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La minaccia atomica ora incombe su Zaporizhia  

Adriano Sofri

Nella centrale nucleare i russi hanno stipato armi e munizioni, mentre Lavrov dice che la conquista del Donbas a Mosca non basta più. Il rischio di incidente e le nostre rimozioni 

Zaporizhia, dal nostro inviato. Sono appena arrivato a Zaporizhia (lo scrivo così, ma si pronuncia con l’ultima sillaba doppia, come mannaggia) e non ho niente da raccontare, salve le premesse. Anzi, una cosa sì: sono venuto in treno da Dnipro, più di due ore per soli 70 km, e in cambio una perfetta puntualità. Senza volere, avevo preso una cuccetta, che però mi ha fatto incontrare le persone che venivano da Lviv-Leopoli e avevano passato un giorno e una notte in treno. Erano quasi tutte donne giovani coi loro bambini: dunque tornavano a casa dopo esserne andate via. 


Alla stazione le aspettavano uomini anziani, i loro padri, immagino. C’era molta commozione. Così mi sono chiesto come mai avessero deciso di tornare, proprio in un giorno come questo. Giovedì infatti sia l’Ucraina sia la Russia si erano fatte sentire su Zaporizhia.  Per l’Ucraina, il presidente dell’Energoatom, la compagnia statale responsabile del controllo degli impianti nucleari, Pedro Kotin, aveva denunciato che i russi stavano stipando ogni tipo di armamenti, missili compresi, nella sala motori di uno dei reattori della centrale nucleare. Autorità ucraine avevano a loro volta accusato i militari russi di usare l’impianto nucleare come base di lancio dei missili. Tutto ciò, ammonivano, minacciava di provocare una catastrofe, anche solo per un incidente come l’esplosione di munizioni e l’incendio conseguente. Quanto alla parte russa, che ha in mano la centrale fin dal 4 marzo, denunciava i proiettili di droni ucraini caduti a poca distanza da una vasca di raffreddamento del reattore (che avevano ferito undici militari russi) e la catastrofe di portata continentale evitata “per pura fortuna”. Così la notissima Maria Zakharova: “Solo la fortuna ha impedito di arrivare a danneggiare l’impianto e a provocare una catastrofe per mano umana”. Ora: leggete le due dichiarazioni, osservate il termine comune – “catastrofe” – e chiedetevi fin dove la esaltazione propagandistica lo renda inoffensivo, e da dove in poi la nostra normalità quotidiana sia solo l’effetto miracoloso della rimozione. 


Dall’inizio della spregevole invasione dell’Ucraina, la minaccia atomica incombe sulla scena in ambedue le sue varianti: l’atomo “pacifico” delle centrali e l’atomo bellicoso della bomba. Si alternano e si completano. Sulla bomba, prevale negli spettatori, noi, la freddezza, il panico, o il fatalismo; sulla centrale, di gran lunga la rimozione. Tuttavia si tratta dell’Ucraina, il paese di Chernobyl – espugnata anche lei dai soldati russi all’arrembaggio, quasi per gioco – e della centrale di Enerhodar, “la più grande d’Europa”, come si precisa burocraticamente. Voglio chiarire una cosa, evidente a chi segua gli eventi con l’attenzione e le mappe dovute, ma senz’altro confusa per i più, me compreso: la “centrale di Zaporizhia” è tale solo perché si trova nella regione, l’oblast’, di Zaporizhia, ma dista dall’omonima città 52 km in linea d’aria. (Fra Enerhodar e la dirimpettaia, sul Dnipro, Nikopol, restata in mano ucraina, la distanza è di soli 21 km). E fra le due città, Enerhodar e Zaporizhia, passa il fronte fra occupanti russi e difensori ucraini. Aggiungo che Zaporizhia, la città, aveva prima della guerra e dei movimenti che ha suscitato, ben 750 mila abitanti, una popolazione di poco superiore a quella della stessa Lviv. 


L’equivoco frequente delle nostre cronache sta nella sovrapposizione fra il nome del capoluogo e quello dell’oblast’, cosicché succede di leggere nei titoli “Ancora bombe su Odessa” anche quando le bombe hanno colpito a 150 km da Odessa.


La menzione delle distanze, nel caso di Zaporizhia, è insieme necessaria – io non sono arrivato affatto alla centrale nucleare – e tragicomica, dal momento che le decine e le centinaia di km fanno poca differenza nell’eventualità di un’esplosione, di una fusione o della fuga radioattiva. Sul Guardian di qualche tempo fa ho letto questa osservazione conclusiva di un autorevole specialista australiano di sicurezza nucleare, Tony Irvin: “Ovviamente non è una buona idea cominciare a sparare grossi missili contro i reattori”. La rimozione ha il suo spirito.


Ora, a un paesaggio così disegnato, si aggiunge, nelle stesse scorse ore, il proclama di Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri che già passava per moderato, secondo cui la conquista del Donbas non basta più alla Russia, ammesso che le sia mai bastata, e ora almeno gli oblast’ di Kherson e di Zaporizhia vanno aggiunti al bottino. Parole che alzano le quotazioni già febbricitanti di Zaporizhia e fanno più preziose le famigliole parziali, bambini e mamme, di cui stamattina sono stato breve compagno di viaggio.

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