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Piccola posta

Non fermarsi all'ovvio davanti alle parole del Papa sulle armi a Kyiv

Adriano Sofri

Francesco ha detto che le armi per un popolo che si difende sono una cosa giusta, con l'ovvia riserva sull'intenzione morale che chi aiuta non debba fare i propri interessi. Dopotutto, difendere vuol dire amare

Ho una fraterna simpatia per il Papa Francesco, e prendo in considerazione le cose che dice. Mi separa dall’assolutismo di certi seguaci di Francesco la constatazione, e la ragionevole comprensione, che il Papa deve barcamenarsi. Uso volentieri il verbo, che fa pensare a un’arte di arrangiarsi ma contiene anche un ricordo di pescatori e di tempeste sul lago di Tiberiade.

Il Papa esorta alla pace e al disarmo e condanna la guerra. Certo. Intanto c’è la guerra quasi mondiale, a pezzi. E arriva anche un suo pezzo efferato nel centro d’Europa, fra genti che si professano eredi di una variegata tradizione cristiana. Il papa cerca una parte che sia, non superiore alle parti, che lo farebbe equidistante fra aggressore e aggredito, ma oltre le parti, e miri intanto ad arginare e poi a metter fine alla carneficina. Anche nella definizione di aggressore e aggredito si barcamena, dice che la Nato ha abbaiato alle porte della Russia, e dice che la Russia è l’aggressore.

Gli ascoltatori – il petto, la coscia – prendono ciascuno il proprio pezzo e buttano via l’altro. Barcamenarsi è arduo nella tempesta, e quando l’interlocutore è ottuso e rigido come un sasso. Kirill è un chierichetto del regime di Putin e non viene al congresso interreligioso. Francesco aveva cercato di regolare i suoi movimenti nel modo più conveniente a tenere insieme, sempre in materia di acque da traghettare, capra e cavoli. Andare a Samarcanda, vedere Kirill, e poi andare a Kyiv, dagli aggrediti. Oppure anticipare Kyiv e andare a Samarcanda forte di quella visita. Nell’incertezza, la parola passa al medico curante e ai suoi bollettini sul ginocchio di Francesco. Il settembre dei viaggi arriva al suo mezzo, Kirill non è pervenuto, il papa non ha incontrato Xi Jinping (e lo dice: eravamo tutti due là, a Nursultan che torna Astana, ma “io non l’ho visto”). Ha detto cose solenni fra i confratelli rappresentanti delle altre fedi, ma impercettibili per il grande pubblico. Per il quale c’è il viaggio di ritorno in aereo, come sempre. Quando sembrò probabile il viaggio a Kyiv prima del Kazakistan scommisi che nel cielo polacco Francesco avrebbe detto qualcosa di netto per la legittimità delle armi per la difesa ucraina.

Le cose hanno preso un orientamento più tortuoso. Nel mezzo c’era stato l’accidente di Dugina, la frettolosa frase papale sulle “vittime innocenti”, la dura reazione di Kyiv, il richiamo del nunzio, le stentate messe a punto. La barra dell’imbarcazione papale andava raddrizzata. Intanto il cardinale Parolin si era fatto sentire sulla guerra d’Ucraina, e il segretario di stato, benché ufficialmente responsabile della diplomazia, si incarica a volte di dire più francamente che cosa pensa il Papa. Aveva detto, alla rivista Limes, per giunta, che non c’è soluzione fuori dal disarmo generale, naturalmente, ma che “non mi pare corretto chiedere all’aggredito di rinunciare alle armi e non chiederlo, prima ancora, a chi lo sta attaccando”. E che: “Quanto al ricorso alle armi, il catechismo della Chiesa cattolica prevede la legittima difesa. I popoli hanno il diritto di difendersi, se attaccati. Ma questa legittima difesa armata va esercitata all’interno di alcune condizioni che lo stesso catechismo enumera: che tutti gli altri mezzi per porre fine all’aggressione si siano dimostrati impraticabili o inefficaci che vi siano fondate ragioni di successo; che l’uso delle armi non provochi mali e disordini più gravi di quelli da eliminare”. Parolin passò inosservato presso gli assolutisti del senza se e senza ma, che immaginavano un Papa a loro immagine, tutto d’un pezzo in un mondo che va in pezzi. Però, passi per la “guerra giusta” (ingiusta è sempre la guerra, non la difesa), ma che la chiesa arrivi ad abolire anche la legittima difesa è una pretesa forte. 

Si arriva dunque al viaggio di ritorno dal Kazakistan. Il testo integrale della conversazione di Francesco si trova in rete, ed è più raccomandabile che in altre occasioni, perché tocca con la solita affabile schiettezza una quantità di argomenti drammatici, e anche perché, quanto alla guerra, la necessità di barcamenarsi senza rinunciare alla sostanza vi ha preso una forma suggestivamente arzigogolata. (Arzigogolata: altra parola che scrivo volentieri togliendole l’aria di meschinità e lodandone l’inclusione di Gogol’, l’ucraino campione della lingua russa e della tragica comicità). In sostanza, Francesco doveva dire, come Parolin, che le armi, e l’aiuto in armi, a un popolo che si difende, sono una cosa giusta. E l’ha detto, aggiungendo una quantità di riserve necessarie e insieme ovvie, la principale delle quali è l’intenzione morale che guida chi offra le armi: che non sia mosso dai propri interessi di mercante, ma dalla solidarietà intima con l’aggredito.

Io, per esempio, favorevole ad armare la resistenza ucraina, non ho alcun cointeresse coi mercanti di armi, che anzi mi fanno decisamente schifo. Dunque, il Papa sullo spedire armamenti all’Ucraina: “Questa è una decisione politica, che può essere morale, moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità, che sono tante e poi possiamo parlarne. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere le armi o di scartare quelle armi che a me non servono più. La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama. Qui si tocca un’altra cosa che io ho detto in uno dei miei discorsi, e cioè che si dovrebbe riflettere più ancora sul concetto di guerra giusta”. 

Raccomando di non fermarsi all’ovvio, cioè alla condanna di chi, armando la resistenza ucraina, si proponga di inasprire o allungare la guerra o di riempirsi le tasche già piene o di riciclare i propri arsenali obsoleti: tutte intenzioni esistenti e cui opporsi. Raccomando l’accentuazione opposta, quella che qualifica la moralità della difesa armata dichiarando che “non solo è lecita, ma è anche un’espressione di amore alla Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama”. Ecco, qui siamo anche oltre Parolin, per così dire. E anche oltre quell’altro viaggio di ritorno in aereo, quando il porteño Francesco disse: “Se uno mi offende mia madre, gli tiro un pugno”, e mimò. 
In conclusione, ho pensato che forse fra poco il ginocchio del Papa migliorerà (e glielo auguro di cuore) e, oltre che in Bahrein e nel faticoso Sud Sudan, gli permetterà di esaudire il desiderio di andare a Kyiv, e starci abbastanza da vedere Zelensky e Bucha, i fedeli propri e altrui, e gli infedeli animati da speranza e amore. Saranno belle giornate.

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