Nell’Italia post fascista i “magistrati democratici” hanno un nemico da abbattere, la giustizia borghese. Sostengono la lotta di classe per via giudiziaria

Da dove nasce il contropotere dei magistrati di sinistra

Annalisa Chirico
La resistenza costituzionale come alibi per condurre battaglie extra giudiziarie e giustificare la supplenza del magistrato legislatore. Così scatta la nuova bussola ideologica di Md.

(Terza puntata dell'inchiesta di Annalisa Chirico su Magistratura democratica - qui trovi la seconda puntata) - Anni Novanta, legalitarismo e antimafia sono la nuova bussola ideologica di Md. Servono a colmare un vuoto, a ridefinire una missione, a cambiare per non morire in un paese dove il Disgelo della Costituzione è ormai compiuto. 1986, aula bunker dell’Ucciardone a Palermo, si apre il maxiprocesso contro la mafia istruito dal pool di Giovanni Falcone. 1988, il Csm discute la nomina a consigliere istruttore del tribunale di Palermo, lasciato vacante da Antonino Caponnetto. Caselli, Md, vota per Falcone. Pino Borré e Elena Paciotti, pure Md, si esprimono in favore di Antonino Meli. Paciotti motiva così la propria scelta: “Quanto alle attitudini di entrambi i candidati in questione, più che in ogni altro caso, si segnala l’esperienza penalistica e la specifica trattazione di processi penali a carico di imputati di mafia. Se di straordinario valore è l’esperienza investigativa e la novità di impostazione delle indagini in questa materia del dottor Falcone, non si può ignorare l’accurata istruttoria dibattimentale condotta dal dottor Meli in uno dei più gravi processi di mafia di questi anni che riguardava l’omicidio Rocco Chinnici”.

 

Nel 1991 Falcone accetta l’invito del ministro Martelli a ricoprire l’incarico di direttore degli Affari penali in via Arenula; da questa postazione Falcone mette mano al progetto di una procura nazionale antimafia. Md, insieme al Pci e a personaggi come Leoluca Orlando, gli dichiara guerra. A viso aperto, sui giornali e nei dibattiti pubblici. Md e Anm agiscono in piena assonanza, entrambi contrastano la procura nazionale come un male assoluto. Su Repubblica il segretario Md Palombarini boccia il progetto della superprocura, fonte di uno “sconvolgimento ordinamentale” a causa di un’organizzazione piramidale con il superprocuratore chiamato a rispondere dinanzi al Parlamento della realizzazione delle direttive ricevute dal potere politico. Per Palombarini prosegue il disegno illustrato da Craxi nel primo comitato centrale del suo partito.

 

Sulle colonne dello stesso quotidiano la replica è affidata a Giuliano Amato: Craxi ha fatto sua una vecchia idea di Piero Calamandrei. Alla fine, com’è noto, la procura nazionale antimafia è istituita ma al momento della nomina del vertice il Csm preferisce a Falcone l’allora procuratore capo di Palmi Agostino Cordova. Il magistrato calabrese, fresco di processi sulla massoneria, ha l’appoggio di quella sinistra politica e togata che negli anni successivi si approprierà della memoria di Falcone da morto. All’indomani della strage di Capaci, Ilda Boccassini, sua collega e amica, dirà: “Due mesi fa ero a Palermo in un’assemblea dell’Anm. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. C’è chi lo ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la superprocura; un’altra, come hanno fatto il Csm, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. E’ stata una rivoluzione”.

 

(Leggi le prime due puntate dell'inchiesta di Annalisa Chirico uscite sul Foglio domenica 17 e giovedì 21 aprile)

 

1991, Md sollecita all’interno della giunta centrale dell’Anm uno sciopero unitario di magistrati e avvocati contro l’“ingerenza del capo dello stato”, “per la difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e di un Csm espropriato e posto sotto tutela”. E’ l’ultimo sciopero che vede le due organizzazioni schierate insieme. Con un messaggio televisivo Cossiga esorta i magistrati a non aderire. Poi riservatamente confida: “Come si può pensare che i combattenti per la libertà, la pace, i difensori di Saddam Hussein contro l’aggressione dell’occidente, coloro i quali hanno chiamato alla diserzione i soldati italiani possano avvicinarsi a un guerrafondaio fascista come me?”. In effetti il suo appello finisce nel vuoto. Le toghe incrociano le braccia in massa per ventiquattro ore, un migliaio arriva a Roma per partecipare all’assemblea dell’Anm. In occasione dello sciopero si affaccia per la prima volta sulla stampa nazionale un sostituto procuratore ancora sconosciuto: lui si dice “estraneo alla diatriba” e affigge alla porta del suo ufficio un cartello in cui annuncia urbi et orbi che continuerà a lavorare. Il capo dello stato, divertito dalla curiosa trovata, si congratula pubblicamente con lui. E’ Antonio Di Pietro.

 


Il politico ed ex magistrato, Antonio Di Pietro (foto LaPresse)


 

“C’era un’antimafia seria, quella dei Falcone, dei Borsellino e dei Caselli, e una che professava l’ideologia antimafiosa, con personaggi come Leoluca Orlando e Alfredo Salasso”, Violante riflette ad alta voce mentre con la penna disegna cerchi concentrici su un lembo di carta. Il 17 novembre 1992, da presidente della commissione antimafia della Camera, raccoglie la deposizione di Tommaso Buscetta, il boss pentito rivelatore del cosiddetto “terzo livello”. Violante, ex Md, ascolta in Parlamento i mafiosi che lanciano accuse contro Andreotti e la Dc. Nel gennaio 1993 Caselli, sempre Md, s’insedia a capo della procura di Palermo e imbastisce i processi contro Andreotti e la Dc. Onorevole Violante, è possibile che in quella stagione tumultuosa ci fosse uno scambio di informazioni tra lei e Caselli, amici personali ed ex sodali di corrente?

 

“Lo escludo recisamente, io mi ero dimesso dalla magistratura nel 1980. Capitava certamente di incontrarsi e si conversava di mille cose, ma non di lavoro. Voglio ricordare che il primo rapporto parlamentare sulla mafia da me promosso fu approvato dai membri della commissione all’unanimità. Se fosse stato ritenuto parziale o fazioso, non sarebbe accaduto”. Mi sta dicendo che con Caselli affrontavate ogni tema salvo i processi mafiosi che stavano mettendo alla gogna autorevoli esponenti democristiani, suoi avversari politici. “Io e Gian Carlo eravamo dei sopravvissuti per il nostro impegno comune contro il terrorismo, ci univa un legame identico a quello che si salda tra chi lotta in trincea. In quegli anni continuammo a frequentarci ma ci astenevamo dal toccare aspetti attinenti alle questioni professionali”. Nel crocevia tra politica e magistratura, lei ha esercitato un enorme potere. Non mi guardi con quell’espressione smarrita, non rivelo nulla che lei non sappia. “Oggi la parola potere è gravata da una maschera luciferina. Ad ogni modo, se per potere s’intende la capacità di influenzare le decisioni politiche, riconosco che l’ho avuto e l’ho esercitato; quelle giudiziarie, giammai”.

 

Aprile 1992, Cossiga convoca una “riunione informale” del Csm alla presenza sua, del ministro della Giustizia Martelli e dei dirigenti degli uffici giudiziari siciliani. In una lettera al vicepresidente Galloni i quattro membri togati di Md comunicano che non prenderanno parte alla riunione in quanto “sterile ripetizione di attività già sperimentate, una riproposizione di uno stanco rituale espressivo di una lotta alla mafia fatta di gesti e di parole”. Cossiga s’infuria. Al Gr1 del 16 aprile spara ad alzo zero contro i “magistrati neostalinisti”: “Mi auguro per il futuro che la gran parte della magistratura italiana, che fortunatamente è rappresentata da Unità per la Costituzione e Magistratura Indipendente, comprenda quali figuri siedono accanto a essa nel Csm. Difendo la magistratura italiana e la magistratura siciliana dalle insinuazioni e calunnie che sono state rivolte verso di essa e a cui tengono bordone quattro faziosi figuri del Consiglio che avevano una paura fottuta di trovarsi di fronte i magistrati che combattono veramente la mafia non beccando lo stipendio che si beccano loro, con in più due auto corazzate”.

 

Tra i “quattro figuri” c’è Gennaro Marasca: “Cossiga accusava Md di costituire sacche di socialismo reale dentro il Csm. Ricordo bene l’episodio: ci rifiutammo di partecipare perché non c’era alcun margine di confronto con il capo dello stato. Noi avevamo preparato delle risoluzioni per una riorganizzazione delle procure in senso democratico, secondo un principio di collegialità. Cossiga invece pianificava una maggiore gerarchizzazione degli uffici. Con un atto inaudito e senza precedenti, si rifiutò di mettere all’ordine del giorno le nostre risoluzioni. Poi, estromettendo dai suoi poteri il vicepresidente Galloni, Cossiga venne a presiedere tutte le sedute, un fatto mai accaduto prima”. Eppure non contrario alle regole. “Certamente contrario alle consuetudini”.

 

Come abbiamo visto, i prodromi della guerra tra Silvio Berlusconi e Md si manifestano già ai tempi di Craxi e del braccio di ferro sulle frequenze televisive. 25 aprile 1994, Berlusconi è premier da un mese e mezzo. Anniversario della Resistenza. Md aderisce formalmente alla manifestazione in difesa della democrazia e dell’antifascismo. In autunno partecipa ai cortei “contro lo smantellamento dello stato sociale”. Il 22 novembre 1994, con tanto di scoop del Corriere della Sera, il premier, impegnato in una conferenza internazionale a Napoli, riceve un invito a comparire dalla procura di Milano. Negli anni Md si mobiliterà contro la riforma dell’articolo 18, la riforma delle pensioni, la guerra in Iraq, gli abusi al G8 di Genova, gli abusi tra le mura di Guantanamo, contro il “ricatto” (sic) del referendum Fiat a Pomigliano d’Arco… Ogni battaglia sarà condotta nel nome della “resistenza costituzionale”, vale a dire della strenua difesa della Costituzione finalmente “scongelata” e sempre da preservare contro chi vorrebbe stravolgerla o anche solo emendarla. La Costituzione è un totem inviolabile. La “resistenza costituzionale” è l’alibi perfetto per condurre ogni sorta di battaglia extra giudiziaria e per giustificare la “supplenza” del magistrato che si fa legislatore. Md non è più fiancheggiatore della politica, ma è soggetto politico a tutto tondo.

 


Inaugurazione dell'anno giudiziario (foto LaPresse)


 

Nel 2006, in occasione del referendum costituzionale contro la riforma voluta dal governo di centrodestra, Md si dà un gran da fare nel comitato Salviamo la Costituzione. L’allora segretario di corrente Ignazio Juanito Patrone chiude la campagna per il ‘no alla controriforma’ alla Mostra napoletana d’oltremare insieme al leader della Cgil Guglielmo Epifani. E dire che la riforma berlusconiana di allora include già il superamento delle due Camere uguali uguali: all’epoca il Cav. è d’accordo, oggi innalza le barricate insieme agli inaspettati compagni di lotta, Md, Ingroia, Zagrebelsky e Rodotà. Magistrati e professoroni che, a dispetto dell’ex premier, non hanno mai cambiato idea, quando si dice la coerenza.

 

Primo agosto 2013, il Cav. è condannato in via definitiva dalla Cassazione nel processo sui diritti tv. Il presidente della Repubblica Napolitano, appena mezz’ora dopo, dichiara: “Auspico che adesso possano aprirsi condizioni più favorevoli per l’esame in Parlamento dei problemi relativi all’amministrazione della giustizia”. Md replica a stretto giro: “La sentenza dimostra che i giudici sanno fare il loro mestiere, nonostante tutti i tentativi di condizionarli. Parlare di riforme della giustizia è un segnale negativo”.

 

“Lei è giovane come il direttore del Foglio”, me l’ha già detto, dottor De Chiara, ma il punto non è l’età. Carlo De Chiara, attuale presidente di Md, ha firmato l’atto di adesione al comitato Zagrebelsky-Pace-Rodotà. Avellinese di nascita e salernitano d’adozione, De Chiara, classe 1954, entra in magistratura a ventisette anni. Si occupa da sempre di giustizia civile, ricopre l’incarico di consigliere della Corte di cassazione, componente della prima sezione e delle sezioni unite civili. Nei prossimi mesi una corrente di magistrati si mobiliterà contro la riforma su cui il premier si gioca la permanenza a Palazzo Chigi (“Se perdo vado a casa”, ha detto). Al comune mortale sembra una battaglia politica, ai limiti dell’eversione.

 

“Dottoressa, le ho già spiegato che la Costituzione è destinata a durare ben oltre la vita di un singolo governo. La materia costituzionale travalica la politica contingente. Md non è né si sente coinvolta in una lotta contro il governo per il solo fatto di essere contraria alla sua proposta di riforma costituzionale”. I magistrati non potrebbero limitarsi ad amministrare la giustizia? “Lo fanno ma hanno anche il diritto di partecipare al dibattito pubblico. Così le idee si formano e si arricchiscono, altrimenti una società resta ferma, non cresce, non si adegua al nuovo”. E la terzietà? “Non c’entra nulla. Se io per esempio sono favorevole all’estensione della stepchild adoption alle coppie omosessuali, non per questo, ove ne fossi richiesto in qualità di giudice, mi sognerei mai di disporla nonostante la legge attuale non la consenta”. Per la verità, diversi tribunali l’hanno già ammessa verso coppie omosessuali, in assenza di una legge del Parlamento. “In effetti non è poi pacifico che la legge attuale non la consenta…”. Allora il Parlamento si è azzuffato sul nulla? L’interpretazione creativa consente tutto, certo. “Sia chiaro, e per favore lo scriva. I giudici non-pos-so-no inventarsi le norme, giammai. Se lo facessero, sarebbe perché sono cattivi giudici, non perché partecipano al dibattito pubblico”.

 


Inaugurazione dell'anno giudiziario (foto LaPresse)


 

Chi sono gli iscritti a Md? Di alcuni si sa, di altri si mormora. Sull’iscrizione a Md non v’è certezza. Qualcuno lo ammette candidamente, qualcun altro si trincera dietro il no comment. Non può darti lumi neanche De Chiara, il presidente, perché sugli elenchi in suo possesso grava l’obbligo di riservatezza. 2002, in una lettera all’allora presidente della corrente Livio Pepino il deputato di Forza Italia Cesare Previti chiede l’elenco degli iscritti con “estrema urgenza”. Non è una provocazione ma una domanda circonstanziata. Previti denuncia i “giudizi di stampo colpevolista e diffamatorio” che l’organo di stampa ufficiale della corrente ha riportato sul suo conto. L’articolo incriminato è uscito su Questione giustizia a firma del magistrato Luigi Marini: “La presenza di conti esteri del gruppo (Fininvest), – si legge – i movimenti su di essi, la destinazione dei fondi non ufficiali all’onorevole Previti e i benefici pervenuti ad alcuni magistrati sembrano fatti storicamente certi, al di là della loro utilizzazione in sede processuale”.

 

Previti non otterrà mai le benedette liste. Dottor De Chiara, se il magistrato ha il diritto di sbandierare pubblicamente la propria sensibilità politica, non sarebbe opportuno rendere pubbliche le liste affinché il cittadino conosca la “sensibilità” del giudice e possa affidarsi con serenità al suo giudizio? “Md non è certo un’associazione segreta. I componenti degli organi interni sono indicati sul sito Internet”. Sì, d’accordo, ma i dirigenti sono un’esigua minoranza. Le liste degli iscritti sono in mano ai vertici della corrente e al ministero della Giustizia che, quando accredita lo stipendio a fine mese, applica la trattenuta destinata al pagamento della quota d’iscrizione (circa 150 euro l’anno). “L’amministrazione dello stato conosce gli aderenti. Esiste tuttavia il diritto alla riservatezza, tutelato dalla legge, che m’impedisce di diffondere i nomi dei colleghi, anche se volessi”, chiosa De Chiara. Per Violante invece la riservatezza paga sempre: “Non mi risulta che le altre correnti, o l’Anm, o i partiti pubblichino le liste dei propri iscritti. Perché dovrebbe farlo Md?”.

 

2010, Area viene al mondo. E’ il cartello della sinistra giudiziaria, Md più i Verdi del Movimento per la giustizia (Mpg nasce da una scissione di Unicost con un manifesto fondativo stampato su carta verde). La scelta di fondersi con il gruppo movimentista è fonte di frizioni interne. Interpellato sul punto Palombarini si schermisce: “Uhm, io devo vivere, penso anche lei”. Edmondo Bruti Liberati glissa con nonchalance: “Guardi, sono in pensione. E preferisco godermi la pensione”. Non è un mistero che alcuni dei padri fondatori della corrente non si riconoscano nel progetto unitario. Secondo Violante la nascita di Area risponde a una più prosaica “strategia dei posti”: “Venuta meno la visione politica, non è rimasta che quella”. E’ come se, esaurito il potenziale di elaborazione culturale e politica, incapace di individuare una nuova missione in sintonia con la contemporaneità, Md si adagi nel ruolo di corrente tra le correnti. Anestetizzata dalle logiche corporative e spartitorie tipiche della magistratura associata. Marasca si sofferma sulle ragioni della sofferta svolta: “Mi sono allontanato da Md proprio in coincidenza con la nascita di Area. Io ero favorevole a un’alleanza, indubbiamente necessaria dopo la riforma della legge elettorale del Csm. Senza un’aggregazione in un contenitore più ampio, noi di Md avremmo eletto al massimo un componente, con le nostre sole forze. Ero contrario però alla confluenza che si è poi verificata. Md e Mpg sono portatrici di culture istituzionali e concezioni ordinamentali differenti. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che i Verdi hanno assorbito Md”.

 


Inaugurazione dell'anno giudiziario (foto LaPresse)


 

Dal 2002 i componenti togati del Csm, ridotti da venti a sedici, vengono eletti con una legge proporzionale a preferenza unica in un collegio unico nazionale. La legge, voluta dall’allora guardasigilli Castelli, mirava a ridurre l’influenza delle correnti agevolando le candidature dei magistrati a titolo individuale e non più nell’ambito di liste contrassegnate da un logo. Nei fatti però il potere dei gruppi organizzati di indirizzare i voti è rimasto inalterato, ed è divenuto per giunta più necessario perché la suddivisione per fasce e la previsione di un unico collegio nazionale hanno elevato in modo sensibile il quorum necessario per l’elezione: il candidato risulta eletto se ha il supporto di un contesto organizzativo su scala nazionale. “L’attuale sistema – prosegue Marasca – favorisce i gruppi capaci di concentrare il voto sia sua base geografica che su un singolo candidato. Rispetto ai Verdi, l’elettorato di Md è certamente più ideologizzato e politicamente accorto, ma è meno disciplinato. I nostri tendono a esprimere soltanto la preferenza per la lista. I Verdi sono più militarizzati”.

 

Per Md la riforma Castelli era il male assoluto. “Non era la migliore riforma possibile ma conteneva alcuni aspetti positivi, per esempio veniva incontro all’esigenza di prevedere una giustizia disciplinare più incisiva, come noi stessi di Md domandavamo. Invece tutta la magistratura associata oppose una chiusura corporativa, Md fece blocco. Un approccio dialogante avrebbe pagato di più”. Secondo le stime più accreditate, Md conterebbe all’incirca ottocento iscritti che, insieme ai quattrocento dei Verdi, rappresentano appena un settimo dei novemila magistrati italiani. Nelle elezioni che contano però le due correnti riescono a coagulare insieme circa un terzo dei consensi di categoria. E a esercitare potere di veto. Si spiega così il fatto che Md, pur ridimensionata nel peso elettorale, continui a esercitare un’influenza ragguardevole nell’assegnazione di incarichi e nomine. Alle elezioni del Csm nel 2010 Area elegge sei componenti togati (tre di Md – Vittorio Borraccetti, Franco Cassano e Francesco Vigorito – e tre in quota Verdi – Nello Nappi, Paolo Carfì e Roberto Rossi). Nel 2014 la sinistra giudiziaria guadagna un posto in più ma l’equilibrio tra i due gruppi si sbilancia in favore del Mpg: dei sette componenti togati eletti, soltanto due – Piergiorgio Morosini e Lucio Aschettino – appartengono a Md.

 

Bruno Tinti, classe 1942, ex procuratore aggiunto di Torino, è uno dei maggiori esperti di reati finanziari. Oggi si dedica prevalentemente all’attività editoriale e forense. Dalle colonne del Fatto quotidiano, di cui è pure azionista, è un autentico fustigatore del correntismo giudiziario. Le correnti lui le ha conosciute da dentro: fresco di concorso, nel 1967 s’iscrive a Md. A metà degli anni Settanta cambia e passa a Magistratura indipendente; qui resiste più a lungo ma senza mai partecipare alla vita interna. Alla fine esce pure da Mi, e nel 2008 appende la toga al chiodo. Nel libro “Toghe rotte”, pubblicato l’anno prima con la prefazione di Marco Travaglio, afferma: “I giudici e i loro organi costituzionali non sono immuni al degrado del paese in cui vivono. E alla fine all’interno della magistratura è accaduto qualcosa di molto simile a ciò che è accaduto all’esterno, nei palazzi della politica”. Per comprendere come funzioni l’attività spartitoria delle correnti, Tinti propone il seguente esempio: “In questi giorni stiamo battagliando per organizzare le elezioni dei consigli giudiziari e poi i nostri rapporti in vista del prossimo Csm. Io sono contento perché, se passa la linea che sto proponendo, a fare il presidente del Tribunale di Roncofritto ci mandiamo Michele, che è dei Gialli, così loro ci votano Luigi, che è dei nostri, a procuratore di Poggio Belsito. Luigi così è accontentato e alle prossime elezioni del Csm noi possiamo candidare Carmelo, dato che Luigi è sistemato. Fatto Carmelo, alle prossime elezioni ancora, mi posso candidare io e, se con la desistenza dei Viola e la lista unica con i Blu, scatta il seggio in più, finalmente nel 2014 andrò al Csm”.

 

Le correnti, il correntismo. Sono “il cancro della magistratura”, copyright Raffaele Cantone. “Un centro di potere pieno, oscuro e irresponsabile”, scandisce Violante. “Amministrano potere al solo fine di ottenere posti rilevanti per gli iscritti – rincara Tinti – Md e Mpg giurano di essere diversi: sbandierano carte dei valori, pretendono purezza e integrità morale. Ma poi fanno esattamente come gli altri”. “Le correnti sono centri di potere per il potere. Md è come tutte le altre”, commenta Piero Tony, ex procuratore capo di Prato e autore disincantato del pamphlet “Io non posso tacere”. Lui ha trascorso quarantacinque anni nelle file dei “magistrati democratici”. Interpellato dal Foglio dichiara lapidario: ‘Il grande problema è che il funzionamento dell’intero sistema giudiziario è capillarmente condizionato dalle correnti. Di conseguenza, la situazione attuale è caratterizzata da una magistratura corporativa e politicizzata, vistosamente legata ai centri di potere”.

 

“Che Magistratura democratica sia stata – e sia – la sinistra della magistratura è noto e da sempre rivendicato”, scrive Pepino, padre nobile di Md, negli “Appunti per una storia di Magistratura democratica”. Il punto è esattamente questo: le toghe sono “rosse” per esplicita rivendicazione. Md fa politica a viso aperto, senza infingimenti. Md fa politica da sinistra. “La rottura con il passato – prosegue Pepino – è radicale e gravida di conseguenze: a una magistratura longa manus del governo, si addice infatti un modello di giudice burocrate e neutrale, mentre a una magistratura radicata nella società più che nell’istituzione deve corrispondere un giudice consapevole della propria autonomia, attento alle dinamiche sociali e di esse partecipe”. Eccolo qui il magistrato che si afferma come contropotere: il giudice fugge dal Palazzo, luogo di conservazione e compromissione con il potere costituito, per mettersi in testa al popolo e condurlo verso la liberazione. Ragioni e modalità della lotta mutano al mutare dei tempi, solo un fatto non cambia mai: Md conduce una battaglia politica. Md-non-si-tira-indietro.

 

Nell’Italia post fascista i “magistrati democratici” hanno un nemico da abbattere, la giustizia borghese. Sostengono la lotta di classe per via giudiziaria. C’è la Costituzione da “scongelare”, un paese da modernizzare. Md procede lungo una “corsia ideale” parallela a quella del partito di Botteghe oscure. Sta nelle piazze e nelle fabbriche, contamina le casematte. Il vuoto di missione sul finir degli anni Ottanta è colmato da Mani pulite. Lotta alla corruzione e antimafia diventano la nuova bussola ideologica. Gradualmente, da corrente giudiziaria fiancheggiatrice della politica – Pci e suoi eredi – Md assume le sembianze di soggetto politico tout court. La formuletta “resistenza costituzionale” giustifica ogni sorta di battaglia extragiudiziaria. I miliziani di Md sono i picconatori della Prima Repubblica e poi del berlusconismo. Con lui, il Caimano from Brianza, combattono la Guerra dei Vent’anni. Fino all’armistizio dei giorni nostri: Cav. e Md insieme per dire NO (in stampatello) alla riforma costituzionale contro il pericolo di una “democrazia autoritaria”. E nell’attesa di vedere Cav., Rodotà e Ingroia sul medesimo proscenio, Md spartisce posti, negozia nomine e incarichi. Alle spalle un glorioso passato, davanti un futuro incerto. Nel presente l’impietosa routine di una corrente tra le correnti.