Corteo a Napoli per Giovanbattista Cutolo (Ansa)

Facce dispari

L'esperto di camorra Isaia Sales: “La paura delle pene non smonta il mito della pistola”

Francesco Palmieri

"Le sanzioni rappresentano una deterrenza inefficace per i ragazzi, che pensano di essere invincibili e immortali. Né bastano i blitz scenografici una tantum, come a Caivano. Le azioni di polizia servono quando sono quotidiane e mirate", spiega il docente all’Università Suor Orsola Benincasa che nel 2021 ha dedicato al mondo delle baby gang a Napoli il saggio ‘Teneri assassini’

Settembre, nel primo pomeriggio di mercoledì scorso, sfoggiava a Napoli quello splendore riservato e terso che agosto e ottobre non possono permettersi. Sotto questo cielo migliaia di persone, nessuna – lo giuriamo – a ciglio asciutto, hanno salutato in piazza del Gesù Giovanbattista Cutolo, il giovane musicista ucciso da un balordo minorenne a colpi di pistola. L’analisi, che segue all’emozione, grazia chi scrive dal corpo a corpo fra la cronaca copiosamente raccontata e un dolore di cui la parte più sottile permane forse inenarrabile. Isaia Sales, docente all’Università Suor Orsola Benincasa, un lungo trascorso in politica, è tra i maggiori esperti di camorra e nel 2021 ha dedicato al mondo delle baby gang a Napoli il saggio ‘Teneri assassini’.

 

Nel libro affermava che Napoli è “la capitale della questione minorile”. Picciotti, scugnizzi, muschilli, paranzini: tanti nomi nel corso del tempo per i ragazzi che si muovono “nell’incerto confine tra innocenza e violenza”, “tra
arte di arrangiarsi e quella di sopraffare”.

Quella minorile qui è violenza di classe, a differenza di altre realtà d’Italia dove esiste anche una violenza da noia o delle baby gang straniere. A Napoli c’è una parte di città che quando incontra l’altra parte cerca di sovrastarla, un sottoproletariato che non aspira più alla promozione sociale attraverso il lavoro. Un tempo chi svolgeva attività illegali di sopravvivenza sognava per i figli un destino diverso e vedeva nella scuola lo strumento dell’emancipazione. Oggi invece i mestieri illegali offrono un reddito superiore a molti lavori leciti, sicché i ceti colti e benestanti non sono più un modello da imitare. Il sottoproletario non vuol assomigliare al professore del quinto piano, non prova più invidia per lui ma disprezzo. Oggi il vero figlio di papà è il figlio del boss.

 

L’arricchimento non porta all’integrazione?
Conduce, al contrario, all’autoemarginazione. Chi delinque vuol fare i soldi per beneficiare di consumi e stili di vita più ambiziosi ma continuando a frequentare il proprio ambiente, un mondo nettamente separato dove la violenza è l’unico modo per misurarsi e conseguire un’affermazione.


Con la pistola.
Nella realtà di questi ragazzi ci si sente qualcuno se si fa paura agli altri: la stima si consegue così, e poiché non basta la prestanza fisica occorre il supporto di un’arma. Chi entra nel circuito della giustizia minorile presenta alcune condizioni tipiche: viene da una famiglia numerosa, malavitosa o che vive di mestieri precari, non studia e quindi ha molto tempo da trascorrere per strada. In passato poteva essere una esperienza formativa, oggi è solo una forma di acculturazione illegale. I minori che delinquono fuggono dall’infanzia, età reputata inutile perché non produce reddito. Vogliono diventare subito qualcuno e la scuola non serve a questo scopo.
 

Com’è possibile assurgere a boss da adolescenti, come accadde per Emanuele Sibillo a Forcella?
Perché la camorra è fluida, non richiede il lungo apprendistato e le regole della mafia e non ha barriere d’accesso. Un ragazzo sa che una sola bravata violenta può aprirgli le porte del clan. Si aggiunga, per inciso, il ruolo di sostegno delle giovanissime, perché l’immaginario femminile è ancora più permeabile alla contemporaneità: le ragazze ammirano questa sorta di cavalieri medievali e disprezzano chi è incapace di violenza.

Funzioneranno le misure del governo sulla criminalità minorile?
La destra è abituata a investire sulla paura, non sulla soluzione dei motivi della paura. Le pene rappresentano una deterrenza inefficace soprattutto per i ragazzi, che pensano di essere invincibili e immortali. Né bastano i blitz scenografici una tantum, come a Caivano e ai Quartieri Spagnoli. Le azioni di polizia servono quando sono quotidiane e mirate, come è stato per Scampia. Allora sì che possono rendere molto difficile l’acquisto delle armi o bloccare una piazza di spaccio.

Oltre alla repressione?
Bisogna stringere un patto con le mamme per ricreare nelle famiglie le aspettative che avevano sui figli negli anni Cinquanta e Sessanta, rendendo conveniente l’istruzione dei minori anche con un “imponibile di cultura”, ossia l’erogazione di una somma agganciata alla frequentazione della scuola. Invece è stato fatto un intervento inopportuno sul reddito di cittadinanza, che in molti casi alleggeriva le tensioni familiari impedendo alla disperazione di diventare ostaggio del crimine.

Lei ha citato la legge Thatcher sugli stadi come paradigma per l’intervento nei quartieri difficili.
Anche i quartieri possono essere ristrutturati. Bisogna ridisegnarne le basi sociali per eliminare l’”effetto periferia”. Molto ha ottenuto don Antonio Loffredo al Rione Sanità, ugualmente si potrebbe a Forcella con l’apertura di spazi culturali e la collocazione della popolazione universitaria, ma soprattutto recuperando una caratteristica storica di Napoli: la convivenza gomito a gomito tra ceti diversi, perché l’omogeneità è un potente fattore criminogeno.

Forse le statistiche ci smentiranno, ma leggendo i giornali c’è una maggior violenza percepita, da Nord a Sud. Quanti femminicidi.
Ho l’impressione che la violenza di dominanza, quella che si richiama al possesso, sia quasi in una fase di liberalizzazione: ce n’è più in casa che per strada. Più che dalle pene, la violenza è inibita dalla famiglia, dalla collettività, dal contesto. Sembra purtroppo che questi meccanismi sociali non stiano funzionando tanto bene.

 

 

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