Pablo Picasso, sei un mito
Da Arianna all’eterno ritorno del Minotauro. Il debito fondamentale di un artista rivoluzionario con l’antichità classica. Una mostra a Milano svela l’alchimia creativa del pittore e i suoi modelli
Il bambino prodigio, il giovane cosciente della sua capacità che studiò i pittori del passato e del contemporaneo e riuscì – da artista bohèmien nella Parigi di inizio secolo – a creare, unendo lo stile classico a quello cubista, capolavori come “Les Demoiselles d’Avignon” (1907), “Guernica”(1937) e molti altri, passando per il periodo blu e quello rosa. Pablo Picasso (1881-1973) ci ha talmente abituati alla sua dualità da arrivare alla conclusione che la compresenza di linguaggi artistici diversi non fu per lui un’eccezione, quanto piuttosto la regola. “Se tutte le tappe della mia vita potessero essere rappresentate come punti su una mappa e unite con una linea, il risultato sarebbe la figura del Minotauro”, dichiarò in un’intervista, e il figlio di Pasifae, metà uomo e metà toro, concepito dall’unione con quell’animale inviato da Poseidone, divenne il suo alter ego, tanto da essere presente nel suoi lavori dal 1928 fino alla morte.
“Dalle sue opere traspare un’antichità reinventata con spontaneità. Il processo creativo è sempre rimesso in discussione”
E’ del 1937 quello in penna d’inchiostro e carboncino, del 1958 quello “pensieroso” in matita su carta, ma in tantissime sue opere, siano esse disegni o sculture, quel mostro mitologico si ritrova sempre nelle forme degli oggetti o delle persone in esse rappresentate, addirittura nello sguardo. Si pensi alla “Testa di uomo barbuto” (1938), una delle “super star” del Museo Picasso di Parigi, con le orecchie appuntite, le narici enormi e due occhi rossi che fissano lo spettatore quasi a minacciarlo. Lo stesso accade in “Busto di donna” (1931), una scultura in cemento raffigurante una sagoma femminile dagli occhi scavati e neri con una protuberanza più vicina a una proboscide che a un naso. Una cosa del genere si ritrova anche nella serie de “Il bacio”, quella del 1943, dove la forma dei due amanti ricorda un equino particolare – o in quella del 1969 – dai lineamenti ancora più marcati – de “L’abbraccio” (1970), come nell’olio su tela “Nudo con bouquet di iris e specchio” (1934), creato da un mix di erotismo, cubismo e classicismo.
Gli esempi potrebbero continuare a lungo e una conferma, in tal senso, la avrete visitando la mostra “Picasso Metamorfosi”, in programma al Palazzo Reale di Milano fino al 17 febbraio prossimo. Un percorso speciale e unico perché – cosa mai accaduta sino ad ora in maniera così dettagliata – la rassegna presenta in maniera più che esaustiva il rapporto che uno dei più grandi artisti del Novecento, uno dei più influenti e rivoluzionari pittori di tutta la storia dell’arte aveva con l’antichità e il mito. Un rapporto profondo, articolato e complesso. La mostra milanese – quasi in collegamento con quella romana ospitata in questi giorni alla Galleria Borghese e dedicata al Picasso scultore – mescola inestricabilmente vocabolario formale, riferimenti letterari, organizzazione cosmogonica e rimaneggiamento dei codici mitologici ai fini dell’interpretazione dell’opera dell’artista. Promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e Mondo Mostre Skira, rientra nella grande rassegna europea triennale “Picasso-Méditerranée” e propone circa duecento opere tra lavori del maestro spagnolo e opere d’arte antica provenienti dai tre musei a lui dedicati – Parigi, Barcellona e Antibes – ma anche da tanti altri che ospitano i suoi lavori in maniera permanente, come il Louvre, il Musée des Beaux-Arts di Lione, l’Archeologico di Napoli e i Musei Vaticani di Roma.
Quella tra Milano e Picasso fu (ed è) una relazione feconda, visto che nel capoluogo lombardo venne esposto “Guernica”, il gigantesco quadro-denuncia del bombardamento che devastò la città basca nel 1937, e la città gli dedicò anche una mostra nel 1953. Ma questa in corso – che già prima di aprire ha ricevuto più di novantamila prenotazioni – ha qualcosa in più, perché va ad approfondire un aspetto di rilevante importanza nella complessità picasssiana, dimostrando come le conseguenze dei grandi miti, da lui reinterpretate, siano ancora oggi un potente propellente per la creatività e rivestano un valore educativo ed esistenziale.
Figure ibride e lacerate tra umano e animale, tra bene e male. Grandi opere “che hanno una violenza contagiosa e profetica”
Quel titolo, “Metamorfosi”, non è stato ovviamente scelto a caso, perché ha un doppio riferimento: da un lato è relativo al lavoro del maestro per l’edizione di Albert Skira del 1931 dell’opera omonima di Ovidio (riproposta in mostra) cui è dedicata una delle sezioni dell’esposizione, e dall’altro si riferisce al suo pensiero secondo il quale, fissando non gli stati di un dipinto ma le sue metamorfosi, si potrebbe scoprire come la sua mente si incammini verso la concretizzazione di un sogno. “Il percorso è quello relativo all’analisi della storia e della cultura, al riferimento degli antichi maestri”, spiega al Foglio la curatrice, Pascale Piquard, direttrice dei Musei civici di Avignone, “e ciò che emerge è il debito di Picasso verso il mondo classico, la cui importanza è fondamentale”. “Dalle sue opere – continua – traspare in filigrana un’antichità dissimulata e reinventata con grande spontaneità che contribuisce alla rigenerazione di un processo creativo rimesso incessantemente in discussione”. La mostra, pertanto, consente di penetrare nel cuore di quest’alchimia creativa, intessuta di invenzioni e riferimenti al passato sin dalla prima delle sei le sezioni in cui è stata organizzata. Si intitola “Mitologia del Bacio/con Igres, Rodin e Picasso”, ed evidenzia come il linguaggio di quest’ultimo – come scrive la curatrice nel prezioso catalogo pubblicato da Skira – “ricusi e solleciti a un tempo i riferimenti plastici e grafici agli antichi maestri in un’alchimia in costante mutamento che lascia progredire la concezione dell’opera malgrado lo sfolgorio di forme spontaneamente compiute, al termine di una premeditazione di cui restano ben poche tracce preparatorie”. Il cammino che conduce dalle opere alle fonti storiche esplorate dall’artista permette dunque di scoprire le tracce di un’antichità che Ingres e Rodin avevano già fatto propria e i cui codici hanno trasmesso al loro successore. Riunire quei tre attorno al bacio, spiega la Piquard, “significa individuare in tale soggetto una costante che a partire dall’antichità ha trovato numerose espressioni” e la sua innovazione “consiste nell’isolare il bacio trasformandolo nell’espressione di una fusione carnale, fonte di una creatività che attraversa tutte le esperienze plastiche della sua carriera”. In Picasso il bacio è metafora dell’atto sessuale che giunge fino alla confusione dei corpi, è un qualcosa di autobiografico, di appassionato e di esasperato insieme reso possibile anche attraverso bocche urlanti. Rimase molto colpito da Rodin, che trascendeva la forma come la realtà classica nelle sue opere, ma quel fascino nei suoi confronti si manifestò poi nell’interesse che ebbe per la scultura. Oltre ai baci e agli abbracci – vi stupirà la sua serie dei baci messi a confronto con la scultura di Rodin e lo “Studio per Paolo e Francesca” di Ingres – si affiancano spesso raffigurazioni di donne offerte agli sguardi sotto l’apparenza di nudi dormienti.
Nella seconda sezione, come suggerisce il titolo (“Arianna tra Minotauro e Fauno”), saranno quegli esseri fantastici del repertorio mitologico all’artista tanto cari a catturare la vostra attenzione: figure ibride e lacerate tra umano e animale, tra bene e male, tra la vita e la morte. Arianna rappresentò per lui la chiave d’accesso ad antiche leggende animate da tensioni amorose e popolate da esseri soprannaturali divisi tra animalità e umanità. Fu il suo potenziale erotico e suggestivo del sonno ad affascinarlo e a prefigurarne – a suo modo – il tempo di una rinascita. Come Bacco, che la scoprì addormentata, la sposò e la rese divina, così Picasso decise di omaggiarla con diversi lavori, da “Nudo in giardino” al già ricordato “Nudo con bouquet di iris e specchio” (entrambi del 1934), da “Lo scultore e la modella” (1931) a “Nudo che si pettina”(1954). L’incontro con Olga Khokhlova e così pure il suo viaggio in Italia, a Roma e a Napoli, negli anni Venti furono fondamentali, come ricordato nella terza sezione della mostra (“Alla fonte dell’antico: il Louvre”). “La fonte” (1921) si ispira proprio a una personificazione del fiume Nilo conservata in Campidoglio, ma anche a un dipinto di Ingres, e sfocerà – come ci fa notare la Picard – nel dipinto “Tre Donne alla fonte”, sempre dello stesso anno, il cui soggetto è ispirato a sua volta da una pittura di un vaso greco conservato al Louvre, uno dei musei preferiti da Picasso, a cui è dedicata anche la quarta sezione (“Il Louvre di Picasso tra greci, etruschi e iberici”). L’arte greca cicladica domina “Nudo seduto su fondo verde” (1946) e la serie “I bagnanti” (1956). Novanta furono i pezzi di ex voto iberici in bronzo realizzati da Picasso (alcuni sono esposti per la prima volta proprio in questa mostra), ma fu la ceramica la sua ossessione, un’arte che scoprì nel dopoguerra e che – come ci viene ricordato in “Antropologia dell’antico” – fece sua evolvendo l’oggetto dalla sua funzione d’uso a status di opera d’arte.
“L’Antichità delle metamorfosi” chiude il percorso, intenso ed esaustivo, che vi consigliamo di ripetere più di una volta per apprezzarlo al meglio (se potete, non andateci nei weekend). “La donna in giardino” (1932) in ferro saldato e dipinta di bianco è un’introduzione perfetta alle “Metamorfosi” di Ovidio, il simbolo perfetto di un passato dove si scopre il vero potere dell’arte, diceva, quello che si esprime in grandi opere “che hanno una violenza contagiosa e profetica”.
L'arte di chiedere