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La politica ucraina e i dissensi attorno a Zelensky visti da Dnipro

Adriano Sofri

Nel nostro pregiudizio sull’unità degli ucraini, notizie come il giubilamento di alti notabili suonano come scricchiolii inquietanti. Ora il sindaco di Mykolaïv dice di abbandonare la città: un altro colpo. Ma su Zelensky non c'è nessuno che non dica: è il nostro presidente

Dnipro, dal nostro inviato. Essere lontani, e aver da fare, sono buoni pretesti per non tener dietro alla politica italiana. A occhio, la famosa guerra è stata evocata pressoché soltanto per ammonire, come ha fatto Letta, che la Russia gode della crisi (Letta aveva avventatamente ammonito, coi tempi che corrono, a “evitare il colpo di pistola di Sarajevo”). Questa ovvia constatazione – valla a spiegare a un ucraino la crisi di governo italiana – avverte del reciproco, la difficoltà nostra, per esempio mia, a farsi un’idea della eventuale crisi politica nel governo ucraino, di cui per lo più non sappiamo niente. Abbiamo bensì un pregiudizio: l’unità degli ucraini di fronte all’aggressione russa, così come si è manifestata nella strenua e sorprendente resistenza armata e civile, sicché notizie come il giubilamento di alti notabili, come la procuratrice Iryna Venediktova o il capo dello Sbu, il servizio segreto di sicurezza, Ivan Bakanov, suonano come scricchiolii inquietanti in quella unità. Tanto più che la spiegazione che ne viene data oscilla fra la tecnica – l’efficacia nell’attuazione del proprio mandato – e la politica – la resa di conti fra personalità e gruppi di potere.

Ancora: una controversia estremamente accanita è stata aperta da una decina di giorni negli Stati Uniti dall’unica congressista nata in Ucraina, la neosenatrice dell’Indiana Victoria Spartz, ultrà trumpista e, dopo l’invasione russa, ultrapaladina del paese da cui emigrò 22 anni fa: Zelensky sarebbe colpevole di non aver preparato alla guerra. Il suo bersaglio principale è Andriy Yermak, capo dell’Ufficio di presidenza di Zelensky, di fatto suo braccio destro. Spartz, che ha d’occhio la propria carriera, ha ripescato vecchie polemiche su rapporti d’interesse fra Yermak e la Russia, ed è arrivata a pretenderne le dimissioni. (Ieri, mercoledì, la presidenza ucraina ha voluto dare notizia del colloquio telefonico fra Yermak e il senatore James Risch, repubblicano ed esponente di spicco della commissione Esteri del Senato americano, sul tema degli armamenti e delle sanzioni). Tutto contribuisce agli interrogativi sulla tenuta della leadership ucraina di fronte alla lunga durata e ai costi umani, e sulla tenuta rispettiva del sostegno internazionale. Il fatto è che la politica ucraina non è meno complicata, variegata e anche pittoresca di quanto sia quella italiana, e del resto la stessa avventura di Zelensky ne è la testimonianza. Oligarchi e corruzione non ne esauriscono affatto lo spettro, affollato di partiti ereditati e improvvisati, e terremotato dal regime della legge marziale, dei suoi obblighi e delle sue scivolate. 

Avevo smesso da subito di perdere il mio tempo a decifrare tatuaggi per le strade ucraine. Martedì sera mi sono infilato in una comitiva di ventenni più o meno, femmine e maschi, in un posto di quelli che finiscono in burger, che prendendomi tranquillamente per un tipo un po’ così hanno risposto alle mie domande su Makhno, l’“anarchico cosacco” che tenne in scacco gli eserciti di tre o quattro potenze prima di essere sopraffatto, tra il 1917 e il ’21, e che a Dnipro aveva il suo comando nel mio stesso albergo: arringava dal balcone, di sera saliva fino alla sua camera a cavallo – oggi l’ascensore non funziona. Bene, di quei giovani amici e amiche uno lo considera un poco di buono, due, lei e lui, un prode come nessuno, il cui esempio dovrebbe guidare i combattenti di oggi, uno un internazionalista insensibile all’indipendenza dell’Ucraina, uno un nonviolento costretto dalle circostanze, un paio non so non risponde. 

Mi aveva colpito dall’inizio del mio ormai lungo soggiorno l’assenza vistosa di manifestazioni di culto della personalità di Zelensky, impressione che si conferma. L’impressione che le si accompagna e la completa è di una singolare libertà politica nelle conversazioni fra le persone, e con uno straniero che si presenta come un giornalista: non c’è segno di cautela, censura o autocensura nei giudizi politici. Compresi quelli su Zelensky, con una costante: non si trova nessuno che, anche esprimendo con convinzione un giudizio critico sullo Zelensky politico dei tempi di normale amministrazione, non dichiari di riconoscerne il merito – non è scappato, ha fatto rispettare il paese dal resto del mondo – e di stare dalla sua: “E’ il nostro presidente”. Frase detta con qualche solennità ma soprattutto con una certa affabilità. Per le persone più diverse la lotta politica non è superata dalla guerra contro la Russia, è dilazionata. Molto avviene già ora, e basta guardare ai destini personali degli oligarchi e delle loro fortune. Ma sono in molti a evocare, per il futuro di Zelensky, esempi storici come quelli del Churchill o del De Gaulle del Dopoguerra. 

Proprio questo “lealismo”, forte anche in persone tutt’altro che nazionaliste, può rendere più allarmanti gli episodi di dissenso e rivalità interne alla leadership. D’altra parte le disponibilità al “collaborazionismo” con l’aggressione russa, e le loro basi storiche e sociali, non possono certo stupire. Ieri Francesca Mannocchi sulla Stampa faceva l’esempio drammatico, “grigio”, del sindaco di Kupyansk, nell’oblast di Kharkiv, già esponente di un partito filorusso, che si assunse, disse, la responsabilità di salvare cittadini e case arrendendosi ai russi, i quali hanno poi finito per non fidarsene e arrestarlo, mentre per gli ucraini è senz’altro un traditore. E proprio ieri il sindaco, ormai notissimo, di Mykolaïv, Oleksandr Sienkevych, ha detto che le difese antiaeree sono del tutto insufficienti di fronte alla quantità di missili rovesciati dai russi sulla città, vuotata di più della metà della sua popolazione, e che è venuto il momento di abbandonarla per salvare le vite di chi è rimasto. Naturalmente, evacuare i civili, anziani e sfollati in gran parte, non vuol dire rinunciare alla difesa militare, che tuttavia ne sarebbe indebolita: svuotare la città è stato l’obiettivo del bombardamento quotidiano. Come si è ricordato tante volte, Mykolaïv è la trincea ultima della difesa di Odessa, e il retroterra della sperata controffensiva su Kherson. E qualcuno ricorda che, dopo il cedimento di Kherson, anche l’amministrazione di Mykolaïv aveva esitato sul da farsi, quando i russi erano già entrati nella città. Altrettante tempeste di dubbi, nel momento stesso in cui molte voci – non provate – circolano sulla morte “per asfissia” del sindaco di Kherson, la città in cui più forte è la guerriglia partigiana e più feroce la repressione degli occupanti russi. 

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