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PICCOLA POSTA

L'arma di Miloševic e Putin contro i propri popoli: il lavaggio del cervello

Adriano Sofri

Fare ricorso subdolo alla storia, inventare differenze e complotti, per rendere i cittadini delle macchine in grado di uccidere i propri vicini: ecco come i due dittatori ci sono riusciti

Nel giugno del 1999, la rivista mensile “Una città” pubblicò un’intervista di Massimo Tesei a Marko Vešovic, il poeta montenegrino-sarajevese di cui ho scritto nei giorni scorsi perché è morto di una sua morte solitaria. Erano passati quasi 4 anni dagli accordi di Dayton, era la volta del Kosovo e dell’intervento della Nato in Serbia. Insofferente del luogo comune su un atavismo etnico “balcanico”, contraddetto dall’esperienza di un’unità sostanziale della Jugoslavia e dal privilegio di una lingua comune, Vešovic si chiedeva come avesse fatto Miloševic a “inventare” differenze capaci di “fare del popolo serbo una macchina per uccidere”. “Lui solo aveva le armi, gli altri non ne avevano, gli altri si sono armati durante la guerra. Ma come ha fatto a convincere i serbi normali ad usare le armi e ad uccidere il proprio vicino? Facendo ricorso alla storia.

Convincendo i serbi che erano le vittime permanenti, sempre e solo vittime, dalla battaglia di Kosovo Polje (1389!) fino a oggi. La maggioranza dei serbi ha finito per convincersi che sgozzare gli altri era necessario per difendersi dalle ‘atrocità’ degli altri. La guerra in Bosnia veniva definita in Serbia ‘guerra antigenocida’. In lingua popolare questo suona come: ‘Uccidiamoli, prima che loro uccidano noi’. Con una campagna al limite del lavaggio del cervello Miloševic ha attivato questo mondo mitologico: i canti popolari, la storia della prima e della seconda guerra mondiale in chiave serbocentrica, la paura dei complotti dei vicini. E li ha così convinti che erano da sempre le vittime e che era giunto il momento di difendersi. Così ha trasformato un popolo normale in un popolo malato”. Quanto al destino di Miloševic, al punto in cui era arrivato, “poteva scegliere la sua morte politica o la sofferenza e la distruzione del popolo serbo, e ha scelto la seconda possibilità”. 

Col senno di poi, si può solo osservare che al disastro del popolo serbo e alla morte politica, il delirio di Miloševic aggiunse la propria personale rovina, fino alla morte fisica nel carcere dell’Aja, nel 2006. Vladimir Putin ha appena rispiegato ai Brics riuniti – da remoto, per garantirsi una distanza di sicurezza dall’Aja – che la Russia ha dovuto difendersi “dalla guerra di sterminio intrapresa dall’Occidente”. La guerra ex jugoslava, e specialmente i suoi capitoli bosniaco-erzegovese (1992-95) e kosovaro, furono un’anticipazione in scala della guerra russa all’Ucraina. E anche un’anticipazione plateale dell’atteggiamento “pacifista”.

Nel quale si ritrovano intatti, salvo il peso dell’età, alcuni dei personaggi che allora si diedero spintoni per prendere la scena, e che ora si fanno concorrenza immaginandone una rendita elettorale. Le eccezioni, pochissime, riguardano persone che invece allora solidarizzarono con la Cecenia annichilita dalla Russia di El’tsin prima e di Putin poi, e solidarizzarono con la Sarajevo assediata e con la Srebrenica del massacro genocida. Eccezioni pochissime e, oltre che malinconiche, inspiegabili – e inspiegate.

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