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La voce della cultura

Il pendolo di Geolier. L'oscillazione del rapper fra gli intellettuali partenopei

Francesco Palmieri

Prima ignorato o accusato di fare scempio ortografico del napoletano, adesso incensato e invitato all’università. I fischi hanno portato a perdonare persino Gigi D’Alessio

Senza navigatore al Rione Gescal di Secondigliano non ci saprebbero andare, ma cosa importa. Mentre scriviamo, gli intellettuali napoletani stazionano in spirito sotto casa di Geolier, il rapper che “hanno visto arrivare” solo quando s’è presentato al Festival di Sanremo e aveva già collezionato 53 dischi di platino e 23 dischi d’oro oltre ai record di ascolto su Spotify. La prima sorpresa deflagrò con le polemiche quando fu pubblicato il testo del suo brano, I p’ me, tu p’ te, per lo scempio ortografico dell’idioma napoletano. La seconda sorpresa è stata l’inversione repentina di rotta degli stessi concittadini che lo avevano criticato dopo averne scoperto l’esistenza. Il contrordine è scattato in quella che passerà alla storia festivaliera come “la serata dei fischi”, quando la platea del Teatro Ariston ha contestato la vittoria del rapper sull’onda del televoto nel venerdì delle cover.

  
Un’improvvisa oscillazione del pendolo, una veemente reazione identitaria che ha compattato per la prima volta dalla Repubblica del 1799 – fatti salvi i tre scudetti calcistici – i borghesi e la “plebe”, o per dirla alla napoletana chiattilli e tamarri, radical chic e “secondini” (nomignolo per secondiglianesi, geôliers in francese, da cui Emanuele Palumbo per l’anagrafe ha tratto il suo nome da rapper). La “voce della cultura”, che dalla polifonia del passato s’è condensata nell’ultimo decennio nella monodia giallista di Maurizio De Giovanni, più versatile di un Victorinox, aveva così stroncato il testo di Geolier il primo febbraio scorso: “Il napoletano non merita questo strazio”. Il 12 però, con la vittoria sanremese della lucana Angelina Mango grazie al voto “tecnico”, la “voce della cultura” ha strigliato i giornalisti della sala stampa: “Sicuri di saper fare il vostro mestiere, sì?”, precisando di avere “sempre tifato” per Geolier e di avere solamente espresso qualche riserva lieve sulla trascrizione del brano. A ogni buon conto, De Giovanni s’è dimesso dalla presidenza impegnativa del Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano. Onere dei biografi, un domani, scavare nelle circostanze.

   

Maurizio De Giovanni il primo febbraio scorso: “Il napoletano non merita questo strazio”. Ma poi ha strigliato la sala stampa dopo la finale

   
Questo febbraio però, per nomea popolare un mese “curto e amaro”, non ha destabilizzato solo i vertici letterari. Geolier ha appena fatto in tempo a tornare che l’ingegner Gaetano Manfredi, già rettore poi presidente dei rettori della Crui, adesso sindaco (come in città molti sanno), ha organizzato una solenne cerimonia nelle sale onuste di storia del Maschio Angioino per insignire il rapper di targa e medaglia: “Giusto e naturale riconoscimento” a “una delle tante facce della nostra cultura”. Lo scudetto sanremese è sfumato, ma il televoto col 60 per cento ha massicciamente sancito che “è ‘o popolo c’’o vvò”. Il popolo avrebbe voluto Geolier trionfatore. Benedetti fischi del pubblico cafone, che hanno suscitato l’orgoglio identitario della Municipalità, stavolta prevalente sull’altra cifra vesuviana. Quella dell’ironia, che non indulge ai fischi ma annovera altre forme di dissenso: in primis lo sberleffo ossia il vetusto pernacchio, che nella versione implicita e silente si contrae nelle agrodolci smorfie lette spesso sulle concave gote di Eduardo. O di Massimo Troisi. A lui nel 1981, quando fu censurata la libertà d’espressione per un monologo sanremese sul post terremoto, non andò più di esibirsi e tornò a casa senza fuochi artificiali. Pure in tono minore fu festeggiato Massimo Ranieri, che a Sanremo vinse ma cantando in italiano e senza fischi, per cui il trigger identitario non scattò malgrado il pedigree favorevole, da figlio del Pallonetto di Santa Lucia con aliquota proletaria superiore a Geolier. Non verseggiava il disagio tentando invece, come parecchio popolo dell’epoca, un’ascesa che in quella società archeologica si sostanziava più nella conquista del “pezzo di carta” che in Rolex e Lamborghini. Non citiamo il mitragliatore d’oro e altri optional espunti dai testi di Geolier, perché al rap e alla trap si fa licenza di raccontare un certo mondo senza sospetto di esaltarlo. Honi soit qui mal y pense. Nessun ammiccamento. È cambiata la metrica, sono cambiati i tempi.
Non esistono più quei bei sindaci comunistoni alla Maurizio Valenzi, quei funzionari falce&martello e pane&cipolla che giravano per le strade senza navigatore come il libico naturalizzato partenopeo Rashid Kemali, che divenne il “papà” del Rione Sanità presso il Pci sezione Amendola. Come non esistono gli scugnizzi che nel ‘79 intervistò Joe Marrazzo né i “muschilli” che raccontava Siani (il cronista Giancarlo ucciso dalla camorra nell’85; adesso è il comico Alessandro a portare quel cognome). Oggi ci sono baby gang e baby boss e anche giovanissimi rapper di buon cuore come Emanuele Palumbo, che ha conquistato un sogno con la musica, ma su cui le teste d’uovo orfane del passato stanno caricando le più onerose aspettative. All’improvviso, da Sanremo in poi, mentre per via incrociavano i bambini che hanno festeggiato il Martedì grasso sfilando coi baffetti al carboncino e nel “costume” del rapper, approntato giusto in tempo per Carnevale. 

  

Non citiamo il mitragliatore d’oro e altri optional dai testi di Geolier, alla trap si fa licenza di raccontare un certo mondo senza sospetto di esaltarlo

 

Geolier, dopo gli omaggi del sindaco, è stato invitato a parlare all’Università Federico II, dove ci sono fra i coetanei forse anche “secondini” cui nel brano Money si comparava (“I’ teng ‘o disco d’oro, iss tene nu diploma ‘nfacc ‘o muro)”. Benedetta la vincente sconfitta sanremese, che ha aperto al ragazzo dopo gli smartphone milanesi (è nel capoluogo lombardo che raccoglie più stream) quelle porte della sua città finora chiuse al Palumbo Emanuele: saloni comunali, atenei e per lo Stadio Maradona tre date già fissate a fine giugno. E poi i tagli nobili sui giornali locali. Dalle pagine degli spettacoli è trascorso alla prima togliendo spazio finanche a De Giovanni, rara opportunità concessa un mese fa e per una jurnata sola (mortis causa) al drammaturgo Enzo Moscato, nato ai Quartieri Spagnoli e cantore di un idioma dal tessuto straordinario. Proletario con laurea. Altri tempi. Il rap è rap, nulla a che vedere con Sergio Bruni da Villaricca, melismatica “voce di Napoli” che quando fece i soldi intasò casa di libri perché da piccolo non aveva potuto studiare. Quei vecchi comunisti. Li ricorda bene ma conosce anche i ragazzi d’adesso un intellettuale dispari come Ugo Tassinari, giornalista e professore, posillipino di nascita non di pratica, diciotto anni di lavoro nella lucana terra dei Mango, quindi insegnante all’Istituto alberghiero Elena di Savoia nel centro antico napoletano. L’anno scorso commissionò un rap agli studenti del terzo, “sedicenni e diciassettenni con storie tragiche, un ragazzo viveva coi nonni perché la mamma era morta di overdose e il papà era carcerato. Ricordo”, ci racconta, “una composizione che comparava un Inferno rap di Dante alla vita di ogni giorno. Poi qualcuno presentò un compito che m’insospettì perché era fatto troppo bene. Verificai su Google. Aveva copiato da un pezzo di Geolier”.

  
La fama accresce le responsabilità. Adottato il Palumbo dalla cittadinanza istituzionale, obliata la bacchettata degiovannea, ora che lo conoscono gli dicono di continuare a scrivere come più gli piace. Mica deve rifare Di Giacomo, nemmeno gli Almamegretta. Il matematico Guido Trombetti, anch’egli già magnifico rettore, cultore del geniale scienziato Renato Caccioppoli come dei moduli del Napoli di Walter Mazzarri, ha firmato un editoriale assolutorio in cui sostiene che la sequenza di tre o quattro consonanti scritte riproduce con più fedeltà il parlato, ponendo la pietra tombale su secolari diatribe e aprendo la fossa al dubbio di chi ne segua il consiglio: difficile capire, senza vocali conclusive, se ad esempio “jurnat” indichi una giornata sola o più; se un Trombett sia plurale come lui o singolare, Trombetta, come l’onorevole sul treno di Totò. Ad ogni modo, il professore ha concluso: “Geolier, futttenn!”, parafrasando nella sua anarcografia la rinomata esortazione citata da Luciano De Crescenzo e originariamente indirizzata a san Gennaro. Si parva licet.

  
E’ stato scomodato per responso ultimativo anche il vate della linguistica Nicola De Blasi, accademico fertile autore di saggi, che ha promosso Geolier grazie a un ardito paragone con Picasso sulla licenza artistica, malgrado un suo omonimo nel libro La lingua gentile detti regole precise e contrarie: “la -i  e la -e, divenute indistinte, sono da scrivere con -e” (p. 162 prima ristampa, 2023). A novembre scorso invece non ci fu perdono per i manifesti con cui la Mondadori annunciava l’apertura della più grande libreria italiana in Galleria Umberto I. Fu bufera per il meneghino affronto alla lingua della Sirena sfigurata dall’ortografia (si scoprì poi che erano campani gli esecutori materiali del delitto). Come bufera è stata per i votanti giornalisti nella Città dei fiori. 

  
Grazie a loro è tuttavia tornata la pace sulle contrapposizioni cittadine. Come ‘na jurnata (una sola) ‘e sole. Perché simmo ‘e Napule paisà. Perciò si tacciono i critici attempati di Geolier, alias “i boomer che se la prendono con un ragazzo di 23 anni”. Ora bersaglieranno solo ventitreenni per cui è ammessa licenza di giudizio: la perla georgiana del Napoli, Kvaratskhelia quando gioca male, o perlomeno Lindstrom. Si tacciono i rosiconi, quelli che “con tutti i dischi di platino che lui ha venduto lo criticate”. Ora potranno finalmente dire che La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca, facendo outing di antichi peccati vanziniani poiché legittimati dagli incassi. Calano pure, per l’adesione all’unanimità identitaria, gli indici puntati sui borghesi imbelli e ignari delle (trascurate) periferie. E scurdammoce ‘o passato se il più bel romanzo napoletano degli ultimi settant’anni resta probabilmente Ferito a morte del posillipino Raffaele La Capria; se un Oscar è stato assegnato al vomerese Paolo Sorrentino; se Rosi, Napolitano, Patroni Griffi e Ghirelli si diplomarono all’Umberto, liceo classico chiattillo, ma con l’attenuante del successivo tasso d’interesse per le (trascurate) periferie.

  

Il matematico Trombetti ha firmato un editoriale assolutorio: la sequenza di tre o quattro consonanti scritte riproduce con più fedeltà il parlato

  
Tacciono infine – è il fenomeno più portentoso – gli sprezzatori di Gigi D’Alessio, nei giorni ordinari bersaglio abituale di qualunque aspirante a una civile apericena. Accomunato dai fischi sanremesi a Geolier, grazie al temporaneo martirio gli intellettuali hanno inghiottito persino lui come un vol-au-vent sul Campari. Se non fossero, più che defunti, estinti, chissà come la prenderebbero quell’acre buontempone di Luigi Compagnone o Mimì Rea e il suo omonimo fumantino Ermanno. E tornando fra i musici, chissà cosa direbbe Aurelio Fierro, ugola d’oro dal faccione gioviale che piaceva alle zie ma pure autore di una minuziosa Grammatica della lingua napoletana. “Non vorrei essere chiamato saccentone”, scriveva, ma “non bisogna ridurre l’ortografia e la fonetica a pochi e schematici esempi o regole dialettali”. E giù quasi 300 pagine, appendice metrica inclusa, che pubblicò Rusconi.

  
Sappiamo semmai cosa hanno detto e come l’hanno presa i genitori di Giovanbattista Cutolo, Giogiò, il musicista ventiquattrenne per sempre, ucciso il 31 agosto scorso da un sedicenne di quelli che a Napoli ti chiedono “che guard’’a ffà?”. Già scugnizzi ai tempi di Ferdinando Russo o dei succitati Ranieri e Marrazzo, sono ai tempi di Geolier anche guaglioni con pistola, iconizzati nei murales e sugli altari di vicolo quando la violenza lascia per terra loro. Come Ugo Russo, ucciso da un carabiniere cui cercava di rapinare l’orologio. O Emanuele Sibillo, capo della “paranza dei bambini” freddato dai rivali.

  

I genitori di Giogiò non hanno apprezzato l’incensazione tempestiva di Geolier, che tra i fan conta suo malgrado anche l’assassino del ragazzo

  
Per Giogiò, cornista che s’esibiva già in orchestre prestigiose, Sanremo ha applaudito e la platea s’è commossa quando la mamma lo ha celebrato nella serata inaugurale del Festival. Né lei né il padre hanno apprezzato l’incensazione tempestiva di Geolier, che tra i fan conta suo malgrado anche l’assassino di Giogiò e chi non ha capito che lui, col mitra d’oro, non esalta certi stili ma li racconta e basta, o che quando incitò la fidanzata a festeggiare l’anno nuovo sparando si trattava solo, lo chiarì, di una innocua scacciacani. Honi soit qui mal y pense. Il sindaco ha risposto che il comune apporrà una targa per Cutolo sul luogo del delitto in piazza Municipio. “Il ricordo di Giogiò”, ha spiegato Manfredi, “continuerà ad essere forte a Napoli, ma in parallelo dobbiamo parlare con i tanti mondi della città portando messaggi positivi, perché solo attraverso un lavoro inclusivo riusciremo a veicolare i messaggi di legalità, di rispetto delle regole ai tanti ragazzi che oggi vivono spesso modelli negativi”.

  
Nell’orchestra napoletana a questo punto il corno di Giovanbattista “tacet”. Come negli spartiti quando s’indica a certi strumenti di restare zitti durante un movimento.