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Per combattere i populisti al Pd serve un leader liberale, europeista e di sinistra

Michele Salvati

E’ stata convenuta la data del congresso, prima delle elezioni europee. Ma ancora non abbiamo un’idea chiara della linea politica

La crisi del Pd è parte di una crisi più grave, quella del nostro paese e in particolare del suo sistema politico. La quale, a sua volta, sta all’interno della crisi dell’Unione europea e di (quasi) tutti i partiti di sinistra riformista che all’Unione appartengono. E quest’ultima, in buona misura, è influenzata da una crisi ancor più ampia, quella dell’ordine politico-economico multilaterale e liberale predominante per un breve periodo, dopo il crollo dell’Unione sovietica e fino alla grande recessione del 2007-2008. Ovviamente non si chiede a un partito politico di un paese di modeste dimensioni di dare risposte a una situazione di instabilità che coinvolge l’Europa e il mondo intero, ma di avere un’idea delle sue conseguenze al livello nazionale. E, sulla loro base, offrire agli elettori risposte credibili allo stesso livello, perché solo di queste possono decidere gli elettori in democrazia.

 

Credibili sono le risposte in cui gli elettori credono, non quelle giuste in astratto, secondo i migliori criteri storici e scientifici di cui disponiamo: credibili in questo senso sono risultate il 4 marzo le risposte dei due partiti populisti italiani, che certamente giuste non sono. La “credibilità” è un composto di due ingredienti: gli obiettivi che un partito propone agli elettori e l’immagine che gli elettori si sono fatta della sua qualità e dei suoi ceti dirigenti: se il partito ha governato, soprattutto l’immagine della sua prova di governo. Il problema principale del Pd è allora duplice. Da una parte quello di capire che cosa ha maggiormente scontentato i suoi potenziali elettori durante il periodo in cui è stato forza di governo, e dunque nel lungo periodo dei governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, dal 2011 al 2018. Non è facile dare una risposta e le controversie ideologiche si inseriscono già in questa analisi, ma ad una conclusione bisogna arrivare perché questa è necessaria anche al fine di affrontare il secondo problema.

 

Che è quello di rendere credibili risposte realistiche, accettabili in un contesto internazionale ed europeo, ma capaci di risolvere i problemi avvertiti dai cittadini come più importanti e, più in generale, di invertire la rotta di declino che il nostro Paese ha imboccato da molto tempo. E insieme risposte più eque, in grado di estrarre da questa fase poco benigna del capitalismo globalizzato e dalle difficoltà addizionali dovute alla scarsa efficienza del sistema economico e istituzionale del nostro paese il massimo possibile di uguaglianza di opportunità e di solidarietà nei confronti delle persone più svantaggiate. Al di là della varietà degli obiettivi storici concreti perseguiti dalla sinistra nei duecento anni della sua esistenza in un sistema liberale e poi democratico, questa è una costante identitaria. Ed è il motivo che mi rende scettico rispetto a richieste di mutamento di denominazione del partito.

 

E’ perfettamente vero che oggi l’obiettivo storico più importante è quello di combattere per una società aperta e contro il sovranismo dei populisti. Ma questo perché, nelle condizioni attuali, la sinistra liberale è convinta che il contrasto al sovranismo populista sia il modo migliore per attuare i valori di libertà ed eguaglianza che stanno nel suo Dna. Insomma, valori di fondo e obiettivo storico prevalente sono due cose diverse. Perché cambiare nome: per raccattare i pochi centristi ancora non allineati? Va benissimo, in Italia e in Europa, perseguire il disegno di un fronte anti-sovranista molto ampio, ma ciò è perfettamente possibile senza rinunciare all’ultimo brandello identitario riconducibile alla sinistra per un partito che voglia tornare al governo e dunque sottostare, a differenza dei populisti, agli obblighi di realismo politico-economico e di onestà verso gli elettori che questo comporta.

 

E vado veloce, perché ho già tediato i lettori del Foglio con una lunga difesa di una auspicabile mozione liberale di sinistra nel prossimo congresso (….). Nel mese e mezzo trascorso da quell’articolo, nel Pd sono avvenute alcune cose che mi lasciano perplesso sulla reale comprensione degli ostacoli che il partito deve affrontare. E’ stata di massima convenuta la data del congresso, all’inizio dell’anno prossimo, prima delle elezioni Europee. E’ stato nominato un segretario e una segreteria: un segretario che probabilmente non sarà uno dei protagonisti della sfida congressuale e una segreteria che raccoglie, come si dice, tutte o quasi le anime del Partito. Per quella sfida state avanzate due quasi-candidature, Zingaretti e Calenda. Si sono svolte importanti riunioni (vicine, ma al di fuori del perimetro ufficiale del partito) per definire possibili piattaforme congressuali. Più in generale, nel perimetro del partito, il fermento e l’ascolto dei militanti (gruppo però poco rappresentativo dei potenziali elettori) sono molto aumentati. La domanda è: si sono fatti effettivi passi avanti nel definire una sfida congressuale che risponda alle due esigenze di “credibilità” di cui sopra dicevo? Che fornisca un’immagine chiara e comprensibile di chi guida il partito e della linea politica per cui combatte?

 

A me non sembra. Nel periodo, non breve, che ci separa dal congresso, in una segreteria come quella che è stata da poco nominata i conflitti saranno inevitabili e ampiamente resi pubblici: in una decisione imminente e di grande importanza come quella sull’Ilva di Taranto, il partito abbraccerà la linea di Calenda o quella di Emiliano? O si dividerà, come al solito? Di fronte alle scelte inaccettabili di un governo a doppia trazione populista le occasioni per dividersi non mancheranno di certo. E, al di là delle singole occasioni, c’è un problema cui occorre prepararsi: che cosa avverrebbe se l’alleanza giallo-verde si spaccasse, il governo entrasse in crisi e si presentasse seriamente la possibilità di un governo 5 stelle-Pd al fine di scongiurare nuove elezioni (quella che Claudio Cerasa ha chiamato “la pazza tentazione dell’estate”)? Insomma, niente di nuovo sul fronte del partito, la solita confusione. Ma c’è almeno la speranza che la situazione cambi dopo il congresso e le primarie? Anche di questo è lecito dubitare.

 

Se la costruzione dell’immagine pubblica di Zingaretti sembra a buon punto –almeno tra i militanti di base più vicini al partito, quelli che sicuramente voteranno nelle primarie – la costruzione dell’immagine di un esponente di una sinistra europeista e liberale sembra ancora lontana, nonostante l’autocandidatura di Calenda: l’ombra del precedente segretario offusca ancora l’orizzonte e non rende facile identificare il campione della parte buona e ancor viva della sua eredità. Ma se questo non avverrà, la speranza che il partito invii un messaggio vincente e comprensibile di sinistra liberale difficilmente potrà realizzarsi. Dunque ancora un partito diviso, che probabilmente farà marcia indietro rispetto alla linea di sinistra liberale che Renzi, al di là dei suoi errori, aveva sostenuto. Una linea che però resterà forte nel partito e darà battaglia. Dunque conflitti, divisioni e incertezze.

 

Le elezioni europee dell’anno prossimo potrebbero essere un terreno ideale per una riscossa del Pd, specie se il duopolio populista al governo dovesse incappare in seri insuccessi: quale occasione migliore per far capire il disegno di Europa a cui esso aspira? Ma la confusione interna, e di conseguenza l’incapacità degli elettori di comprendere che cosa il partito voglia, o addirittura di collocarlo nello spazio tra destra e sinistra come Paolo Segatti ha mostrato di recente (…), rischiano seriamente di fargli perdere l’occasione.

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