Il trappolone dell'opera "testamento"

Esce a fine novembre su Netflix dopo anni di gestazione "The Irishman". Racconta una storia che offre molto materiale narrativo, ma proprio per questo è più a rischio di un film girato con allegra distrazione

Mariarosa Mancuso

Il cast di “The Irishman” ci guarda dalla copertina di Empire (animata, nell’edizione per iPad: i nomi di Scorsese, De Niro, Pesci, Pacino arrivano a uno a uno). E noi li guardiamo con la familiarità che abbiamo verso i parenti. Un po’ perché il regista e gli attori hanno occupato una parte cospicua del cinema, da qualche decennio a questa parte. Un po’ perché la lavorazione del film – con un budget gigantesco poi preso in carico da Netflix, e dovremmo almeno ringraziare invece di inanellare lagne sullo scarso coraggio dei produttori – è stata lunga e tormentata. Sono anni che ne sentivamo parlare, sembrava non sarebbe uscito mai più. Per dire, il primo copione scritto da Steven Zaillian risale al 2007. La lavorazione è stata ancora più lunga e ancora più tormentata rispetto alle ultime previsioni, consapevoli del fatto che ringiovanire gli attori di 30 anni è più difficile che riprodurre al computer un cucciolo di leone (il paragone è nostro, certo irrispettoso, ma se dobbiamo morire di tecnica almeno facciamolo con una battuta). La data di uscita in streaming non veniva annunciata mai. Ora è fissata per il 27 novembre, preceduta da quattro settimane di sfruttamento nelle sale americane: con la buona volontà, e senza piangere per la scomparsa dei vetturini a cui le automobili hanno rubato il lavoro, si finisce per mettersi d’accordo. “The Irishman” chiuderà il London Film Festival e lo vedremo alla Festa del Cinema di Roma diretta da Antonio Monda (inizia il 17 ottobre e chiuderà il 27).

 

Esclusiva mondiale, tutte le curiosità che abbiamo sul film sono custodite nelle pagine centrali della rivista (va detto, dopo una carrellata piuttosto ghiotta sui film dell’autunno, dove “ghiotto” significa anche “non ne abbiamo quasi sentito parlare”). Le fotografie sono strepitose, come la ricostruzione delle varie epoche. Insieme tolgono di mezzo il brivido di terrore generato dal poster con luci radenti, sfumature verdoline, giacca in pelle, capelli color polenta, due pistole in mano, posa da killer anni 70. E’ la storia (vera) di Frank Sheeran, irlandese di Filadelfia che prima guidava camion e poi si mise a fare lavori sporchi, bravissimo anche nei doppigiochi. Fu accusato, tra gli altri crimini, di aver ammazzato il sindacalista Jimmy Hoffa. Le sue confessioni e sconfessioni offrono materia per più di un film. Teniamo le dita incrociate, ché siamo personcine prudenti e ormai non ci fidiamo di nessuno, neppure dei grandi maestri. Anche loro come Omero ogni tanto dormicchiano, e una cosa temiamo soprattutto. Il film a lungo covato, accarezzato, riscritto, chiacchierato, sognato, montato e rimontato, ai confini con l’opera-testamento o “Il lavoro che più mi rappresenta”. L’esperienza (sempre maligna) suggerisce che sono più a rischio di quelli girati con allegra distrazione.