uniformi di Mosca

Dove può arrivare l'esercito russo marcio, smarrito e stanco

Micol Flammini

Il fattore umano è parte della disfatta di fronte all’avanzata di Kyiv, forse la più importante. Soldati senza cibo, senza cure e senza stivali

Il 24 febbraio, il giorno in cui la Russia ha attaccato l’Ucraina, l’esercito di Mosca sembrava una macchina inarrestabile, in grado di macinare chilometri di territorio, devastare palazzi, arrivare ovunque: era numeroso e più equipaggiato degli ucraini. Dall’inizio è parso chiaro che il fattore umano sarebbe stato determinante, gli ucraini combattevano per difendere le loro case e i loro concittadini, alcuni russi arrivati in Ucraina neppure sapevano per cosa stessero combattendo. Ora che gli ucraini hanno armi potenti, sono ben equipaggiati e la controffensiva di Kyiv avanza con strategia e determinazione e i russi fuggono lasciando dietro di tutto, armi, vestiti e personale, il fattore umano si presenta in tutta la sua rilevanza e diventa il discrimine tra due sistemi molto diversi. I soldati russi oltre a non avere un motivo per cui combattere – ci sono nazionalisti che condividono la missione di denazificare l’Ucraina ma sono una minoranza – sono da mesi sottoposti a perdite pesanti, intere unità sono state spazzate via e non hanno visto arrivare rinforzi. Il morale è basso, la paura è tanta e migliaia di soldati hanno tentato di tornare in Russia, rompendo così i loro contratti con l’esercito: hanno il diritto di farlo, in quanto non si tratta di una guerra, ma spesso esercitare questo diritto non è semplice. Molti uomini vengono dalle regioni più remote e più povere della Russia, hanno deciso di entrare nell’esercito per migliorare la loro posizione economica, ma l’esercito russo, per quanto impegnato in guerre da sempre, ha finora affrontato conflitti con un numero di perdite abbastanza lieve: fare il soldato era compatibile con il rimanere in vita. In Ucraina il teorema si è capovolto: fare il soldato è difficilmente compatibile con il rimanere in vita. 

 

In questi mesi gli ucraini hanno ricevuto i rifornimenti di armi dagli alleati che gli stanno consentendo di ribaltare l’esito della guerra, i soldati russi si ritrovano invece a combattere contro un nemico armato sempre meglio con attrezzature sempre peggiori e scarse. A cominciare dagli stessi carri armati, che sono diventati il mezzo simbolo dell’invasione di Mosca, con le Z e le V in caratteri latini dipinte con la vernice bianca sulle loro fiancate. Spesso non hanno motori funzionanti e sono una trappola per chi li manovra. Le armi russe sono vecchie, le munizioni scarse e molti soldati hanno dovuto acquistare l’attrezzatura di tasca propria: stivali, uniformi, anche radio militari. Avito è l’equivalente russo di eBay e tramite una ricerca è possibile trovare il materiale di cui i soldati hanno bisogno e che hanno dovuto prendere a loro spese, spesso acquistandolo da personale militare corrotto che lo aveva rubato dagli stessi magazzini di rifornimento dell’esercito. I soldati russi fuggiti dai territori occupati nella zona di Kharkiv lasciandosi alle spalle le munizioni, i vestiti e le armi che ora sono finiti in mano ucraina, non hanno soltanto abbandonato materiale bellico di Mosca, ma una parte dei loro investimenti. Le truppe filorusse delle sedicenti repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk dal 2014 ricevono equipaggiamenti che risalgono anche a periodi antecedenti alla Seconda guerra mondiale e ora che Kyiv avanza anche verso questi due territori dovranno vedersela con armi precise e molto moderne: il meglio dei prodotti occidentali.  Anche il personale medico scarseggia nell’esercito russo, i dottori al fronte spesso non hanno il materiale di base per poter curare i soldati e questo può anche aver contribuito ad aumentare il numero dei decessi tra i soldati russi. 

 

La mancanza di armi, di farmaci, di assistenza e anche di cibo – assente o scaduto – ha fiaccato  il morale dei soldati russi, che oltre a non capire il motivo della guerra, a esserne stati informati in ritardo, ricevono un pessimo trattamento. La Russia è bloccata, cerca una strategia per far fronte alla controffensiva ucraina, cerca anche come raccontare in patria la controffensiva e questa guerra ogni giorno, a ogni centimetro riconquistato da Kyiv, si trasforma sempre di più in una battaglia per la sopravvivenza politica del presidente russo Vladimir Putin, che dopo aver parlato al telefono con il suo omologo francese, Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, continua a dire che tutto va secondo i piani. Ieri il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha lasciato intendere che le critiche sono ammesse, si chiama pluralismo, ma bisogna stare  attenti a non esagerare.   

 

I problemi interni all’esercito russo possono aver eroso la volontà dei soldati di combattere e nei salotti televisivi putiniani c’è chi chiede di far rientrare “i poveri ragazzi” dal fronte e chi invece chiama alla mobilitazione generale. Nei primi mesi dell’offensiva, quando gli ucraini non erano dotati delle armi di adesso, hanno respinto i russi con strategia e con determinazione, sentendosi parte di una struttura orizzontale, dalle idee molto chiare. Nelle prime fasi è stata una vittoria anche del fattore umano ucraino contro i soldati russi incastrati in un meccanismo che ha iniziato a marcire già prima dell’arrivo di Putin, fino a diventare inefficiente.

 

Il  disprezzo per la vita umana, nell’esercito lasciato senza rancio e senza stivali, come tra i civili che sopportano il peso delle sanzioni, rimarrà tra le ferite di quest’èra russa.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.