Una donna passeggia con il figlio nel passeggino di fronte a un soldato russo, a Kherson. (LaPresse)

reportage dall'ucraina

Non è giusto chiedersi se l'occidente sia stanco della guerra

Adriano Sofri

Gli esperti si chiedono se l'occidente non ne abbia abbastanza del conflitto. Ma la vera domanda è se ne abbia abbastanza l'Ucraina dell'attacco russo alla sua indipendenza

 Zaporizhia, dal nostro inviato. Gli osservatori si chiedono se il mondo, e in particolare l’“Occidente collettivo”, nel cui patrocinio l’Ucraina confida, non ne abbia già abbastanza. Sia “stanco” della guerra ucraina, e dei costi che importa in paesi, dopotutto, stranieri e incolpevoli di tutto. L’Occidente, basta levargli la maiuscola e siamo noi. Noi dunque. Prima non abbiamo creduto che alla guerra si sarebbe arrivati. Non è nella nostra indole. Cioè: non è che non sia nella nostra indole il desiderio di non fare la guerra, gran bella cosa, e condivisa dagli ucraini.

Non è nella nostra indole ammettere che altri la vogliano fare, ciò che ci differenzia dagli ucraini, e dai polacchi e i moldavi, e i baltici, e perfino, a sorpresa, dai finlandesi e dagli svedesi, e chiunque si sia trovato dentro o ai bordi dei confini con l’impero russo. Poi non abbiamo creduto che la guerra sarebbe durata. Era una pazzia, un’enormità, una sbronza, la mattina dopo se ne sarebbe andata lasciando solo un gran mal di testa. Invece dura: e dura proprio per l’errore marchiano di chi l’ha mossa. Putin è stato il primo a scommettere che sarebbe durata pochissimo, il tempo di una spedizione punitiva, di rimettere un po’ di statue sui piedistalli e un po’ di cortigiani a vicegovernare. Dopo un simile smacco Putin non poteva che continuare a oltranza, ed è ciò che sta facendo. Saggiando via via la questione successiva: a favore di chi lavori il tempo. 

Contraddicendo la propria strutturale vulnerabilità, l’Occidente, quello con la maiuscola, ha garantito di avere il tempo dalla propria: perché le sanzioni facessero effetto, in particolare. Non è stato così, o almeno la questione è ancora da dirimere. Ma l’occidente, cioè noi, è attaccato alle sue abitudini, riscaldamento, refrigerazione, ed è volubile, perché esercita il diritto di voto (e dunque generosamente si astiene). Nel giro di pochi mesi noi, anche quelle e quelli che all’inizio erano nobilmente scandalizzati dal ritorno della guerra nel nostro vecchio venereo continente, della guerra siamo più semplicemente stufi: che palle. Era sembrato che il dilemma sull’aiuto armato alla resistenza ucraina fosse il punto decisivo della rottura di una coalizione di governo, perché i sondaggi inducevano le fazioni arrancanti a crederlo, ma è subentrato un più maneggevole inceneritore. Le elezioni in Francia, la balbuzie tedesca, le crisi domestiche nel Regno Unito e in Italia hanno incrinato la solidarietà con l’Ucraina, dell’Occidente e dell’occidente, cioè noi. Siamo stanchi. Le elezioni negli Stati Uniti è come se fossero già avvenute, e anche Biden non si sente benissimo.

Tutto questo non era imprevedibile, benché si vada realizzando con un sovrappiù di zelo. Il regime russo ci ha contato via via di più, se ne mostra rianimato. L’impunito Lavrov – si è rivelato, un Tarek Aziz di Putin, e così sia – ha benignamente dichiarato: “Aiuteremo l’Ucraina a sbarazzarsi di questo regime inaccettabile”. Forse è una frase da ignorare. Forse no: non dice più “denazificheremo”, cioè “deucrainizzeremo”, cioè cancelleremo l’Ucraina dalla faccia o dalla carta geografica della terra. Dice che il programma originario, entrare a Kyiv con quell’ingorgo di tank e appendere Zelensky a un lampione e ripristinare un oligarca vivo e una statua morta, ha dovuto subire un lieve aggiornamento e, di conseguenza, tempi lunghi. Il tempo necessario a far sì che a sentirsi “stanco” di questa guerra, e ad agire di conseguenza, sia il popolo ucraino. Il cambio di prospettiva è insieme un’inversione e un adattamento: accantonata l’illusione delirante che la gente ucraina accolga la gran madre russa a braccia aperte, si ripiega sulla speranza che la gente ucraina finisca per non poterne più di Zelensky e in generale della sua classe dirigente. 

Voglio dire che la vera domanda del punto cui siamo arrivati è se non sia l’Ucraina, l’eroica Ucraina, a cominciare a esserne stanca. Lasciatemi però fare un’osservazione: il nome di eroe e l’aggettivo che gli corrisponde sono dovunque insidiati dalla retorica, un tintinnio di petti e salme onuste di medaglie al valore e alla memoria. In Ucraina è oggi una parola d’ordine, un saluto: “Gloria all’Ucraina, gloria agli eroi”. Una citazione poetica, in realtà. Fa parte del risorgimentismo dilazionato della situazione, e di un linguaggio che la fa suonare più affabile e meno retorica che presso di noi. Tuttavia è al cuore della questione. Ha segnato la stupefazione per una resistenza all’invasione esclusa da ogni osservatore estraneo, anche i più simpatizzanti, seppur attesa dai protagonisti di un mutamento iniziato con la rottura del 2013-14. Zelensky, è chiaro, l’aveva messa nel conto, e così i suoi, quando non se la sono squagliata. 

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi: tuttavia succede di averne bisogno, e che sorgano. Ma una resistenza fondata sull’eroismo, militare e civile, ha per così dire le ore contate, e se non le ore, i mesi. Lo scenario di questi giorni lo testimonia. Le rese dei conti all’interno della leadership di Kyiv, più vistosamente: la compattezza data per scontata lascia il passo alla ristrutturazione di responsabilità, competenze, fedeltà. Problemi accantonati sulla spinta dell’urgenza, come il modo del reclutamento militare e la ripartizione fra volontariato e coscrizione, si presentano e mostrano che lo slancio iniziale cede, lui sì, alla vera stanchezza. Nessuno può illudersi che un’intera generazione di uomini adulti frema dal desiderio di arruolarsi, soprattutto a distanza di mesi dall’emozione e dall’oltraggio, e quando della guerra non si intraveda la fine, e si sia conosciuto lo scotto. Una coscrizione universale non è solo un problema della Federazione russa e dei suoi buriati, lo è anche, del tutto comprensibilmente, per l’Ucraina. Ancora: il protrarsi della guerra allontana, pur senza abolirla, l’audacia delle bottiglie molotov e le sostituisce l’addestramento tecnico e tecnologico sempre più sofisticato, così riducendo il richiamo del valore e dell’abnegazione personale. Dunque l’epopea, il cui ultimo capitolo si è compiuto dentro l’Azovstal di Mariupol e si è concluso con la resa (si legga il reportage impressionante di Michael Schwirtz sul New York Times di ieri, “Last Stand at Azovstal...”) può difficilmente ripetersi in questa forma. Una lotta partigiana cittadina può avere un rilievo, come nella Kherson occupata, ma la parola, chiamiamola così, è passata da tempo al confronto delle artiglierie e dei calibri rispettivi. L’Ucraina ha bisogno, e lo sa, di segnare un nuovo punto, e non a caso i suoi capi lo annunciano a rincuorare gli animi, come per Kherson. 

Quello che vale per i combattenti al fronte vale altrettanto e più per i civili. La guerra è tante guerre tremendamente diverse. Distruzione e massacri del Donbas o di Mariupol o di tanti paesi e villaggi di frontiera hanno ben poco a che fare con l’esistenza quotidiana di città e regioni lontane dal fronte, esposte sì al quotidiano azzardo dei bombardamenti punitivi o terroristici, ma abituate ormai a una normalità solo incrinata da una febbretta. Ci si abitua a una pandemia, ci si acconcia a vivere in una guerra come se non ci fosse la guerra. Ma quel modo, che all’inizio è la tensione accorata di chi resta nei confronti di chi è andato al fronte, diventa inevitabilmente una dissociazione, e un’assuefazione. Gli stabilimenti balneari di Zaporizhia, dove il lungofiume è una lunga spiaggia, sono una prova di resistenza, ma anche un annuncio di renitenza. 

Di questo mutevole quadro fa parte anche l’atteggiamento del Donbas e dei territori più solidamente in mano all’occupante russo. Nessuno può dimenticare che anche là il disegno dell’invasione si è mostrato illusorio, e doppiamente rivelatore. La proverbiale Ucraina dimezzata in una parte occidentale ed europeista e una parte orientale e russofila, oltre che russofona – le due sponde del Dnieper – è stata sconfessata dall’invasione. La fazione militante russofila o segnatamente russa, importata, non ha contato sull’adesione della popolazione se non in minima misura. Col passare dei mesi questo quadro è cambiato, com’è inevitabile per una gente rimasta, presa tra due fuochi, e sempre più desiderosa che la si faccia finita. 

Volevo scrivere questo, perché sono stanco di leggere che il mondo, l’Occidente, l’occidente, noi, siamo ormai stanchi della guerra in Ucraina, al punto di dimenticare chi l’ha scatenata e perché. E invece mi domando e domando se l’Ucraina non cominci a essere stanca del peso di una guerra che ne ha falcidiato la gioventù, disperso le famiglie e distrutto i tetti, e veda disegnarsi sul proprio orizzonte la stanchezza degli occidenti. 

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