Come nasce la strategia politica dei compagni magistrati

Annalisa Chirico
Il terrorismo, le divisioni, la Costituzione come schermo per incalzare i governi. L’attivismo del partito delle procure spiegato con la storia a puntate di Md (e il suo primo processo interno). "La missione del magistrato democratico consiste adesso nella salvaguardia del carattere immutabile della Costituzione".

A partire dalla fine degli anni Settanta, l’alleanza tra magistratura di sinistra e politica di sinistra si trasforma in autentica osmosi con frequenti cambi di ruolo. Il primo riguarda Luciano Violante. Membro della giunta nazionale di Md con Generoso Petrella segretario, nel ’76 Violante abbandona la corrente in segno di protesta contro l’“insopportabile ambiguità” nei confronti del fenomeno terroristico, e comincia a lavorare presso l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia. Nel ‘79 prende la tessera del Pci ed è eletto alla Camera dei deputati. Petrella, a sua volta, sarà senatore comunista per due legislature. “Md era spaccata al suo interno – commenta Violante – e c’era una componente movimentista, esagitata, che corrispondeva al cosiddetto gruppo romano e considerava il brigatismo rosso come una montatura a opera di apparati dello stato. Questa fazione, anti Pci, faceva capo a Luigi Saraceni, padre di una terrorista. Poi ce n’era invece un’altra che simpatizzava per il partito di Botteghe oscure”. La figlia di Saraceni è Federica, brigatista condannata in via definitiva per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona. Saraceni senior sarà deputato per due legislature nelle file dei Ds e dei Verdi.

 

Qui potete leggere la prima puntata dell'inchiesta di Annalisa Chirico su Magistratura democratica

 

In un certo senso, per una lunga stagione Md e Pci si muovono lungo un percorso parallelo: da una parte e dall’altra, ci sono “comunisti ortodossi” e quelli affascinati dalle sirene della sinistra extraparlamentare. “Io direi piuttosto che Pci e Md –puntualizza Violante – si muovono lungo la medesima corsia ideale. Almeno all’inizio il giudice è un nemico agli occhi dell’elettorato di base. Il Pci rivendica il monopolio esclusivo della politica. Soltanto in seguito all’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, il rapporto del giudice con la base comincia a mutare”. A quel punto il giudice si trasforma nel supremo vendicatore della classe operaia contro la giustizia borghese. A un convegno di corrente Antonio Bevere, all’epoca sostituto procuratore del tribunale di Milano, detta la linea: “Il capitalismo è il vero nemico della democrazia”.

 

1969: l’ordine del giorno Tolin provoca una scissione interna. Il 30 ottobre di quell’anno il professore padovano Francesco Tolin, direttore responsabile della rivista Potere operaio, pubblica un articolo dal titolo “Sì alla violenza operaia”. Il 24 novembre viene arrestato e processato per direttissima: l’accusa è istigazione continuata a delinquere. Siamo nell’Autunno caldo, a Milano e Roma alcuni tipografi arrivano a chiedere il preventivo visto della questura prima di stampare un manifesto delle organizzazioni sindacali e politiche. L’arresto immediato di Tolin e la condanna a diciassette mesi di carcere senza condizionale suscitano aspre reazioni. Sessanta giornalisti Rai firmano un appello per la sua scarcerazione. Il 30 novembre l’assemblea nazionale di Md, riunita in via Galliera a Bologna, approva un ordine del giorno, frutto di una travagliata discussione interna, in cui si esprime preoccupazione per “un disegno sistematico operante con vari strumenti e a vari livelli, teso a impedire a taluni la libertà di opinione”. La scissione è datata 20 dicembre: presso l’albergo Minerva di Roma i moderati, bollati spregiativamente come “socialdemocratici”, esigono una retromarcia rispetto al controverso odg Tolin e accusano i colleghi di essere “schiavi dell’ideologia sessantottina”.

 

Ma che cos’è accaduto nella parentesi temporale intercorsa tra l’approvazione dell’odg e la richiesta di dietrofront? 12 dicembre, strage di Piazza Fontana. La madre di tutte le stragi. Diciassette morti e quasi novanta feriti. “Resto convinto che senza quell’evento traumatico la scissione non ci sarebbe stata, o forse sarebbe stata rinviata. La bomba ebbe un effetto lacerante, suscitò reazioni umane impreviste. La posta in gioco era altissima. Nessuno di noi sapeva che cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco”. Parla così Giuseppe Pulitanò, iscritto Md sin dal suo ingresso in magistratura nel 1968. Abbandona la toga dodici anni dopo quando ottiene l’agognata cattedra universitaria di diritto penale. Pulitanò, come Violante e Gian Carlo Caselli, è fautore della linea dura contro l’estremismo violento. “L’odg Tolin non era nel mio stile, era nel clima del tempo”. Quando il processo per la strage di Piazza Fontana viene trasferito a Catanzaro per motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto, la giunta milanese di Md approva un documento critico. Passano pochi giorni e il Csm apre un procedimento disciplinare nei confronti dei promotori Pulitanò, Greco e Guido Galli (che sarà ammazzato nel 1980 da un nucleo di Prima linea). “Nel ’74 fummo completamente assolti – ricorda Pulitanò, esponente della destra Md – Il clima era talmente esasperato che ogni accenno critico era visto con sospetto. E’ innegabile che tra noi ci furono degli eccessi, alcuni colleghi del gruppo romano erano letteralmente innamorati della Rivoluzione culturale di Mao Tse-Tung. Tuttavia l’ambiguità di chi diceva né con lo stato né con le Brigate rosse non ebbe mai echi nella corrente. La diversità di approccio era piuttosto tra chi protestava le ragioni del garantismo in senso assoluto, e chi invece, come me e Violante, riteneva che la priorità fosse una soltanto, contrastare il terrorismo senza se e senza ma”.

 

Così sul finire del ’69 i moderati guidati da Beria d’Argentine danno vita a una nuova corrente, Giustizia e Costituzione (dopo qualche tempo, questa prenderà il nome di Impegno Costituzionale da cui nascerà poi Unità per la Costituzione). “Andammo a cena in una trattoria dietro il Pantheon. Tre Md; freddo di fuori e freddo di dentro. Mi ricordavo il tempo di guerra, quando intorno a un po’ di brace ci si stringeva serrati per godere di tutto il poco calore che dava”, così Marco Ramat, strenuo difensore dell’odg Tolin, ricorda i minuti successivi alla rottura quando insieme a Petrella e a Luigi De Marco prendono atto della impossibilità di ricomporre la frattura. “Il nostro piccolo Vietnam”, commenta Petrella. In Md rimangono i duri e puri, quelli che non hanno paura di intervenire su un processo in corso perché nessuno deve finire dietro le sbarre per un reato di opinione.
Eppure le contraddizioni interne a Md si manifestano sin dalla metà degli Anni Sessanta con le cosiddette “contro inaugurazioni” dell’anno giudiziario. Ottorino Pesce, anima della sezione romana di Md, è l’ispiratore della contromanifestazione a opera di magistrati che contestano la tradizionale e pomposa inaugurazione istituzionale. Pesce è lo stesso che muore d’infarto nel gennaio 1970, e ai funerali è presente il capo della Resistenza Ferruccio Parri. La commemorazione si tiene fuori dal palazzo di giustizia, quando la bara si allontana da piazza Cavour sventolano decine di bandiere rosse e tutti, compresi i magistrati presenti, la salutano con il pugno alzato. L’ultima pagina de L’Unità è invasa dai necrologi in suo onore, uno di essi recita testualmente: “E’ morto Ottorino Pesce, magistrato, militante della classe operaia. Lo ricordano i compagni…”, e via un profluvio di nomi illustri, tutte toghe rosse.

 


Inaugurazione dell'anno giudiziario (foto LaPresse)


 

“Io non ero d’accordo con le contro inaugurazioni, e non ero il solo”, precisa Violante. Nel ’69 le contro inaugurazioni si tengono a Roma, Milano, Bari e Bologna. Il 9 gennaio 1969 Pietro Nenni appunta sul diario personale: “Cenato da Saragat. Stamattina inaugurando l’anno giudiziario al Palazzaccio s’è trovato coinvolto anche lui in un episodio della contestazione. Avvocati, magistrati che accusano parlamento e governo per disfunzioni giudiziarie e fanno a botte tra loro sui rimedi da apportare”. Vittorio Borraccetti, già segretario di Md e membro del Csm tra il 2010 e il 2014, ha vivida memoria dell’anno 1969. “Ero appena entrato in magistratura e m’iscrissi a Md. La battaglia sul’odg Tolin era una battaglia squisitamente liberale. Volevamo non solo opporci all’arresto di una persona per un reato d’opinione ma contestavamo inoltre una norma che prevedeva l’autorizzazione della questura per la stampa di manifesti. Quel giorno a Bologna non ero presente ma ero ugualmente favorevole”. Era presente invece Violante che difende tuttora lo spirito dell’iniziativa. “Nessuna interferenza col processo in corso. Era un’autonoma presa di posizione del tutto legittima”.

 

A Bologna c’era Libero Mancuso: “Sono tuttora iscritto alla corrente seppure in pensione dal 2006. Con l’odg Tolin rivendicavamo il diritto di critica, e prendevamo le distanze da quei giudici che lo avevano negato in un clima di intimidazione che rappresenta, scrivemmo, un grave sintomo di arretramento della società civile”. In altre parole, Md rivendica in quegli anni il diritto di contestare apertamente l’operato di alcuni magistrati in procedimenti specifici. Si celebra il processo al processo. “Sempre al fine di difendere i valori della Carta costituzionale, beninteso – rincara Mancuso – Senza partigianerie al di fuori di quella militanza”. Eccovi servita la parola chiave: militanza. Di sinistra. “Md delle origini è cosa diversa da quella attuale. Oggi assistiamo a un declino dovuto alla presenza più invasiva del correntismo quale strumento di affermazione carrieristica. Il che è avvenuto a causa della crisi delle idee, della politica e del prevalere delle correnti latrici di derive clientelari”. Mancuso, che da toga eretica di sinistra indaga sugli intrecci tra coop rosse e mafie, voterà al prossimo referendum costituzionale? “La riforma Renzi è persino più aggressiva e pericolosa della vecchia riforma Berlusconi. Non mi tirerò indietro neanche questa volta”. Di parere opposto Pulitanò che come Mancuso ha abbracciato l’attività forense: “Voterò a favore della riforma. E ritengo ragionevole non coinvolgere in questa diatriba un gruppo di magistrati associati, Md dovrebbe starne fuori. Non ne faccio un discorso di legittimità ma di opportunità, un elemento che per un magistrato conta”. O almeno dovrebbe contare.

 

Tirarsi indietro, mai. E’ un motivo ricorrente. Chi lotta non si tira indietro. Chi è investito di una missione non si tira indietro. La svolta, come si diceva, avviene attorno all’odg Tolin: la “scissione socialdemocratica” va di pari passo con la radicalizzazione interna a Md. “Il punto è che noi siamo figli del Sessantotto ma la nostra vita ha avuto un seme radicato nella storia delle lotte del movimento operaio. E se non siamo scomparsi dalla scena politica alla pari di altre espressioni del Sessantotto è perché siamo cresciuti con quelle lotte e a fianco di essere”, scrive Francesco Misiani, storico fondatore di Md. Ma che cosa significa “essere figli del Sessantotto”? Negli stessi mesi del contestato odg Tolin a Roma due giovani del movimento studentesco sono arrestati dalla polizia. Il fascicolo è trasmesso al sostituto di turno, Franco Marrone (lo stesso del viaggio in Cina in compagnia di Misiani). Il giorno dopo il Tempo denuncia l’assegnazione del fascicolo a una toga “maoista”. Prontamente il procuratore capo gli sottrae il fascicolo e lo affida a un più mite collega. Il 12 maggio 1970 durante un convegno a Sarzana Marrone spiega alla platea che secondo un’analisi marxiana del diritto la legge consacra i rapporti di forza esistenti ma non è in grado di modificarli. Perciò, prosegue Marrone, “i magistrati sono servi dei padroni”. L’affermazione ardita gli costa un processo penale per vilipendio all’ordine giudiziario, alla fine ne esce assolto.

 

Negli anni di piombo la corrente, muovendosi lungo la medesima “corsia ideale” del Pci, è chiamata a fare i conti con il terrorismo rosso, non laccato di rosso. Ne sa qualcosa Gian Carlo Caselli, iscritto Md sin dall’ingresso in magistratura nel ’67, tra i primi a comprendere che “non ci trovavamo di fronte a Robin Hood ma a un gruppo di assassini”. L’8 settembre 1974 i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa arrestano a Pinerolo, vicino Torino, i capi delle Br Renato Curcio e Alberto Franceschini. Le indagini sono coordinate dal pm Bruno Caccia e dal giudice istruttore Caselli. In un’intervista rilasciata a Repubblica nel 2014, Caselli rievoca un successivo incontro con Franceschini a Rebibbia: “Era un arrogante. Si dichiarò rivoluzionario di professione. E mi chiese: dottor Caselli, lei non è di Magistratura democratica? Io risposi: sì, perché? Lui era convinto che essere di Md significasse avere un atteggiamento di condiscendenza verso la violenza”. Ci volle del tempo, evidenzia Caselli, per “rompere il muro di ambiguità dei compagni che sbagliano, i complici silenzi di certi intellettuali”. Si dovette assistere alla “vergognosa campagna contro il commissario Calabresi che pagò con la vita quelle menzogne”, fin quando si ottenne “la fine delle contiguità e degli appoggi che avevano portato molti a non vedere la tempesta che stava addensandosi”.

 

Nel ’76 Violante decide di interrompere l’iscrizione alla corrente per via dell’“insopportabile ambiguità” nei confronti della violenza armata. “Ricordo chi, come Giorgio Bocca su L’Espresso, prendeva in giro noi magistrati che istruivamo i processi contro i terroristi. Ai funerali di Casalegno, davanti alla chiesa del quartiere Crocetta, non c’era quasi nessuno”. Nel ’77 Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa di Torino, è il primo giornalista a essere ucciso da un commando delle Br. “Berlinguer parlava di fascisti rossi perché in effetti l’unica violenza che l’Italia aveva conosciuto era quella fascista. Per estirpare il fenomeno fu necessaria l’attività repressiva, e poi servirono decine di assemblee nelle sedi di partito, nelle parrocchie, nelle fabbriche per convincere l’opinione pubblica che eravamo alle prese con la violenza eversiva di sinistra”.

 

“Il fatto terroristico – spiega Borraccetti – aiutò tutti noi a fare chiarezza al nostro interno. Ci volle del tempo, è vero, ma alla fine le zone d’ombra scomparvero e Md si schierò compatta contro il terrorismo. Molti di noi imbastirono i processi contro il terrorismo rosso e nero. Tuttavia, domando, che senso ha soffermarsi su qualche frangia facinorosa di quarant’anni fa quando poi, ai giorni nostri, si accolgono con tutti gli onori esimi intellettuali già militanti di Lotta Continua?”. Ecco, che senso ha. Nel 2013 Caselli abbandona Md in seguito alla pubblicazione di un pezzo di Erri de Luca sull’agenda annuale della corrente. “Euridice alla lettera significa trovare giustizia […]. Ho fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla”, scrive Erri de Luca. A proposito degli anni di Piombo, “si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici. […] Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali”. Caselli, procuratore capo di Torino e oggi, dopo un percorso non sempre lineare, simbolo della lotta alla violenza armata in Val di Susa, sfoglia la rivista della “sua” corrente che ha deciso di accogliere il contributo “culturale” dello scrittore pasdaran no-Tav con un passato da responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua.

 

L’iniziativa appare come un duplice affronto verso chi, con indosso la toga, ha rischiato la vita per contrastare la violenza brigatista e, in tempi più recenti, ha accusato di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico i responsabili degli assalti ai cantieri di Chiomonte. E’ come se un’intollerabile ambiguità tornasse a solleticare gli istinti profondi della corrente. E non è un mistero che alcuni autorevoli esponenti, in primis Livio Pepino, contestino radicalmente l’imputazione per terrorismo. Pepino, classe 1944, ex presidente Md e membro del Csm, già direttore di Questione giustizia e co-direttore di Narcomafie (“mensile redatto in stretta collaborazione con Libera”), bolla pubblicamente l’imputazione terroristica come un “fatto di inaudita gravità”. Quando la corte d’assise di Torino condanna i quattro militanti no-Tav a tre anni e sei mesi per porto d’armi da guerra, danneggiamento seguìto da incendio e violenza a pubblico ufficiale, Pepino esulta perché i quattro sono assolti dall’accusa di terrorismo: “C’è un giudice a Torino!”. Questa volta la misura è colma.

 

Dopo la pubblicazione dell’articolo deluchiano, Caselli non proferisce verbo, non si ferma a spiegare, non gli interessa più persuadere i colleghi che con la violenza non si scherza. Per lui la stagione Md è definitivamente chiusa. Caselli si dimette. A un anno di distanza rompe il silenzio: “Non mi preoccupa l’eventuale rinascita di un partito catacombale e clandestino come furono le Br. Mi sembra fuori dalla realtà e spero di non sbagliarmi. Mi preoccupa il ripetersi in certi ambienti intellettuali di oggi delle stesse ambiguità di allora di fronte alla violenza delle frange estreme. Mi preoccupa il ritorno, in sedicesimo, della stagione dei compagni che sbagliano. Mi preoccupano le predicazioni di intellettuali miopi e nostalgici che possono far credere a chi ha già pochi filtri critici che stia riproducendosi il clima di allora”.

 

Gli anni di piombo. Le fratture dentro Md. Il no alle leggi emergenziali, al decreto Cossiga, all’allungamento dei termini di carcerazione preventiva. Il ’78 e l’assassinio di Aldo Moro. Il ’79 e il “processo 7 aprile” con decine di imputati per associazione sovversiva e banda armata (tra questi Antonio Negri e Giuseppe Nicotri). Il pm che coordina l’inchiesta padovana, Pietro Calogero, afferma: “Un unico vertice dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega Brigate rosse e gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alle basi dello Stato”. All’interno di Md si fronteggiano due anime: i “garantisti ortodossi” e quanti invece intendono farsi carico delle esigenze della lotta al terrorismo, anche a costo di attenuare lo zelo garantista. Borré, presidente Md dal ‘78 all’‘86 e fondatore della rivista Questione giustizia (di cui resterà direttore per quindici anni), tenta insieme al segretario nazionale Salvatore Senese -– tre legislature targate Ulivo – un delicato esercizio di equilibrio tra le divergenti spinte interne. La destra Md, capitanata da Pulitanò e Greco, aderisce alla linea dell’intransigenza. “La verità – chiosa Violante – è che, una volta che Md fece finalmente chiarezza al suo interno e ruppe ogni contiguità, diversi magistrati iscritti alla corrente diventarono bersaglio dei brigatisti”. Nel libro “Le catene della sinistra” Claudio Cerasa riporta un elenco delle vittime togate del fuoco estremista.

 

Tra il 1976 e il 1990 ben undici pm muoiono assassinati da Br, Prima Linea e Ordine Nuovo. Tra i caduti per mano dei terroristi di estrema sinistra ci sono Emilio Alessandrini, Francesco Coco, Guido Galli e Girolamo Tartaglione. “Ripercorrendo quella sequela di morti – prosegue Violante – capisci come tra noi sopravvissuti sia nata un’amicizia speciale, un legame simile a quello che si salda tra chi combatte in trincea e riesce a tornare a casa sano e salvo. E’ questa la natura del mio rapporto con Gian Carlo”, un nome che fa il paio con Caselli.

 


Alcuni volantini delle Br (foto LaPresse)


 

 

Anni Ottanta. Craxi e il craxismo. La strategia del “pentapartito”. Tutto ha inizio nel 1981 con il “patto del camper” quando, a margine di un congresso del Partito socialista italiano, il democristiano Arnaldo Forlani e il segretario socialista Bettino Craxi siglano un patto di governo, con la benedizione di Giulio Andreotti. Craxi è leader di minoranza estraneo alle due chiese, Dc e Pci, e determinato a conquistare palazzo Chigi. Nel volume “La costituzione e i diritti. Una storia italiana”, scritto a quattro mani con il collega di corrente Gianfranco Viglietta, Palombarini liquida il “decennio da bere” come contraddistinto da “un nuovo modo di gestire la cosa pubblica, disinvolto e spavaldo”. La stagione dei diritti civili degli anni Settanta – statuto dei lavoratori, divorzio, diritto di famiglia, aborto, referendum – ha comportato una mutazione sociale. “Abbiamo modernizzato il paese”, rivendica Violante. “Il paese si è modernizzato da solo – replica Pulitanò – Tra noi di Md alcuni hanno fatto bene, altri no. La storia non dovrebbero scriverla mai i protagonisti”. Quel che è certo è che l’Italia degli anni Ottanta è molto diversa da quella in cui Md ha visto la luce nel ‘64. Il disgelo della Costituzione è ormai compiuto.

 

14 ottobre 1980, la “marcia dei quarantamila”: a Torino impiegati e quadri Fiat sfilano a sostegno dell’azienda contro i picchettaggi che da oltre un mese impediscono l’accesso in fabbrica. La retorica del capitale contro il lavoro subisce un duro smacco. Nel 1981 dinanzi al comitato centrale del partito Craxi espone un programma “riformista” (bestemmia) che comprende, accanto al rafforzamento dell’esecutivo (seconda bestemmia), la “politicizzazione” della magistratura (e allora ditelo). Nel 1984 il governo Craxi taglia di quattro punti percentuali la scala mobile contro l’aumento galoppante dei prezzi. Berlinguer lancia il referendum abrogativo, numerosi esponenti di Md si schierano pubblicamente per il sì. Si desume che l’adeguamento dei salari all’inflazione e il potere d’acquisto dei consumatori rientrino nella missione di un vero “magistrato democratico”. I cittadini votano e la maggioranza dice no, il taglio rimane. Per giunta, Craxi è amico del “diabolico imprenditore televisivo”, Silvio Berlusconi. I pretori di Torino, Pescara e Roma ordinano la sospensione dei programmi delle tre reti Fininvest – mediante il famigerato sistema delle videocassette – perché in violazione del monopolio pubblico Rai su scala nazionale. Il governo Craxi interviene per decreto. Md protesta con toni accesi. Si materializza, per la prima volta in assoluto, la triangolazione Md-Craxi-Berlusconi. Siamo ai prodromi della guerra.

 

Nel frattempo la vita interna della corrente è tutt’altro che tranquilla. I punti di disaccordo si moltiplicano. Alle elezioni del Csm nel 1981 il candidato Md Marrone, esponente dell’esagitato gruppo romano (“magistrati servi dei padroni”, ricordate?), è apertamente osteggiato dalla destra interna al punto da non essere eletto. Sul Manifesto le toghe Romano Canosa e Amedeo Santosuosso affermano che Md non deve più difendersi dalle accuse di politicizzazione ma da un “serpentello” interno: “Proprio gli iscritti di Md con maggiore furore e entusiasmo si sono buttati a costruire processi di terrorismo fondati prevalentemente sulla parola dei pentiti”. L’accusa per niente velata nei confronti dei colleghi inquirenti è di aver condotto trattative sottobanco con gli indagati; i due fanno esplicito riferimento al processo a carico di Marco Barbone, assassino di Walter Tobagi, e del gruppo denominato “Brigata XXVIII marzo”. Il giudice istruttore dell’inchiesta è Elena Paciotti, storica toga Md, in magistratura dal 1967, prima donna a ricoprire l’incarico di componente del Csm. Paciotti è per due volte presidente dell’Anm, nel ’99 è eletta eurodeputata nelle liste dei Democratici di sinistra. Canosa e Santosuosso subiscono un procedimento disciplinare che si conclude con un ammonimento per entrambi. Al congresso di Sorrento nel 1984 Caselli contesta pubblicamente il segretario nazionale Palombarini che nella sua relazione mette in evidenza le “smagliature sostanzialiste” ravvisabili, a suo dire, nei processi a carico dei presunti terroristi. Per Caselli invece non c’è stato alcun “coinvolgimento emergenziale”: i magistrati hanno svolto soltanto il proprio dovere.

 

Ora che il disgelo della Costituzione è compiuto, ogni tentativo di modificare la legge fondamentale va scongiurato. I princìpi costituzionali finalmente vivono nell’ordinamento, la missione del magistrato democratico consiste adesso nella salvaguardia del carattere immutabile della Costituzione. Il magistrato democratico è il guardiano della sua impermeabilità a qualunque cambiamento. Che il premier si chiami Craxi, Berlusconi o Renzi, la parola d’ordine è una soltanto, anzi due, “resistenza costituzionale”, vale a dire strenua difesa del progetto del costituente repubblicano. “Un progetto che implica il conflitto verso l’esistente e nel quale l’uguaglianza sostanziale è presupposto di una reale democrazia politica”, recita così la mozione conclusiva del congresso di Palermo, ottobre 1988.

 

Già nel 1982, anno di nascita della rivista Questione giustizia, il neodirettore Borré mette in guardia da “emergenti prospettive di riforma istituzionale”, e nel primissimo editoriale elenca i tre punti caratterizzanti la “scelta di fondo” della corrente: in primis vi è l’affermazione dell’articolo 3, emancipazione ed eguaglianza, come “parametro di riferimento per gli orientamenti legislativi e giurisprudenziali”; segue l’affermazione dell’indipendenza della magistratura come “insostituibile strumento di controllo diffuso della legalità”; in ultimo, l’esigenza di un processo garantito che assicuri il rispetto dei valori della persona. Dunque l’articolo 3 deve servire da bussola non soltanto per il magistrato ma anche per il legislatore. Quanto al controllo di legalità Claudio Martelli, già ministro della Giustizia e artefice della nomina di Giovanni Falcone alla direzione generale degli Affari penali, osserva: “Siamo sicuri che al magistrato spetti il cosiddetto controllo di legalità? O forse compito della magistratura è piuttosto quello di esercitare la repressione dell’illegalità? Non è soltanto un banale equivoco semantico in cui molti continuamente incorrono. Arrogandosi il compito non di reprimere le violazioni di legge di chi delinque ma di controllare la legalità dei comportamenti di tutti, questa parte della magistratura non solo dilata abusivamente le proprie competenze e il proprio potere, ma finisce con il sindacare e minacciare le libertà di tutti e l’equilibrio dei poteri costituzionali”.

 

A metà degli anni Ottanta Md ricerca nuove frontiere. La vocazione alla lotta politica trova sfogo solo se c’è un nemico da fronteggiare. Il vecchio apparato fascista è ormai un arnese della storia. Nel 1989 entra in vigore il nuovo codice di procedura penale ispirato a una riforma in senso liberale: si passa dal rito inquisitorio – d’impronta fascista, con l’istruttoria segreta dominata dalle figure del giudice istruttore e del pubblico ministero, con scarsa o quasi nulla presenza della difesa – al rito accusatorio incentrato sulla formazione della prova in dibattimento attraverso il contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo. “Nel mondo che cambia Md deve individuare nuovi terreni di lotta. Li identifica in Tangentopoli e nell’antimafia’, Violante la mette così, difficile dargli torto. Che cos’è d’altronde la mafia se non uno dei volti demoniaci del potere costituito? Che cos’è la corruzione politica se non la prova regina di un sistema di potere da abbattere? Legalitarismo e antimafia sono la bussola ideologica che traghetta Md negli anni Novanta. Su ciascuno di questi fronti la corrente si scontra con un implacabile picconatore, il capo dello stato (e supremo vertice del Csm) Francesco Cossiga.

 


Francesco Cossiga


 

Facciamo un passetto indietro. 1987, referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, meglio noto come “referendum Tortora”. L’opinione pubblica è scossa dal caso nazionale di Enzo Tortora, giornalista e conduttore televisivo ingiustamente accusato, detenuto in carcere, processato e infine assolto. “Dunque, dove eravamo rimasti?”, con queste parole il 20 febbraio 1987 Tortora torna a condurre il suo Portobello, accolto dal pubblico con una lunga e commossa standing ovation. In vista del referendum radical-socialista nel novembre dello stesso anno, che cosa fa Md? Decide di condurre una battaglia solitaria e corporativa contro il tentativo di estendere il perimetro della responsabilità togata. L’appello della corrente è pubblicato dapprima in sordina, con cautela, su quotidiani minori; il giorno dopo, Franco Ippolito, all’epoca segretario nazionale, riceve una telefonata del venerato maestro Norberto Bobbio che gli chiede di poter apporre la propria firma in calce al manifesto. Come prevedibile, l’adesione di Bobbio suscita una pioggia di consensi: si uniscono intellettuali doc come Massimo Cacciari, Natalia Ginzburg, Pietro Scoppola.

 

La tesi, ben nota anche ai lettori contemporanei perché puntualmente riproposta a ogni cenno di riforma, è che il tentativo di estendere la responsabilità civile rappresenterebbe una seria minaccia all’indipendenza e un inaccettabile strumento di delegittimazione della funzione giudiziaria. I cittadini italiani però la pensano diversamente: l’ottanta percento dei votanti si esprime per il sì. Il comitato del no, da Bobbio in giù, esce sconfitto. L’anno seguente il Parlamento approva la legge Vassalli, modesto tentativo di introdurre un meccanismo che consenta alla persona danneggiata di rivalersi, seppur indirettamente e attraverso numerosi filtri di ammissibilità, nei confronti del magistrato reo di aver agito con dolo o colpa grave. Le cinque condanne emesse dal 1989 al 2012 valgono più di mille parole.

 

Al congresso di Sorrento, 1984, Md approva una mozione che istituisce un gruppo di studio con l’incarico di occuparsi, sentite bene, di pace e relazioni internazionali. S’inaugura il cosiddetto “fronte straniero”. Per Md è venuto il tempo di affermare make peace not war. La svolta irenista sopravvive fino ai giorni nostri come una vena pulsante nel corpaccione invecchiato di Md. Nel 1985 una truppa di magistrati multinazionali fonda a Strasburgo l’Associazione dei magistrati europei per la libertà e la democrazia, sigla Medel. Md ne è la costola italiana. La missione internazionalista-pacifista-terzomondista non conosce tregua: si rincorrono gli appelli e le manifestazioni contro gli Stati Uniti complici delle dittature sudamericane e contro i missili F16 – pure questi a stelle e strisce – sul suolo italiano. E se certe pattuglie di magistrati conducono “spedizioni esplorative” in Cile per verificare “lo stato delle garanzie” nei processi agli ex ministri del governo Allende, altre volano a Gerusalemme per una ‘ricognizione delle violenze e dei rastrellamenti’ nei territori arabi occupati.

 

A Roma nell’89 la corrente organizza un convegno per perorare la causa del riconoscimento della Palestina. Non è Amnesty International, è Md. L’acme si raggiunge nel gennaio ’91 quando la corrente approva un documento che condanna aspramente da una parte l’annessione irachena del Kuwait, dall’altra la guerra del Golfo in quanto “rottura sia dell’ordine internazionale sia dell’assetto costituzionale italiano”. Peccato che l’Italia, con un atto formale del suo Parlamento, abbia aderito allo schieramento guidato dagli Stati Uniti, la flotta nazionale è schierata nel golfo persico, il paese partecipa ai bombardamenti. La reprimenda più indignata contro l’intollerabile invasione di campo proviene del capo dello stato che invia al vicepresidente del Csm Giovanni Galloni una lettera sferzante: oltre alla viva preoccupazione “al pensiero che a siffatti pubblici dipendenti è commessa la funzione di promuovere l’azione penale e di giudicare”, Cossiga comunica di aver prontamente segnalato la vicenda ai titolari della funzione disciplinare. L’invito presidenziale non ha alcun séguito.

 

11 settembre 2001, l’attacco alle Torri gemelle. L’una implode, inghiotte se stessa. L’altra si fonde come un panetto di burro sul fuoco. Si levano venti di guerra, il governo Berlusconi non farà mancare il suo apporto alla coalition of the willing guidata da Bush jr. Nel gennaio 2003 a Roma Md approva una mozione congressuale tematica: “Gli incombenti pericoli di guerra e l’inconciliabilità dell’uso brutale della forza con la legalità e la democrazia, nella sua dimensione sostanziale di garanzia e promozione dei diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita e alla pace, impongono ai giuristi e ai giudici di ricordare che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Toh, l’articolo 11 della Costituzione viene in soccorso. L’inchiostro Md percorre decine di articoli e appelli contro la guerra preventiva, la prigione di Guantanamo, le pratiche di waterboarding e alimentazione forzata…Pace e diritti umani. Ai girotondi degli indignados nostrani fanno capolino noti esponenti della corrente, mischiati nella folla, qualche volta sul palco ad aizzare le folle. Del pool di Mani pulite fanno parte due pesi massimi della corrente, Gherardo Colombo e Gerardo D’Ambrosio. A distanza di cinque mesi dall’arresto di Mario Chiesa, il primo confida: ‘Prima arriviamo a voltare pagina, a dichiarare defunto questo sistema e a instaurarne un altro, e meglio è’.

 

Sotto il palazzo di giustizia si levano le grida: “Borrelli, facci sognare’. Come riporta Mattia Feltri nel libro ‘Novantatré L’anno del terrore di Mani pulite’”, il 3 giugno 1993 a Saint Vincent nel corso del convegno “Il pubblico ministero oggi” Francesco Saverio Borrelli spiega alla platea: “Noi incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato”. Borrelli, mai iscritto a Md, dirige il pool di Milano. Dopo l’uscita del libro di Feltri jr. lo scorso gennaio, il magistrato smentisce di aver mai pronunciato la frase incriminata che l’Ansa e il Giornale riportano testualmente il 4 giugno successivo. Tangentopoli fa emergere un singolare paradosso tutto interno a Md. La corrente che è super garantista verso i brigatisti negli anni di piombo tace sugli eccessi processuali e giustizialisti nei confronti degli inquisiti di Tangentopoli. Le cautele agitate da autorevoli esponenti contro la “deriva sostanzialista” negli anni della lotta al terrorismo, anche a costo di emarginare i colleghi personalmente esposti nell’attività repressiva, scompaiono. Verso i politici e gli imprenditori accusati a vario titolo di mazzette e corruzione, l’ortodossia garantista non emette un fiato. Sembra che anche per Md il richiamo alle garanzie, tanto in voga nei confronti dei terroristi, vent’anni dopo sia diventato di colpo obsoleto, per niente in sintonia con lo spirito del tempo. Eccessi investigativi, manette preventive, confessioni estorte, suicidi eccellenti, interrogatori senza avvocato, circo mediatico-giudiziario: il tutto rientrerebbe in un rito encomiabile per i nuovi canoni Md. Il rito ambrosiano.

 

Il 3 agosto 1993 sulle colonne de L’Unità Violante, nelle vesti di deputato e presidente della Commissione antimafia, evidenzia l’esigenza di ristabilire l’equilibrio tra i poteri: è doveroso “vietare ai magistrati, con adeguate sanzioni disciplinari, di dare interviste o rilasciare dichiarazioni sui procedimenti che essi stanno conducendo; il magistrato ha gli stessi diritti di qualsiasi cittadino tranne che in relazione agli specifici processi che sta conducendo: in quella materia deve parlare soltanto con i propri atti, non attraverso i telegiornali”. “Il magistrato – prosegue l’ex Md – non persegue finalità politiche come l’abbattimento del sistema politico. Questo può diventare un effetto della sua azione ma non può costituirne il motivo ispiratore”. Il monito di Violante sembra confermato nella sua funesta previsione a distanza di nove anni, nel 2002, dall’ex presidente della Repubblica Cossiga che per Violante conia il soprannome di “piccolo Vishinsky”, il grande accusatore staliniano (pur intrattenendosi spesso con lui a colazione alle sei e trenta del mattino). In un’intervista al Giornale Cossiga dichiara: “Se Tangentopoli fosse una ordinaria storia di ladri comuni sarebbe grave ma non gravissima. Tangentopoli invece è gravissima perché è stata costitutiva di un regime politico”. L’inchiesta, secondo il ruvido picconatore, ha agito come una “valanga che ha sconvolto gli equilibri politici trasformando tra l’altro gli sconfitti della storia in vincitori e spingendo nel girone infernale dei criminali coloro che come Craxi avevano visto giusto e si erano collocati da tempo dalla parte della ragione”.

 

Agli occhi di Md Cossiga è il diavolo, l’anti-Pertini, l’alleato di Craxi nel progetto di smantellamento delle prerogative giurisdizionali. Con Cossiga capo dello Stato e vertice del Csm, dal 1985 al 1992, il conflitto istituzionale raggiunge l’apice. Le avvisaglie di un’incompatibilità insanabile sono chiare sin dal principio. Pochi mesi dopo l’elezione quirinalizia, i membri del Csm chiedono di incardinare in plenum un dibattito sulle dichiarazioni di Craxi reo di aver difeso gli esponenti dello Psi e il direttore de L’Avanti Ugo Intini condannati per diffamazione a mezzo stampa ai danni del sostituto milanese Armando Spataro. “E’ stato scritto un capitolo oscuro della vita della democrazia italiana. Noi confermiamo, uno per uno, i giudizi che i nostri compagni condannati hanno espresso nei confronti dell’operato della magistratura”, asserisce il premier Craxi riferendosi alle critiche mosse a Spataro e alla procura per la condotta processuale nel caso dell’omicidio di Walter Tobagi. I magistrati non gradiscono, i componenti del Csm vogliono intavolare un dibattito sulle ardite affermazioni del presidente del Consiglio. Cossiga si oppone e, senza giri di parole, lo vieta. “Decido e dispongo”, è la formula che usa in questo e in molti altri frangenti. E’ il suo stile. Md denuncia immediatamente la lesione dell’onore giudiziario e la deriva autoritaria del Capo dello stato.

 

1990, il giudice istruttore di Venezia Felice Casson bussa alla porta del Quirinale perché, nell’ambito dell’inchiesta Gladio, tra eversione nera e servizi deviati, desidera interrogare il presidente della Repubblica in qualità di testimone. La richiesta perviene alla segreteria della presidenza. L’ex ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani ha rivelato al giudice che sarebbe stato proprio Cossiga, nella veste di sottosegretario alla Difesa, a disporre nel 1969 gli omissis sul piano Solo e sulla rete Stay behind. Come riporta Gianni Barbacetto nel libro “Il Grande Vecchio”, Cossiga è furibondo: “Quel giovane ha in mente più le fumoserie del ’68 che la Costituzione e i codici”. “Nel ‘68 avevo 14 anni ed ero in collegio dai salesiani”, replica a distanza Casson. Dopo il rifiuto di Cossiga, il magistrato intervistato da Repubblica commenta: “Non so cosa farò in futuro”. Intende dire che dopo aver sondato la disponibilità del capo dello Stato potrebbe convocarlo formalmente?, incalza il cronista. “Non ho affatto detto questo – precisa lui – Ho voluto dire soltanto che, siccome la mia inchiesta va avanti, non posso anticipare i passi che farò”. In realtà la tensione con Cossiga cova da lungo tempo. Nel giugno dello stesso anno sulla Nuova Venezia Casson scrive: “Mi chiedo come mai l’onorevole Cossiga non abbia mai risposto nulla a coloro che, pubblicamente, hanno parlato dei suoi rapporti con Licio Gelli”, tanto basta per chiedere al ministro Vassalli un procedimento disciplinare per vilipendio del Capo dello stato. Intanto la bufera politica divampa, da più parti si denuncia l’inopportunità dell’iniziativa. Il ministro della giustizia Vassalli, ravvisando diverse anomalie processuali, avvia accertamenti preliminari nei confronti del magistrato che ha preteso il coinvolgimento della più alta carica dello stato. Md prende le difese del giudice (che pure non è un suo iscritto). L’Anm si schiera compatta con lui. Dopo il trambusto mediatico e istituzionale, il filone Gladio passa ai giudici romani e Casson torna a occuparsi di tangenti. Nel 2005 si candida sindaco di Venezia ma è sconfitto da Cacciari. Dal 2006 siede ininterrottamente in Parlamento nelle file del Partito democratico.

 

Torniamo all’interrogatorio del capo dello stato. Cossiga rispedisce l’invito al mittente (“E’ una vergogna per lo stato di diritto che Casson rimanga ancora giudice. E’ un ragazzaccio al quale bisognerebbe togliere la marmellata”). Anno 2014, l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, anima dell’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia con un passato in Md, plaude al “momento di democrazia” celebratosi con la deposizione di Giorgio Napolitano al cospetto degli inquirenti palermitani. Che democrazia coi fiocchi. L’udienza, in una sala del Quirinale, dura oltre tre ore. “Pensate che abbia la memoria di Pico della Mirandola?”, Napolitano sdrammatizza e risponde a ogni domanda, anche a quelle poste dall’avvocato di Totò Riina e giudicate inammissibili dalla Corte. Il braccio di ferro con la procura palermitana è cominciato oltre due anni prima quando la procura, nell’ambito della stessa inchiesta, ha intercettato alcune conversazioni telefoniche intercorse tra il presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Il Quirinale chiede la distruzione dei nastri. La procura si oppone. Ne scaturisce un conflitto di attribuzione dinanzi alla Consulta che nel dicembre 2012, accogliendo il principio dell’assoluta inviolabilità della riservatezza quirinalizia, ordina la distruzione delle conversazioni illegalmente captate.

 


28 luglio 2012. Napolitano al funerale del suo consigliere Loris D’Ambrosio. Due giorni fa, l’ex capo dello stato ha ricordato le particolari circostanze che portarono a quella morte. “Spesso vengono pubblicate intercettazioni manipolate, pezzi di conversazioni estrapolate dal contesto. Com’è successo al mio consigliere D’Ambrosio che ci ha rimesso la pelle con un attacco cardiaco. E io certe cose non le dimentico”


 

“Siamo cornuti e mazziati, le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto”, reagisce così Ingroia in spedizione guatemalteca per conto dell’Onu, di lì a poco scenderà in campo (alle politiche dell’anno seguente si candida premier con Rivoluzione civile). In una recente intervista a Libero, novembre 2015, lo stesso Ingroia, ora dedito all’attività forense, a proposito del misterioso contenuto di quelle telefonate fa un mezzo annuncio: “Probabilmente un giorno lo racconterò: credo che tutte le verità di uno stato democratico vadano svelate ai cittadini. Ma non in un’intervista. Magari attraverso un romanzo, un mezzo che mi permetterebbe di usare certi filtri per raccontare una realtà che va ben aldilà della più fervida immaginazione”. Ha in mente un titolo?, gli domanda il cronista. “Potrebbe essere: Caro Giorgio, come stai?”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ordina un’ispezione presso la procura palermitana per la verifica della “effettiva documentazione e corretta custodia delle intercettazioni”. Ingroia è costretto a ridimensionare: ‘Al romanzo ci sto lavorando. Il libro parlerà della storia di una trattativa tra la mafia e lo stato di un paese immaginario e recherà la classica dicitura ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale. Io non ho mai detto e non volevo dire che avrei tirato fuori copia delle intercettazioni”.

 

Qui potete leggere la terza puntata dell'inchiesta di Annalisa Chirico su Magistratura democratica