Matteo Salvini (foto LaPresse)

Una legislatura appesa al bacio tra Salvini e Di Maio

Claudio Cerasa

L’ostacolo al governo naturale non dipende dalle Camere ma dalla ricerca di alibi per non mantenere le promesse pazze

Ameno di un improvviso coinvolgimento del Pd nella partita per la presidenza delle Camere – coinvolgimento che costringerebbe il Partito democratico a non occupare con decisione l’unico spazio possibile da presidiare con forza in questa legislatura, ovvero l’opposizione allo sfascismo populista – qualunque risultato emergerà dalle partite di Camera e Senato non avrà l’effetto di influire su quello che a prescindere dalle votazioni di questo fine settimana resterà il vero tema di fondo di questa legislatura: l’unica maggioranza naturale per dar vita a un governo che sia pienamente espressione della volontà popolare è sempre la stessa ed è quella formata dai due vincitori del 4 marzo, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. I nomi che verranno scelti per sostituire Pietro Grasso e Laura Boldrini a Palazzo Madama e a Montecitorio permetteranno di disegnare molti suggestivi scenari sulla sabbia, ma quando il presidente della Repubblica comincerà ad avviare il percorso delle consultazioni con i gruppi parlamentari il punto sarà sempre lo stesso: per quanto possa essere un dramma economico per l’Italia avere un governo protezionista guidato da una coalizione che trae ispirazione dal peggio offerto dai Trump, dai Putin, dai Farage, dai Le Pen e dagli Orbán il 4 marzo gli elettori hanno offerto al Movimento 5 stelle e alla Lega un numero di parlamentari sufficiente per poter governare il paese.

 

Alla Camera la maggioranza necessaria è di 316 seggi e Di Maio e Salvini ne hanno 357 (227 più 130); al Senato la maggioranza necessaria è di 161 seggi e Di Maio e Salvini di senatori ne hanno 170 (112 più 58). Il bacio appassionato tra Salvini e Di Maio – meravigliosamente rappresentato ieri su un muro a due passi dalla Camera, e che il Foglio oggi vi regala in formato poster – potrebbe apparire innaturale immaginando lo scarso interesse che avrebbe il leader della Lega a rompere la coalizione con Forza Italia e a muoversi come junior partner di una maggioranza guidata da Casalino e Casaleggio e questa obiezione potrebbe avere un senso (anche se il pragmatismo di Berlusconi è tale che un governo M5s-Lega potrebbe ricevere persino l’appoggio esterno di Forza Italia). Ma se l’obiezione continua a essere quella ridicola, e diffusa, della “incompatibilità” tra i programmi del 5 stelle e della Lega, la risposta è ancora una volta no, non provateci. Per chi si fosse distratto negli ultimi mesi, Salvini e Di Maio – prendete fiato – hanno la stessa linea sulla legge Fornero (da abolire), sul Jobs Act (da eliminare), sui vincoli europei (da superare), sull’indebitamento entro il 3 per cento del pil (da non rispettare), sull’introduzione di dazi “alla Trump” (da sostenere), sull’obbligo dei vaccini (da cancellare), sul referendum sull’euro (da non escludere) e persino sul reddito di cittadinanza (il 5 stelle lo chiama così da sempre, il centrodestra lo chiama in modo diverso, lo definisce reddito di dignità, ma il costo dei due provvedimenti è lo stesso, 29 miliardi di euro all’anno, e anche le finalità sono simmetriche). Si dirà: ma se i numeri ci sono, se la volontà popolare è questa, se il programma è identico, cosa impedisce oggi ai due gemelli della protesta di formare un governo e di limonare allegramente a Palazzo Chigi?

 

Può sembrare un paradosso ma la ragione per cui è probabile che non nascerà un governo tra Di Maio e Salvini è legata proprio alla simmetria dei programmi: qualora i due dovessero mettersi insieme non avrebbero più alibi per non fare quello che hanno promesso. Il governo naturale dunque difficilmente nascerà non perché sarebbe impossibile ma perché, essendo naturale, costringerebbe Di Maio e Salvini a fare i conti con la non realizzabilità delle loro proposte. Di Maio e Salvini non possono dunque permettersi di governare da soli insieme perché sanno che le loro promesse sono al fondo incompatibili con l’interesse nazionale. Sanno che uccidere il Jobs Act metterebbe in crisi il sistema economico italiano. Sanno che archiviare la legge Fornero metterebbe a rischio la stabilità dei conti. E sanno infine (o speriamo che lo sappiano) che giocare con i fondamentali italiani in un momento in cui il nostro paese sarebbe il primo a essere colpito da una detonazione della guerra commerciale tra Unione europea e Stati Uniti metterebbe a rischio la tenuta dell’Italia. In fondo, se ci si pensa bene, Di Maio e Salvini si trovano di fronte allo stesso paradosso. Un governo populista, oggi, può nascere solo se entrambi i populisti rinunciano a fare quello che hanno promesso, mentre se nessuno dei due rinuncia a fare quello che ha promesso quel governo rischia di non nascere mai.

 

Per questo, a entrambi, serve un alibi per dire che ciò che si voleva fare non lo si può fare non per volontà ma per necessità. E per questo, fino all’ultimo, comunque andrà a finire, Di Maio e Salvini faranno di tutto per trasformare il voto delle presidenze delle Camere non nell’espressione di una maggioranza possibile, ma nell’espressione di una maggioranza impossibile anche se naturale: quella del bacio appassionato tra i due gemelli diversi del populismo italiano.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.