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I fischi dell'Ariston a Geolier hanno riacceso il sentimento identitario di Napoli

Francesco Palmieri

La città coltiva la cultura dello sberleffo, non quella del fischio. E in tutta la polemica razzismo e discriminazione territoriale non contano nulla

Si dibatteva di Questione meridionale quando ancora i Ricchi e Poveri si presentavano in formazione completa. Ora che attorno al palco di Sanremo s’è scatenato – c’era pure Russell Crowe – alquanto inferno per il rapper napoletano Geolier, sarebbe meglio aggiornarla in Questione partenopea. Addio Nord vs Sud: il Festival l’ha vinto la lucana Angelina Mango, più terrona di Geolier, e forse parecchi ascoltatori salernitani avranno goduto per questo più di quelli lombardi, dove statistiche alla mano il ragazzo di Secondigliano è in testa agli streaming. Questione partenopea, se è vero che Geolier divideva il pubblico napoletano per gusti e rappresentazione fino al successo nella serata delle cover, quando reagendo ai fischi della platea la maggioranza dei concittadini – da Capo Posillipo a Scampia – ha eretto quadrato attorno a Emanuele Palumbo con la foga del pubblico calcistico: ForzaNapoliSempre.

È scattato il sentimento identitario: Napoli contro il resto d’Italia. Persino chi detesta Gigi D’Alessio, ai fischi dell’Ariston che lo accomunavano a Geolier, lo ha digerito. Chi aveva acerbamente criticato l’ortografia del testo napoletano di Geolier ha invertito a ‘U’ articoli e post e s’è aggregato al coro: indici puntati sulla giuria, sospetti di complotto, sentori di razzismo. Ci vuol poco a riappacificare i napoletani, a spingere la folla ad accogliere Geolier coi fuochi d’artificio come se fosse reduce da Torino dopo una vittoria sulla Juventus. Ci vuol poco a spingere l’algido ingegnere sindaco Gaetano Manfredi a insignire di targa e medaglia Geolier con festa al Maschio Angioino. Solertissima festa di tutti ’sti signure ‘ncravattate (st signr ncrovttt scriverebbe Geolier). Per consegnare l’onorificenza il lunedì mattina il laboratorio di incisione avrà lavorato di domenica. Sorrentino dopo l’Oscar ha atteso di più.

Ci vuol poco: per suscitare la repentina reazione identitaria bastano i fischi, cui Palumbo Emanuele ha risposto con esemplare educazione. Se c’è tra chi legge un antropologo, accetti un modesto suggerimento: noi coltiviamo la cultura dello sberleffo, non quella del fischio. Se dalla platea dell’Ariston qualcuno avesse elevato un pernacchio all’indirizzo di Geolier sarebbe stato accettato (e probabilmente si sarebbe trattato di un napoletano). Ma i fischi no. Fanno arrabbiare. Permalosità fino a un certo punto: nessuno ha dissipato il dubbio che quelli da cui fu sommerso Maradona ai Mondiali del ’90 fossero rivolti a Napoli (che è quasi la stessa cosa del Napoli). Il fatto si tramanda cementando le generazioni, da Peppino di Capri a Geolier. Per gli stadi pazienza, i cori non fanno più effetto, ma Sanremo è sempre Sanremo. Razzismo no, per carità, chi ci crede. Nessuno se n’è accorto ma The Kolors sono napoletani, e il volto più amato del Festival, quest’anno in un cameo coi Jalisse, il maestro Vessicchio, è orgogliosamente partenopeo della periferia ovest.

L’identità è la lingua (o dialetto, se fa più piacere): retorica vuol fare vangelo della parlata periferica di Geolier; altra retorica vuol evangelizzarla per elevarla agli standard di Di Giacomo. Tralasciando entrambe, e le deroghe al regolamento concesse da Amadeus, l’idioma napoletano si presta come l’inglese alla metrica di ogni forma canzone. Non lo scopre Geolier. Torna a Surriento, per fare un esempio, si canta nel mondo dal 1905; e un medio ascoltatore rammenterà molte canzoni napoletane ma di quelle milanesi solo O mia bela Madunina (che espresse peraltro frustrazione per questo: “canten tucc ‘lontan de Napoli se moeur’ ma po’ i vegnen chi a Milan”). E nel 2023 Angelina Mango ha lanciato un brano intitolato Che t’o dico a fa’.

Smaltiti gli echi dei fischi e gli evviva degli onori municipali a Geolier, resta che al centro della musica – con la mamma alla prima serata di Sanremo – si può anche mettere senza necessaria contrapposizione quella suonata da Giovanbattista Cutolo, Giogiò, l’orchestrale ucciso da uno che sarebbe stato, ai tempi di Torna a Surriento o di Massimo Ranieri, uno scugnizzo, ma ora è un balordo di quelli che sognano Rolex e griffe. Però nei giorni di festa, chi non applaude la guasta.

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