George e Ira Gershwin - foto via Getty Images

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George e Ira Gershwin: i due padri dello swing

Damiano Michieletto

Non solo "Rhapsody in Blue": i due musicisti hanno scritto opere che hanno cambiato la storia del musical, incarnando lo spirito dell'epoca con ritmi veloci, leggeri e molteplici. La storia

Un musicista autodidatta, figlio di immigrati, che da ragazzo suona il pianoforte per pochi dollari alla settimana e finisce poi per diventare il compositore più ricco d’America. Questo è George Gershwin, il re della musica americana degli anni Venti e Trenta. Creando un sodalizio con il fratello maggiore, Ira Gershwin, scrittore e paroliere delle sue opere, i due lasciarono un fecondo catalogo di songs diventate poi degli standard assoluti, cantati, suonati e reinterpretati da moltissimi artisti. Due fratelli quasi coetanei, uniti nella vita artistica ma costretti a dirsi addio molto presto, perché se Ira Gershwin visse per quasi novant’anni, George invece non arrivò nemmeno a quaranta. Chissà cosa avrebbe continuato a inventare se un tumore al cervello non avesse spento prematuramente la sua esistenza… George Gershwin è stato l’autentico mattatore del musical americano, il genere senza dubbio più rappresentativo del teatro musicale del Novecento, secolo di cui il musical ha saputo raccogliere e raccontare, meglio di ogni altra forma teatrale, le caratteristiche più significative. È un genere leggero, veloce, molteplice. È swing. Swing è la parola che ne rappresenta la sintesi ma, non essendo un termine di origine latina, è per noi quasi intraducibile. Swing è l’attacco incalzante, è la pulsazione accattivante, è il ritmo energico. Swing è un ballo, un’altalena che dondola, un cambio di traiettoria, un gioco erotico. È sempre un anelito al movimento, alla sorpresa. Un’oscillazione verso qualcosa che disequilibria e stupisce, inebria e produce vertigini.
 

“Alles schwindel” è una stupenda canzone del cabaret berlinese degli anni Venti: tutto mi inebria, tutto mi fa venire il capogiro. Ma può anche indicare che tutto è ambiguo, menzognero. Ecco lo swing: infedele, sfuggente, incostante, variabile, inafferrabile. È un elastico, mai identico a se stesso. Un ritmo che dice una cosa e poi ne fa un’altra. Un gatto sornione che ti guarda, muove la coda e poi balza via. Lo swing è felino ed è l’emblema di quegli anni ruggenti dove alcune città iniziavano a non dormire mai. Molte delle canzoni di George Gershwin furono scritte per la prima volta per spettacoli musicali rappresentati nei teatri di New York. Queste commedie, ricche di musica, erano una forma di intrattenimento popolare negli anni Venti e Trenta, tanto da produrre un dibattito sulla musica jazz. Il jazz, si chiedevano alcuni, può essere considerato musica seria? Nel 1924, il musicista jazz e direttore d’orchestra Paul Whiteman decise di organizzare un concerto speciale per dimostrare che il jazz è musica seria. George Gershwin accettò subito di comporre qualcosa per il concerto prima di rendersi conto di quanto poco tempo avesse a disposizione per farlo: mancavano solo alcune settimane e Gershwin, in quel breve tempo, compose un pezzo per pianoforte e orchestra, chiamandolo Rhapsody in Blue. Tra il pubblico c’erano alcuni dei più grandi musicisti classici dell’epoca e quando ascoltarono quel brano rimasero elettrizzati. Molti critici invece lo snobbarono, incapaci di comprendere che quell’opera, basata su una radice popolare, catturava per la prima volta la vera voce della moderna cultura americana.
 

Questo è un grande problema che affligge anche la critica di oggi, o forse, generalizzando, può essere inteso come il dilemma della professione del critico: stabilire la soglia tra i generi, definire le categorie, i gradi, il valore, gli argini dentro al quale scorre il fiume. Compito contro cui l’artista a sua volta è destinato lietamente a cozzare, quando il fiume esonda, le rive perdono i loro confini, le acque si mescolano, dolce e salato si confondono producendo lagune o barene, anse, delta ed estuari: tutte voci diverse di un fluire, a volte limaccioso a volte torrentizio, in cerca del proprio mare.
 

Se Rhapsody in Blue è il pezzo più famoso di George Gershwin, pochi in Italia conoscono invece i suoi musical. Uno in particolare, Strike Up the Band, è a mio parere molto significativo.  La guerra per un pezzo di formaggio: questa in sintesi è la sua trama. Strike Up the Band fu il primo di una serie di spettacoli e riviste americane degli anni Trenta in grado di compiere un passo coraggioso: creare una satira sui problemi che affliggevano gli Stati Uniti, vale a dire la Depressione e la paura di un’altra guerra mondiale. Di solito per scrivere un musical bisogna essere in tre: un compositore, un librettista e un paroliere che scrive i testi delle canzoni. In questo caso, oltre che con il fratello, George Gershwin unì le sue forze con il drammaturgo George S. Kaufman, arrivando a creare una forma innovativa di teatro musicale in grado di  commentare coraggiosamente questioni del mondo politico ed economico. La guerra per un pezzo di formaggio, in che senso? La trama ruota attorno a Mr. Fletcher, un ricco imprenditore che produce formaggio, proprietario della “Fletcher American Cheese Company”. Mr. Fletcher, per salvaguardare la sua produzione a stelle e strisce, riesce a convincere il presidente degli Stati Uniti a mettere una tassa sulle importazioni di formaggio estero. La Svizzera però protesta col governo americano e innesca un braccio di ferro per tutelare il suo export. L’unico modo per Mr. Fletcher di salvare il suo profitto è riuscire a far crollare il mercato del formaggio svizzero, e per farlo gli viene suggerito che la cosa migliore sarebbe far scoppiare una guerra. Così avviene. L’azione si sposta sul campo elvetico dove si combatte una guerra sanguinosa, che però (e qui la satira si fa pungente) viene descritta con toni idilliaci mentre frotte di turisti americani arrivano sul campo di battaglia per ammirare i patrioti. Le spedizioni turistiche, beninteso, vengono organizzate sempre da Mr. Fletcher che lucra su questa attività ma concede al governo il 25 per cento dei suoi ricavi, purché la guerra continui. Sembra il suo motto: “Purché la guerra continui”… Ecco la condizione necessaria per far sì che il suo formaggio continui a vendere senza problemi, anche se qualcuno osserva che puzza. Perché dietro a ogni guerra c’è sempre un Mr. Fletcher che ci guadagna, le sue quotazioni in borsa schizzano alle stelle e il suo bilancio si ingrossa. La storia scritta da George S. Kaufman, con una trama che tesse schermaglie amorose e colpi di scena paradossali, si conclude con una mossa geniale; non appena i soldati americani fanno ritorno in patria giunge inaspettata la notizia che la Russia, a sua volta, ha deciso di mettere una tassa sulle importazioni di caviale: una nuova guerra sta per scoppiare. Scacco matto.
 

Il genere del musical ha nutrito, fin dagli esordi, il lavoro di sceneggiatori e troupe cinematografiche che hanno tradotto in pellicola quelle storie nate per il palcoscenico. Oggi la tendenza si è ribaltata e sempre più spesso vediamo compositori che scelgono di portare in teatro storie che vengono dal cinema: The hours di Kevin Puts, Dead man walking di Jake Heggie, Groundhog Day di Tim Minchin, oppure anche il popolarissimo The Lion King di Elton John… Del resto tutti i grandi classici Disney sono dei musical e hanno sempre una struttura simile alle opere liriche. Il primo che venne creato fu tratto dalla favola di Biancaneve e i sette nani dei fratelli Grimm, nel 1937, qualche anno prima della prematura morte di Gershwin. Chissà se lui l’aveva visto… Chissà se Gershwin conosceva Frank Churchill, il geniale compositore della colonna sonora di Biancaneve e di molti altri classici sfornati da Walt Disney. Certamente Frank Churchill non viene considerato granché dalla critica seria, ma la sua musica è arrivata dappertutto. Anche le opere di Gershwin vengono oggi eseguite più spesso di molti altri compositore “seri”, perché la loro forza è quella natura popolare di cui si alimentano. Con la musica swing,  i testi spiritosi e ben realizzati di Ira Gershwin e quelli di George S. Kaufman, Strike Up the Band è una satira pungente contro la guerra e, in un panorama dominato da un musical di puro intrattenimento, quella commedia musicale si pose degli scopi sociali. Quando lo spettacolo fu prodotto per la prima volta nel 1927, molti di quei temi  suonavano come degli assurdi, il militarismo e il nazionalismo estremista sembravano ancora di scarso interesse per un paese pieno di speranze e con un’economia sana. Di conseguenza, Strike Up the Band non fu un successo. Tuttavia, in seguito alla Depressione del 1929, l’umore del paese  cambiò e il lavoro avventuroso dei Gershwin fu accolto favorevolmente a Broadway nel 1930. Il libretto di Strike Up the Band fu il primo a essere scritto da un importante drammaturgo e la trama sviluppata da George S. Kaufman era infatti l’elemento organizzativo centrale dello spettacolo. Gershwin,  ispirandosi a Gilbert e Sullivan, creò con Strike Up the Band un fantasy comico che combina risate e cupe sfumature sociali, raccontando della collusione tra governo, esercito e industria.
 

Molto divertente a questo proposito è l’episodio che accade al povero Timothy Harper, caposquadra della “Fletcher American Cheese Company”, che suo malgrado viene scambiato  per una spia e accusato di collaborazionismo col nemico perché sorpreso con un orologio svizzero al polso.  Inoltre questa commedia parla dell’ondata di intolleranza che in seguito travolse gli Stati Uniti dopo la Prima guerra mondiale, quando in una scena alcuni personaggi indossano tuniche e cappucci che ricordano il Ku Klux Klan. Con le sue marcette, le canzoni comiche e i cori temperati con calore e arguzia, Strike Up the Band rappresenta una svolta decisiva nella storia del musical americano e trasmette un messaggio potente che continua ad avere enorme rilevanza anche un secolo dopo, in un’Europa con la guerra alle porte e qualche Mr. Fletcher che sta pilotando e manovrando campagne mediatiche, con lo scopo di creare nemici e conflitti in nome del proprio tornaconto.

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