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La fase onirica del Pd in preda a se stesso e ai felpastellati

David Allegranti

“Il Pd si spacca” è un luogo comune, si divideva anche prima ma adesso c’è un problema di identità politica

Roma. Il mestiere dell’opposizione – il più facile, si dice, perché un conto è governare un conto eccetera – improvvisamente è diventato ingarbugliato. Il paradosso è che nonostante i ruoli si siano invertiti – il Pd fuori dal Palazzo e il M5s e Lega dentro, con nuove corti e nuovi cortigiani – i felpastellati si muovono come se fossero ancora all’opposizione, in questa sorta di campagna elettorale permanente che serve a cancellare tutte le promesse irrealizzate delle ultime settimane con altre aspettative ancora più rutilanti. Risultato: il Pd, in piena fase onirica, ripete in continuazione di voler evitare “la conta” (c’è tutto un vocabolario della sconfitta che prima o poi andrebbe analizzato, come la “ripartenza dalle periferie”) e prova a spingere il congresso più in là delle Europee. L’effetto ottenuto però è il contrario.

 

La conta è in realtà già cominciata, come si capisce da alcuni “dettagli”: la segreteria è unitaria ma “il Pd si spacca” è un luogo comune anche oggi che è stato spaccato tutto il possibile. Pure prima si divideva, ma ora c’è da risolvere un problema di identità politica e culturale (a partire dal fatto che, mentre il governo giallo-verde utilizza il diritto penale come uno strumento contro i nemici sociali,  il Pd decide di non avere un responsabile giustizia nella segreteria).

 

Sicché, se un tempo qua era tutta liberal-democrazia, adesso che succederà? In attesa che arrivi una risposta, tra i Democratici ci si guarda con diffidenza e reciproco sospetto, persino tra appartenenti alla stessa corrente. E siccome il Pd è un partito democratico, come da ragione sociale, ognuno s’alza e dice la sua. Tra i renziani c’è chi non vede l’ora che Nicola Zingaretti vinca il congresso, così possono provare a uscire dal Pd per fare l’“En Marche” all’italiana. Prospettiva che non convince del tutto alcuni ex renziani: “Sognavamo Blair, ci ritroveremo con Renato Altissimo”, dice uno di loro. Altri invece pensano che extra Ecclesiam nulla salus, laddove l’Ecclesia sarebbe il Pd e il nulla sia un partitino dal cinque per cento.

 

Non mancano poi altre linee di frattura, più generali e sostanziali, sulle quali inevitabilmente finirà per strutturarsi il congresso: riaprire o no il confronto con il M5s? Se n’è parlato pure alla cena della corrente di Matteo Renzi giovedì scorso in una villa all’Aventino (dopo una giornata di sole ha diluviato, tutti sotto i gazebo; sembra la storia recente del renzismo). L’ex segretario del Pd si tiene lontano dagli appuntamenti ufficiali, alla direzione di lunedì non s’è neanche presentato. “Vuole dimostrare che dopo di lui c’è il diluvio”, dice un senatore. “E probabilmente ci sta riuscendo”. Il problema è che l’eredita renziana è un fardello, come dimostra la vicenda dell’airbus preso in leasing. “Si poteva anche ammettere la cancellazione del leasing... ma lo spettacolo costruito attorno a una decisione contabile (affitto vs penali) è pazzesco”, osserva Giancarlo Loquenzi.

 

“C’è voglia di uscire dalla fase un po’ depressiva”, spiega al Foglio Lorenzo Guerini, organizzatore della serata all’Aventino. “C’è un’Italia responsabile e coraggiosa, europea e liberale (nel senso della adesione piena all’idea della democrazia liberale che è il vero obiettivo dell’attacco da parte della destra sovranista e populista in tutta Europa) che cerca rappresentanza”. Insomma, niente dialogo con i Cinque stelle? “L’unico dialogo possibile con una tigre è farsi mangiare”, risponde Guerini citando Winston Churchill. D’altronde, si sa: la tentazione dell’estate di una parte del Pd è distinguere il M5s dalla Lega e dimostrare che i primi sono una costola della sinistra, dei compagni che sbagliano.

 

Insomma, la fase onirica del Pd è un misto di rassegnazione e bomba libera tutti. Ci sono gli aspiranti macronisti, gli aspiranti scissionisti, gli aspiranti dialoganti con il M5s, quelli che aspirano a rifare i Ds, quelli che semplicemente vorrebbero un congresso subito (Matteo Richetti gira l’Italia da mesi, tra poco rimane senza benzina), ci sono persino i teorizzatori dell’autonomia. Proprio ora che i leghisti hanno smesso di dire “Roma ladrona” arrivano gli emiliani a spiegare perché servirebbe costruire “una filiale autonoma del Pd dell’Emilia-Romagna” (Elisabetta Gualmini, vice di Stefano Bonaccini). “In vista delle prossime regionali abbiamo bisogno di rendere il più possibile autonomo il Pd dell’Emilia-Romagna dal Pd nazionale, fare capire che siamo un’altra cosa: il modello da seguire è quello del partito socialista catalano o della Csu bavarese”, ha detto al Corriere di Bologna. Un tempo c’era il modello autonomista toscano, ma s’è fermato a Rignano.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.