Una delle opere di Flavio Lucchini che saranno esposte alla Triennale dal 27 ottobre a metà novembre, per una retrospettiva presentata da Stefano Boeri

Tutta un'altra moda

Fabiana Giacomotti

Ha inventato l’editoria di settore così com’è oggi. Vita e opere di Flavio Lucchini, che festeggia i novant’anni con una mostra, un libro e un film

Diceva George Orwell che a cinquant’anni ogni uomo ha la faccia che si merita, dunque immaginiamo che quella sfoggiata da Flavio Lucchini a novanta sia già di per sé un premio. La sua prodigiosa visione del sistema della moda è invece un regalo per gli altri. L’artista che ha inventato l’editoria di moda come la conosciamo oggi e al quale forse avrebbe dovuto rivolgersi Milena Gabanelli quando tentò invano di indagarne i meccanismi in una celebre e molto confusa puntata di “Report”, ci siede di fronte in nero Yamamoto, il codino grigio che i modaioli definirebbero “iconico” ben ravviato, in un grande attico affacciato sul parco Sempione fra multipli di Picasso, opere di Warhol e sculture sue che, avendo esposto anche alla Biennale di Venezia, può figurarvi in mezzo con dignità e, bisogna dire, con un evidente amore per il cubismo. Questo strepitoso punto di osservazione sulla Milano di Beppe Sala è una delle tante conquiste fatte dal “professore”, come lo chiamava Helmut Newton evocando i suoi inizi di maestro di disegno, con Gisella Borioli, sua moglie da quarantadue anni, fidanzata da cinquanta, compagna di lavoro da sempre: la donna per cui rinunciò a tornare a Vogue da plenipotenziario verso la fine degli anni Ottanta. Si erano messe di mezzo le direttrici che l’avevano sostituita alla direzione delle testate del gruppo, in primis Franca Sozzani che ne era stata l’assistente per dieci anni. Mossa professionalmente comprensibile, a cui lui rispose con un gesto di amore assoluto per Gisella: o ci prendete in coppia o non se ne fa niente. Arrivavano entrambi dagli scossoni della Rizzoli post affaire P2, avrebbero presto fatto altro. Lucchini aveva intuito già allora che il vento, per l’editoria di moda, stava iniziando a cambiare direzione verso mezzi e modalità nuovi, di massa.

  

Evocando i suoi inizi di maestro di disegno, Helmut Newton lo chiamava “professore”. La moglie, compagna di lavoro da sempre 

“Quando trovarono Roberto Calvi sotto il ponte dei Blackfriars, nel 1982, capimmo che per fare cassa la Rizzoli ci avrebbe ceduti subito, ma io detenevo solo il dieci per cento della società che avevo fondato con loro e non avevo liquidità sufficiente per rilevarla. Elio Fiorucci ci presentò a Silvio Berlusconi, che aveva appena comprato Tv Sorrisi e Canzoni. Ci ricevette qui a due passi, a casa sua in via Rovani. Fu molto gentile, ma ci disse senza mezzi termini che con l’editoria di moda, anche realizzata dal fondatore di Vogue in Italia qual ero io e lì mi scoccò uno dei suoi sorrisi, non si guadagnava abbastanza. Per dimostrarlo ci fece vedere i fatturati della sua concessionaria televisiva. Non c’era partita. Quando, poco dopo, gli stilisti iniziarono a stringere accordi di licenza per profumi, occhiali, arredi, capii che il sistema stava cambiando per sempre: alle principesse si sarebbe sostituito lo star system e la gente della strada. C’era bisogno di grandi numeri, di grande esposizione per sostenere quegli obiettivi di vendita. Quel che accade adesso con l’e-commerce e i social media ne è l’ultima prova. Editare è diventato difficile, soprattutto i femminili: la moda si segue e si compra sul web, e gli influencer si sono sostituiti ai veri giornalisti. Solo la fotografia vive una nuova stagione. E la moda stessa, naturalmente: è sempre entusiasmante. Si racconta, però, in modalità e con mezzi diversi”.

   

Pablo Picasso si domandava “chi vedesse correttamente la figura umana”, se “il fotografo, lo specchio, il pittore”. Flavio Lucchini ha sempre cercato di interpretare due di queste figure, escludendo lo specchio che gli avrebbe levato il gusto della rielaborazione, in chiave innanzitutto sociologica, della realtà che lo circonda e della moda come espressione visibile e tangibile dell’evoluzione umana. Dopo qualche anno di relativo silenzio, ha deciso di mettere qualche puntino sulle i della sua e dell’altrui esperienza nel campo altamente autocelebrativo della moda. Per un gigante della grafica e dell’arte qual è, questa precisazione non poteva che assumere le dimensioni di uno dei totem della sua Dress Art, esplorazione scultorea sul significato dell’abito e il suo rapporto con il corpo che lo occupa ormai da un ventennio e che ha contribuito a trasformare la percezione sociale e artistica della moda. Insomma, sta per celebrarsi in modalità gigantesche e multiformi. Dal 27 ottobre a metà novembre, la Triennale gli dedicherà una retrospettiva di opere presentate da Stefano Boeri e opportunamente esposte in giardino per essere visibili dai passanti, che per un ex direttore ed editore di riviste è dettaglio forse ancora più importante di quanto lo sia per un artista. C’è anche un film-documentario, “La moda in altro modo”, che è invece un regalo di Gisella con il contributo di due fra i più importanti fotografi lanciati da Flavio, Oliviero Toscani e Giovanni Gastel.

  

Vogue Italia è solo una delle riviste che nascono con lui. Nell’83 fonda il Superstudio 13, avvio della gentrificazione del quartiere Solari 

Con la casa editrice della sua galleria, lui stesso si è offerto invece un’autobiografia in novanta brevi capitoli nella quale, più che leggere, si segue rapiti uno stream of consciousness che ingloba chiunque abbia avuto un ruolo nella moda, nel design e nel giornalismo degli ultimi sessant’anni, da Dino Buzzati che lo chiamò come consulente artistico della Domenica del Corriere, a David Bailey “che parlava in cockney” terrorizzando le redattrici, fino a Yves Saint Laurent che, dopo essersi vestito o svestito di tutto punto per i servizi dell’Uomo Vogue per i quali posava lui stesso, ancora giovane e bellissimo, domandava ansioso “Flaviò, ça va comme ça?”. La copertina è invece opera della nipote Luna, dodici anni, che vive a Dubai. Me la mostra orgoglioso: “L’ha composta in pochi minuti. Questa generazione digitale è sorprendente”. A caratteri diversi, in caduta verticale, vi si legge la parola “destino”. Ci pare un titolo riduttivo. Non l’avesse già scritto qualcun altro, “la forza del destino” ci sarebbe sembrato più adatto. Anche “la forza” e basta. Un aiuto dalla dea bendata serve a tutti, ma non si può dire che Flavio Lucchini non l’abbia invitata spesso a casa servendole caviale e champagne.

     

L’autobiografia ingloba chiunque abbia avuto un ruolo nella moda, nel design e nel giornalismo degli ultimi sessant’anni 

Per riassumere la sua carriera a uso delle nuove generazioni prima di procedere con la domanda che più ci sta a cuore, elencheremo di seguito le testate che ha fondato e le iniziative di cui si è reso protagonista, tralasciando le meno importanti perché anche una paginata del Foglio ha dei limiti di spazio: Fantasia, ispirato all’americano McCall’s, per la De Agostini che voleva una rivista di cucina e invece si trovò una testata al servizio del bello e innamorata del design (1958); Amica (1960, primo numero 1962) su chiamata del più stretto collaboratore dei Crespi, Franco Sartori, che la ricca famiglia voleva tenere lontano dal gioco d’azzardo (“andai a stampare le prime copertine a Torino perché le nuove macchine comprate dai Rizzoli per la sede di via Scarsellini disegnata da Gio Ponti erano sempre fuori registro e non c’era verso di migliorarle”) ; Vogue Italia (1965) (“la Condé Nast aveva comprato qualche anno prima una rivista milanese fatta da un gruppo di signore, Novità, che andava malissimo. Ci diede una mano Diana Vreeland mettendoci in contatto con Consuelo Crespi: la moda si faceva ancora a Roma”); fonda l’Art Directors Club con Giancarlo Iliprandi (1966); inaugura L’Uomo Vogue (1967); quindi Casa Vogue (1968); Vogue Bambini (1973); Lei/Glamour (1976). Uscito dalla Condé Nast che non lo vuole riconoscere come direttore responsabile fonda Edimoda con Rizzoli: nascono Donna (1980), Mondo Uomo (1981). Quindi, in partecipazione con Rai/Eri, Moda (1983), il primo mensile di stile legato al mondo dello spettacolo e della televisione, e collegato a un programma televisivo, cui affida dopo un anno la direzione a Vittorio Corona; cede Edimoda a Edilio Rusconi, che rileva tutte le azioni “per un assegno di cui non riuscivamo nemmeno a leggere tutti gli zeri” (1984) portando la partecipazione di Lucchini al 30 per cento. In Rusconi fonda anche una rivista settimanale di moda e attualità, Eva (1987), antesignano dei magazine femminili legati ai quotidiani, ed è il suo unico vero errore: “La storia della Rusconi era piena di successi di giornalismo popolare tradizionale. Ci vivevano come concorrenti. Chiudemmo”.

  

“Editare è diventato difficile, soprattutto i femminili. La moda è sempre entusiasmante, si racconta però in modi e con mezzi diversi”

Alle origini di tutto questo stanno un’infanzia contadina nella bassa mantovana, compagno di giochi il futuro, leggendario direttore del Tg1 Albino Longhi che, orfano, dovette trovare subito lavoro come fattorino presso la locale sede Dc, quindi gli studi d’arte all’Accademia di Brera e di architettura a Ca’ Foscari conquistati lavorando duro come insegnante e grafico. In mezzo, la straordinaria crescita della Milano di Bruno Munari, di Aldo Rossi, di Gae Aulenti, di Vittorio Gregotti, di cui Lucchini diventa sodale e interprete editoriale, intuendo per primo la segreta corrispondenza fra le espressioni artistiche e trasformandole in immagini da sfogliare e studiare. A metà strada, nel 1983, sta invece la fondazione, in società con Fabrizio Ferri, del Superstudio 13, il primo centro per la fotografia e per l’immagine che dà l’avvio alla gentrificazione del popolarissimo quartiere Savona/Solari, dove poi si insedierà anche Giorgio Armani con il teatro di Tadao Ando e il Museo/Silos. Al nuovo millennio, nel Duemila, data invece l’apertura del Superstudio Più, un complesso di diecimila metri quadrati in via Tortona che dal debutto ospita il salone della moda White e da dove è partito anni fa l’ormai celeberrimo Fuorisalone del design. Vi lavorano decine di persone, e Gisella, che si innamorò di Flavio, tanto più grande di lei, quando lo vide apparire nella scuola serale di grafica che frequentava dopo aver dovuto abbandonare l’università per un rovescio familiare (“Era un visionario. Ed era bellissimo, un iconoclasta, così diverso dai miei fidanzatini di allora, che portavano la cravattina stretta e certe giacche a sacco”), sovrintende ancora a tutto; a sua volta, in apparenza, avviata alla stessa immutabile freschezza di quel marito così tenacemente corteggiato fino a quando capitolò, in un memorabile viaggio a Parigi. Il finanziamento per acquistare il Superstudio Più arrivò non dalle banche ma da Renzo Rossetti, il calzaturiere di Parabiago per il quale Flavio e Gisella avevano, negli anni, applicato il metodo-Vogue da loro inventato: in estrema sostanza, una consulenza completa di posizionamento e comunicazione, che negli anni del passaggio dell’alta moda al pret-à-porter, cioè fra la fine degli anni Sessanta a tutti i Settanta, si era concretizzata nei cosiddetti “groupage”, una galleria di immagini redazionali finanziate agli stilisti emergenti dai tessutai e scattate dai migliori fotografi del mondo. Invece di limitarsi ad accogliere semplicemente la pubblicità, la rivista diventava il trait d’union fra industria e creatività, sostenendone la crescita economica e la visibilità. Un concetto in realtà ottocentesco, ma che Lucchini e Borioli avevano addizionato di glamour, bellezza, esclusività.

   

La degenerazione attuale, il do ut des in cui le concessionarie si sono trasformate in agenzie di eventi e le riviste in contenitori delle foto degli stessi, a partire da quella dell’amministratore delegato dell’azienda pagante abbracciato alla mogliera in ghingheri, è qualcosa che Lucchini aveva forse previsto, ma che di certo non avrebbe tollerato. Dice di non seguire più la moda, in realtà legge ancora tutte le riviste e segue, con moderazione, i social: “La moda di adesso mi sembra una sovrapposizione di cattivo gusto”, osserva, e quando già si sarebbe pronti a giudicarla la reazione di un uomo d’altri tempi, preparandosi a un colloquio sulle nevi di un tempo, aggiunge il dettaglio che squarcia un nuovo orizzonte: “Sono sempre stato favorevole alla diversità, quando si attua nell’ambito di una società multiforme. Ma per giocare di stratificazioni e combinazioni dissonanti come fa una certa moda di adesso bisogna possedere una cultura che la maggior parte della gente non ha”. E allora? “Si butta addosso roba a casaccio”. Saremmo pronti a giurare che non si riferisca ai vestiti.

Di più su questi argomenti: