la creazione di un nuovo diritto che consentirebbe agli editori di pubblicazioni giornalistiche di ottenere un compenso per l’utilizzo digitale dei loro articoli. Contro questo articolo si è andata a costruire una corrente di pensiero guidata in Italia dal Movimento 5 stelle, e sostenuta dai colossi della rete, che punta a veicolare un messaggio che suona più o meno così: qualsiasi forma di regolamentazione della rete non può che coincidere con una limitazione delle potenzialità offerte dalla rete ed essendo la rete la forma di evoluzione più genuina della nostra democrazia voler regolamentare la rete significa mettere un bavaglio alla democrazia.

 

La tesi del bavaglio alla rete è un ridicolo gioco di prestigio utilizzato da tutti coloro che non hanno il coraggio di esporre fino in fondo la propria posizione sul diritto d’autore: solo chi sogna di aggredire i corpi intermedi della democrazia può negare che tutelare i produttori di contenuti è un modo per non regalare il mondo all’anarchismo digitale. Ma accanto ad alcune ragioni ideologiche che si trovano dietro all’ostilità manifestata su più fronti rispetto alla legge sul copyright si trovano altri due punti che meritano di essere analizzati e che riguardano il rapporto tra la rete e i canali di informazione.

 

La norma che verrà votata oggi in Parlamento prevede che i servizi internet debbano pagare un compenso agli editori per l’utilizzo dei loro articoli. Per comprendere la dimensione del problema bisogna avere in testa il caso dell’aggregatore di notizie più famoso del mondo: Google News. Tema: è giusto o no che una mastodontica rassegna stampa come Google News venga punita con una tassa solo per aver offerto ai suoi utenti l’anteprima di un articolo? Si potrebbe dire che in fondo Google News, mettendo in vetrina i contenuti di una testata, fa un favore agli editori, perché dà la possibilità alle testate di far crescere gli utenti sul proprio sito e dunque di aumentare i ricavi attraverso la pubblicità.

 

Ma chi sostiene questa tesi non sa, per esempio, che secondo la legislazione italiana già oggi una rassegna stampa può essere considerata rispettosa dei diritti d’autore solo a condizione che non abbia una valenza sostitutiva – e solo a condizione che non vada a “ledere il diritto dell’editore” attuando “atti concorrenziali con una riproduzione degli articoli pubblicamente e contestualmente” diffusi e “a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo” (tribunale di Roma, 18/1/17) – e in nessun modo dunque potrà essere considerata rispettosa dei diritti d’autore una rassegna come quella di Google News che può riportare potenzialmente tutte le anteprime degli articoli di un giornale. 

 

Chiedere a Google di non giocare con il diritto d’autore è una scelta saggia anche per questa ragione – e ha ragione Emmanuel Macron quando dice che “la vera autorità in Europa sono gli autori e il diritto d’autore deve dunque essere difeso nello spazio digitale contemporaneo” – ma le testate di informazione che rimproverano Google di offrire gratis i propri prodotti dovrebbero cogliere l’occasione della legge sul copyright per farsi un esame di coscienza e ragionare su un punto importante. Per spiegare l’incapacità degli editori di monetizzare i proprio contenuti digitali non basta scaricare le responsabilità sulla rete, ma occorre capire che se le tre righe di anteprima di un articolo messe in vetrina da Google vengono considerate un furto, in quanto permettono ai lettori di informarsi senza andare sul sito che ospita l’intero articolo, vuol dire che la vetrina è solo una parte del problema. E se a un lettore bastano solo tre righe per essere soddisfatto di una notizia il problema non riguarda Google ma riguarda chi non riesce a offrire contenuti unici per i quali valga la pena cliccare, o persino pagare. Quando qualcosa è gratis, diceva Steve Jobs, vuol dire che il prodotto sei tu. Vale in ogni caso. E vale anche quando si parla di editoria.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.