(foto LaPresse)

oltre i tormentoni

Un lamento dietro l'eterna barzelletta. Smascherare Dargen D'Amico

Stefano Pistolini

Viene dalla vecchia scuola ma ha trovato una chiave per piacere al grande pubblico. È un manipolatore della ricetta che un tempo si chiamava dell’alto e basso. Cosa ci dice del cantante milanese il suo ultimo disco

Ma chi è veramente Dargen D’Amico (per gli amici Dargen, per gli amicissimi solo D) e soprattutto che vuole da noi? Perché abbiamo questa perenne sensazione che abbia qualcosa da nascondere, o meglio ancora, che giochi senza posa con questo concetto? Non che non si conosca la sua vicenda musicale, lunga e piuttosto gloriosa, affondando le radici nella sua Milano d’inizio dei Novanta, quando si faceva chiamare Corvo D’Argento, prima di fondare con Gué Pequeno e Jake La Furia le Sacre Scuole, formazione seminale del rap italiano. Dopo però, da quando si è messo in proprio e ha cominciato una carriera solista a lungo faticosa, sempre col rispetto dell’ambiente ma con scarsi riscontri commerciali, Dargen ha traversato un lunga metamorfosi che ha preso a innestare nel suo personaggio una serie di componenti nuove, non sostituendo le altre ma sovrapponendosi, fino a generare un caso di caotico situazionismo musicale, creativo, demenziale, geniale e innervosente al tempo stesso, che poi è la figura a  cui, in tempi relativamente recenti, è stato finalmente regalato a una celebrità nazionale.

Molto ha contribuito la partecipazione in veste di giudice alle ultime edizioni di “X Factor”, dove hanno funzionato il suo character spesso surreale, le sue freddure non sempre travolgenti – ma qualche volta sì – la sua preparazione sulla questione della canzone italiana, in particolare quella dei classici, che lui porta nel cuore più delle sfrenatezze gangsta. In quel talent Dargen ha occupato il ruolo di funzionale pendant al compare Fedez, smussandone certe rudezze e a lui accomunandosi nel tentativo di riusare la grammatica rap in una declinazione pop che meglio corrisponda al ruolo di questo suono nel presente. Il tutto puntualmente abbigliato con smoking coperti di orsetti, colori fluo, giganteschi pois, invereconde diavolerie kitsch indossate con l’aplomb di chi finge d’essere in jeans e maglietta, lasciando solo trasparire qualche impercettibile tremore di timidezza e qualche residuo della passata tamarragrine, dietro gli eterni occhiali neri a fare il personaggio, insistendo sulla misteriosità, tenendo viva la barriera con la quale non permette mai d’arrivare veramente alle sue reali intenzioni.

 

Poi è arrivato Sanremo e Dargen ha salito un altro gradino, due anni fa col tormentone “Dove si balla?”, replicando nell’edizione di pochi giorni fa con “Onda Alta”, brano che, su una martellante base dance, parla di piccoli profughi che affogano nel Mediterraneo (dove “alta” fa rima con Malta). A margine dell’esibizione il suo ormai famoso appello pacifista divenuto questione di allucinante dibattito politico nazionale, aggravato dall’apparizione da Mara Venier, dove la povera Rai ha toccato il fondo proprio nell’intervista a Dargen, reo di portare argomenti seri, in un programma inteso solo come una bella festa. Tant’è. Però tutto questo, un ondeggiare proprio da onda alta, non chiarisce affatto chi sia alla fine questo veterano che si schermisce se lo si tratta da artista vero e poi per qualche istante s’atteggia a maestro di cerimonie di una scena – all’incirca quella discografica milanese che coniuga rap, allusioni intellettuali, rivendicazioni d’indipendenza, occhio attento al mercato, insomma tutto ciò di cui un tempo fu illustrissimo docente Lorenzo Jovanotti, in una performance umana irripetibile.

 

Però se adesso c’è un insider degli insider della produzione meneghina, se c’è uno che conosce tutti e che tutti stimano, se c’è uno capace di sintetizzare gli andamenti, individuare le tendenze e poi buttare tutto in ridicolo, questo è Dargen. Che a fianco a queste prerogative da anchorman sottoculturale, non smette di coltivare l’antico vizio: incidere dischi, anzi, long playing, come si usava una volta. L’ultimo di una lunga serie è appena uscito e si chiama “Ciao America”, non ha troppi featuring (Rkomi e Beatrice Quinta, rispettivamente collega e allieva di XF e il vecchio compare Gué) risulta gradevole all’ascolto, fin troppo vario nei generi e non fa che infittire gli interrogativi per chi si chieda cosa si nasconda sotto le spoglie del variopinto 43enne vocalmente poco dotato, ma astuto nell’allestimento di pezzi che oggi funzionano – nelle radio, negli streaming, nei carrozzoni musicali in tv.

 

Nell’album c’è di tutto, vecchio hip hop, passaggi reggaeton, electro anni Novanta, liriche che giocano coi drammi, ma possono anche nutrirsi di minimalismo. Gli indizi continuano a latitare, la cortina degli effetti speciali tiene lontani gli sguardi indiscreti. Dargen è un manipolatore della ricetta che un tempo si chiamava dell’alto e basso, è un cinico profittatore della banalità del gusto contemporaneo, potrebbe essere un futurista, ma è anche una voce critica che predilige il calembour allo slogan. Però, quando si arriva alla traccia numero 11 di “Ciao America” ecco spuntare qualcosa d’inaspettato: “Patto di Fango”, una ballata familiare agra che parla di un padre spostato, una madre sovrastata, un figlio che si sente odiato e sbanda. Una storia disarmante, un quadro vivido, il racconto di una lacerante sofferenza. Si rimane interdetti: Dargen di colpo si offre scopertamente ai nostro occhi? Di botto traduce l’ironia in verità e perfino in sofferenza? Difficile non studiarlo con occhi diversi a questo punto. Ma, a pensarci, sarà tutto vero? E’ lui il ragazzino ridotto a un cucciolo senza collare dal naufragio familiare? O è solo un’altra pagina del diario fantastico di un artista che lo scrive con l’inchiostro simpatico, quello che va via subito, e sopra ci puoi riscrivere un’altra cosa, d’altro genere, una barzelletta dove c’era un lamento. E’ questo la perenne performance di Dargen, essere uno e centomila e qualche volta anche nessuno?

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