Scontri a Caracas. Foto LaPresse

I rivolgimenti politici e le inesorabili guerre civili

Adriano Sofri

Dal Venezuela alla Libia. Le guerre para-mondiali interposte

La stranezza, almeno apparente, della crisi venezuelana è tale da confondere le regole che i politologi, e prima di loro i rivoluzionari e i golpisti, cercano di trarre dai rivolgimenti politici. Uno spettacolare dualismo di poteri sembra piuttosto un dualismo di impotenze. Del resto quando un doppio potere si protrae a lungo, rischia di avvantaggiare chi il potere ce l’ha già e può serrare i ranghi. Forse per questo Guaidó ha tentato la forzatura che, da audace che appariva, l’ha reso velleitario. La cosa più strana, direi, è che i due rivali, Maduro e Guaidó, siano ambedue vivi e liberi, specialmente il secondo, che in una crisi “rivoluzionaria” tradizionale avrebbe vinto presto a furor di popolo, o sarebbe stato catturato o ancora più probabilmente liquidato. Se questo non è avvenuto, è perché Guaidó ha vistosamente alle spalle gli Stati Uniti. Se l’esercito non è ancora passato dalla parte di Guaidó, nonostante i suoi sostegni internazionali e l’appoggio di una netta maggioranza della popolazione, è perché Maduro ha vistosamente alle spalle la Russia (e, un po’ più indietro, la Cina). Si può dubitare dell’adesione plebiscitaria del popolo a Guaidó, e soprattutto della sua tenuta nella lunga dilazione. Si può dubitare in generale, nonostante i sondaggi, dell’adesione plebiscitaria popolare in qualunque crisi nazionale contemporanea. E’ l’impressione entusiasmante che torna oggi in Algeria e ancora più in Sudan, col suo meraviglioso protagonismo femminile. Ma in generale i regimi, soprattutto quando hanno avuto il tempo di invecchiare, hanno anche guadagnato a sé una parte cospicua di popolazione. Questo è vero soprattutto nei regimi petrolieri, che sono destinati (Norvegia a parte) a ignorare la democrazia, ma sono in grado di acquistarsi, alla lettera, il consenso di una buona porzione di sudditi, a cominciare dalle forze armate e di polizia.

    

In Libia, per esempio, dove una varia scala di privilegi di tribù e di casta coincideva con un vasto impiego di lavoro straniero servile. In alcuni di questi regimi la cosa è complicata da una loro vocazione originaria, o da una loro pretesa, “rivoluzionaria”, che assicura loro oltre a una folla compradora una vera schietta adesione ideale, magari anche a scapito degli interessi materiali dei credenti. Così è ancora in qualche misura per il chavismo in Venezuela. La combinazione fra fede ideale e apparato beneficiario di privilegi ufficiali e di corruzione riduce fortemente l’efficacia dell’accerchiamento economico, quello cui in particolare si affidano gli Stati Uniti di Trump, come se Cuba non avesse insegnato niente. Gli esempi sono pressoché dovunque, e più esemplarmente nella tenacia della metà peron-kirchnerista dell’Argentina. Succede così che si protragga una condizione disastrosa come quella della vita quotidiana dei venezuelani, dentro e nei luoghi della migrazione esasperata, compreso il mare in cui ormai annegano i suoi migranti di barcone alla volta di Trinidad e Tobago. L’accordo fra Pompeo e Lavrov, se davvero venisse, somiglierebbe a una spartizione settecentesca, se non di territorio, di quello che c’è sopra e sotto. La triste conclusione è che tutti i profondi rivolgimenti politici, nel mondo già detto terzo, tendono piuttosto inesorabilmente alla guerra civile. E le guerre civili tendono alle guerre para-mondiali interposte. Le screditate elezioni sono, in questo contesto, l’unica eventuale via d’uscita.

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