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Il corno e la pistola. La morte di Giogiò Cutolo, ucciso da un paranzino

Francesco Palmieri

“Ogni giorno ho temuto quella telefonata”, dice il padre Franco Cutolo. Lo scuorno di Napoli, il cordoglio in musica in un piazza piena e commossa. Ora che non c'è più, l'immagine di Giovanbattista è dappertutto

Non è vero ma ci credo. Per i napoletani il corno è un amuleto di bonaria tradizione, però da alcuni giorni – non fosse mai successo – la prima cosa che questa parola risveglia nella mente è lo strumento musicale. Tesse in orchestra le armonie e da solista affascina con la sua voce, come certe persone che poco si notavano ma se hai ascoltato vorresti risentire. Peccato che talvolta non si possa più. Questa, per Giovanbattista Cutolo detto Giogiò, non è solo metafora. A quello strumento peculiare, molto meno popolare della chitarra o del sassofono, aveva dedicato gran parte dei ventiquattro anni concessigli dal destino, se destino chiamiamo l’estro del balordo che lo ha ucciso con tre colpi di pistola. Per frustrazione, vanità, demenza criminale. Per punirlo, poiché aveva tentato di fermare il gruppetto di provocatori che avevano aggredito i suoi amici in una paninoteca. Ma a dirla in breve, manca a questo assassinio un degno o indegno perché.

E’ vero ma non ci credo. L’omicidio si consuma verso l’alba, quando il tempo corre come gli ultimi spezzoni di sonno, che accelerano gli incubi per chiuderli prima del sole. Mentre il musicista muore, i balordi scappano da piazza Municipio – vetrina di Napoli – e intanto spunta il mattino del 31 agosto con l’attenzione concentrata sulla premier che visita Caivano, teatro di recenti nefandezze. Retrobottega di Napoli. Mentre Giorgia Meloni va a dire che “lo stato c’è”, il destino – ma non dovremmo chiamarlo così – dichiara con tre spari a chi gli annuncia la caccia che non occorre spingersi nelle periferie. Sangue scorre anche in centro. Nella vetrina della città.

Lo scorno, anzi lo “scuorno”, fu il sostantivo ampiamente utilizzato durante la famigerata crisi dei rifiuti nel 2008, quando Napoli fermentava semisommersa dai cumuli dell’immondizia. Lo “scuorno”, la vergogna, è la salvifica ossessione che educa da piccoli nelle famiglie decorose a tutelare le apparenze: di una casa, di una camicia, di un verbo espresso o taciuto, di una prova sportiva o professionale. Per l’omicidio di Giovanbattista, prima ancora che l’arcivescovo Mimmo Battaglia pronunciasse l’omelia ai suoi funerali nella chiesa del Gesù Nuovo, gremita di commossi come la piazza antistante, i napoletani hanno provato “scuorno”. Anche chi, sentendo proclamare dal prelato che “siamo tutti colpevoli”, non ha capito perché. Casi simili a quello di Giogiò ne sono successi, il più recente a marzo quando il diciottenne Francesco Pio Maimone restò ucciso perché sfortuna lo colse agli chalet di Mergellina, dove lo spritz versato su una scarpa suscitò una lite chiusa a colpi di pistola tra due gruppi di giovanissimi balordi, come appena diciassettenne è l’assassino di Giogiò.

Guaglioni, picciotti, muschilli, moccosi secondo i nomignoli assunti nel corso del tempo, di cui paranzini è il più attuale. La delinquenza designò “paranze” già nell’Ottocento le bande che insidiavano i beni di visitatori e di cafoni discesi in città. Oggi paranza sta per baby gang, ma per chi ne fa parte s’attenua quasi a sinonimo di “comitiva”. Senza “scuorno”, al contrario con vanto, i paranzini aspirano a una illecita ricchezza “non per integrarsi, per avere rispettabilità sociale, ma per fare una vita di lusso senza spostarsi dallo squallore in cui sono nati e cresciuti”, osserva lo studioso di camorra Isaia Sales nel saggio Teneri assassini. Lo scugnizzo di una volta, a differenza dei paranzini di adesso, s’arrangiava con furti o elemosine senza versare sangue: “Bisognava suscitare comprensione, simpatia e tenerezza per ottenere qualcosa e la violenza non era adatta a questo”.

Facendo volteggiare lo strummolo, la trottola di legno sul selciato, le sfide tra scugnizzi potevano finire a botte o a sassate ma né coltelli né pistole e per modello i paladini di Francia, scimmiottando le gesta di Rinaldo ammirate ai teatrini delle “guaratelle”. Adesso si riversa su TikTok lo sfoggio dell’impresa e c’è un pubblico taciuto ma influente che incoraggia i paranzini: piccole amanti che ostentano abbigliamento griffato, Ferragni isquallidite, “espressione vistosa della voglia di successo economico”, scrive Sales. Il ritorno da una “stesa”, sparando dallo scooter per agghiacciare un quartiere, è l’eroica misura dei Rinaldo reincarnati che i minuscoli clan di una camorra fluida sono pronti a ricevere senza ulteriore apprendistato.

“Non li vedi di giorno. Escono come i topi nel cuore della notte. E’ scritto già nel teatro di Della Porta e nel Candelaio di Giordano Bruno: i delitti, gli stupri, i rapimenti si consumano nel buio. Ho litigato per anni con Giogiò esortandolo a rincasare presto. Era la mia costante angoscia. Quando quel mattino ho ricevuto la telefonata più tremenda della mia vita mi sono semplicemente detto: ‘E’ arrivata la telefonata che temevo tutti i giorni’”. Così ci dice Franco Cutolo, il padre di Giovanbattista, scenografo e regista teatrale. Non è un borghese lindo e pinto ma un artista che conosce anche gli ambienti marginali da cui può suggersi linfa o veleno. Eppure, aggiunge, “adesso voglio recidere, andrò a vivere altrove perché la mentalità criminale di cui è rimasto vittima mio figlio è talmente infiltrata in città che non la domineremo mai”.

Giovanbattista o Giambattista è un nome che a Napoli sfoggia antico spessore testimoniato da Basile, Della Porta, Vico, Pergolesi. Cutolo spiega: “Giovanni si chiamava mio padre e io, da quando ero ragazzo, desideravo un figlio per dargli questo nome, che per me ha significato anche un omaggio al barocco. Il 4 agosto del ’99 finalmente nacque”. Solido nome su un cognome condiviso da angeli e demoni come tanti altri: l’anagrafe assegnò Cutolo a un celebre boss ma anche all’erudito Alessandro, volto noto della tv negli anni Sessanta, e a un autore di canzoni famoso nel Dopoguerra per la hit Dove sta Zazà?

Quello di Giovanbattista non è sangue che seccherà quando l’ultima spira d’incenso sarà dissolta in cielo. Per secoli i napoletani al santo suo, di Della Porta e di Basile hanno dedicato riti magici nella notte del 24 giugno. Per secoli hanno venerato un prodigio dalla documentata e diramata diffusione tra chiese, monasteri e oratori privati dove il presunto sangue attribuito al Battista si scioglieva, come quello del patrono Gennaro, il 24 giugno e il 29 agosto “con meraviglia e stupore dei riguardanti”, sottolineò uno storico secentesco. Chi accoglie più il potere delle emozioni che l’algido scrutinio dei fenomeni è consapevole della straordinaria carica collettiva scaturita dalla morte di Giovanbattista. La Nuova Orchestra Scarlatti, il Conservatorio di San Pietro a Majella, il San Carlo, l’Università; gli sconosciuti, i conoscenti, gli amici; i governanti locali e nazionali; rassegne di concerti, dediche, intitolazioni, omaggi che si moltiplicano e non si contano già più. A memoria non era mai successo, o non così rapidamente. E per ricordarsi un funerale che abbia riempita tutta una piazza bisogna forse risalire a quello di Totò.

“Perché è la musica”, dice il papà. “Perché colpire un musicista è colpire la bellezza dell’arte più bella. Una volta curai per Roberto De Simone le scene dell’opera ‘Dedicato a Maria’, dove rappresentammo un gruppo di personaggi larvali dai laceri panni che languivano sotto una pedana, finché si umanizzavano e riuscivano a salirvi. Il maestro volle che in quell’ascesa ciascuno di loro impugnasse un violino e mi mandò a comprarne alcuni. Gliene chiesi la ragione e rispose: ‘Perché il violino è il segno della civiltà’”.

Per portare ragazzi dalla strada alla pedana riaprirà a giorni il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, grazie alla Fondazione Fare Chiesa e al Rotary che nella primavera scorsa hanno attrezzato i locali e comprato un centinaio di strumenti. Giovanbattista Cutolo sarebbe stato tra i docenti volontari coordinati da Agostino Noviello, professore emerito di clarinetto a San Pietro a Majella: “Giogiò”, ricorda, “era un talento musicale e quando lo chiamavo per collaborare a un concerto non diceva mai no. Sapeva stare in orchestra da professionista consumato. Oggi chi ha distrutto lui ha sfregiato tutti noi”. Nel Settecento, in quel Conservatorio dove studiò anche un altro Giovanbattista, il Pergolesi, chiamavano “paranzini” i giovani mandati in giro per suonare nelle celebrazioni sacre e nelle feste, prima che la parola se la rubasse la camorra. Se la storia di Napoli non procedesse in linea retta ma a spirale, si capirebbe perché il declino di quel Conservatorio fu segnato dall’assassinio di un musicista. In quel caso ad ammazzare fu un colpo sparato dalle guardie della curia per reprimere una rivolta degli alunni che lamentavano la scarsità del vitto.

Ai funerali di Giogiò il suo maestro, Angelo Agostini, ha eseguito il largo dal concerto di Vivaldi per due corni in fa maggiore ed è stata la più ardua prova di tutta la sua vita. Se ti viene da piangere è difficile suonare. “Il corno”, spiega Agostini, “è uno strumento molto complesso perché la corretta emissione si ottiene con un rigoroso controllo della pressione dell’aria e con la giusta apertura delle labbra. E poi il cornista deve padroneggiare tutto il setticlavio, perché è costretto a passare da una chiave all’altra anche in uno stesso pezzo. A Giovanbattista bastava leggere un brano un paio di volte per ripeterlo a mente, grazie a due doti: la memoria visiva e l’orecchio assoluto”. Suonava nella Nuova Scarlatti e lo chiamavano dall’orchestra sinfonica di Sanremo. Quello strumento che scelgono in pochi gli restituiva precoci soddisfazioni: “Pensava che il corno offrisse più opportunità professionali del pianoforte, anche se a quattordici anni eseguì al piano la Suite inglese di Bach in modo straordinario”, aggiunge il padre. Quest’anno avrebbe dovuto sostenere l’esame finale, dice Agostini, “ma una carriera brillante era già cominciata”.

C’è strumento e strumento, difficile o facile. C’è il corno e la pistola calibro 6,35, quella che ha ucciso Giovanbattista Cutolo e rendeva spavaldo il piccolo assassino. Quanto tempo avrà impiegato per apprenderne l’uso? Vincenzo Pezzolet, generale di brigata dei carabinieri in pensione, è un tiratore esperto che ha cominciato a esercitarsi nel 1974. Riassume così: “La 6,35 è una pistola da borsetta, occultabile nella tasca dei jeans o in un calzino. Costano pochissimo sia l’arma sia i proiettili, persino sul mercato clandestino. Per poterla maneggiare bastano pochi minuti, proprio al massimo mezza giornata: qualcuno che insegni come smontare e rimontare la pistola e poi una cinquantina di colpi sparati per prova. Per un balordo sono già tanti: a lui non interessa il tiro dinamico né le tecniche del conflitto a fuoco. Se userà l’arma sarà a pochi metri dal bersaglio grosso e non potrà mancarlo, mica gli importa di colpire, oltre alla vittima, qualche passante. Nessuna abilità, c’è solo un ‘pigli, spari e ammazzi’”.

Li schifavano, i camorristi antichi adusi alla “zumpata” col coltello, quelli delle nuove leve forti con la pistola: “Avevano a disdegno il giudizio di Dio deciso dall’arma da fuoco, come i vecchi marinari avevano a disdegno la trazione nautica a vapore, che a quei tempi insidiava il classico ardimentoso e complicato regno della vela. Dove la mente non si aguzza e la mano non pone in gioco la virtuosità dei suoi movimenti, e interviene il meccanismo regolato automaticamente, là non si offre campo di esplicare il verace valore; come i vecchi lupi di mare pel vapore, i vecchi camorristi si esprimono con dispregio parlando della rivoltella, ’a ricuttella, molle come l’omonima incanestrata nelle fiscelle di Castellammare, gingillo da bimbi, che i moderni giovanotti pongono in azione chiudendo gli occhi e voltando il capo indietro mentre il braccio, tremante per l’emozione, scarica i colpi”. Così si legge nel volume La Camorra firmato da Ferdinando Russo ed Ernesto Serao. Nientemeno che nel 1907: “Il vero coraggio non si appalesa tempestando l’aria di proiettili, che assai spesso sbagliano, colpiscono l’innocente, l’ignaro passante o la donna o il bambino che si sporga a una finestra…”. E pure si osserva che soltanto nei primi anni di infanzia, tra la scuola e la famiglia, ci si convince che “il vertice delle aspirazioni” “non deve consistere nel viver bene senza far nulla e il sommo orgoglio della vita non deve consistere nell’imporre altrui col coltello o con la pistola la propria volontà”.

Sono pochi ma fanno rumore, quelli che sparano di notte.

(Franco Cutolo riferisce, salutandoci, un dettaglio che forse meritava di stare più su o forse fuori parentesi: le sole immagini di Giovanbattista sono quelle catturate mentre suona in orchestra perché non amava mettersi in mostra. Niente selfie, niente social. Ma adesso, non fosse mai successo, è dappertutto).

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