Il ritratto di Albert Einstein di Max Liebermann (Foto Wikipedia)

L'arte rigenerata

Marina Valensise

Londra, 1938. Una mostra sfida la Germania nazista: alle pareti molte opere messe al bando dal regime. L’Inghilterra ricorda quell’avventura

Nell’estate del 1938 a Londra, fra le trecento opere del modernismo tedesco esposte alle New Burlington Galleries, un quarto piano affacciato sui Burlington Gardens nel cuore del West End, c’era il ritratto di Albert Einstein, un olio su tela dipinto da Max Liebermann nel 1925. Il fisico tedesco ha un viso da ragazzo, con gli occhi illuminati del genio, e uno sguardo pieno di ironia che sembra fulminare lo spettatore. Il quadro era un prestito di un collezionista privato, come annunciava il catalogo della mostra intitolata “The Twentieth Century German Art”. In realtà apparteneva a Martha Liebermann, la vedova del grande pittore tedesco morto nel 1935 e condannato dal nazismo in quanto ebreo e artista “degenerato”. Un’altra opera magnifica, sempre di Liebermann, in mostra a Londra in quell’estate di ottant’anni fa, si intitolava “La pastorella”. Era una tempera a pastello del 1887 e rappresentava una ragazzina dipinta di profilo con una cuffia bianca in testa e un vestito nero, mentre sferruzza a maglia, in piedi, circondata da pecore brucanti l’erba verde, sullo sfondo di un cielo rosato nell’ora del tramonto. L’opera era stata venduta da Paul Cassirer, mercante d’arte ebreo emigrato a Londra nel 1933. Proveniva dalla collezione dell’economista tedesco Theodor Plaut, un altro ebreo tedesco di Lipsia, che per anni aveva insegnato ad Amburgo, dove aveva sposato Ellen Warburg della celebre famiglia di banchieri e mecenati, prima di emigrare anche lui in Gran Bretagna dopo l’arrivo di Hitler, e approdare all’Università di Hull.

 

Alle Burlington Galleries si potevano vedere tanti altri capolavori dell’arte contemporanea, e molte opere d’avanguardia come “Improvvisazione senza titolo” un olio su tela di Wassily Kandinsky dipinto nel 1914. Questo quadro costitutiva un altro prestito e proveniva da un deposito della Kunsthalle di Basilea. Era una delle quattro opere della favolosa collezione messa insieme da Nell e Herwarth Walden, due galleristi berlinesi che negli anni Dieci avevano battuto l’Europa intera per organizzare l’Erste Deutscher Herbstsalon, una delle prime retrospettive sull’arte d’avanguardia. E fra gli altri quadri astratti c’era “Veleno”, un acquarello dipinto nel 1932 da Paul Klee, l’artista nato in Svizzera che nel 1933 dovette lasciare l’Accademia d’arte di Düsseldorf perché bollato dai nazisti come rappresentante dell’entartete Kunst, l’arte “degenerata”. E poi c’era uno splendido olio con sabbia su tela di Willi Baumeister, “Tennis”, dipinto nel 1933 e molto picassiano. Baumeister era un membro del Gruppo di novembre, era stato professore di Arti applicate a Francoforte, e nel 1935 anche lui come Klee perdette il posto, marchiato dal nazismo come artista degenerato e se ne andò a lavorare come grafico in una fabbrica di pitture a Wuppertal. L’anno prima della mostra londinese, Baumeister aveva mandato il suo quadro a Zurigo per la piccola mostra commerciale sull’Arte realista e astratta, alla quale era stato invitato anche Klee, organizzata da Irmgard Burchard, una delle curatrici della mostra del 1938 a Londra.

Esposti tra gli altri Liebermann, Kandinsky, Klee, Baumeister: una reazione alla campagna contro la “entartete Kunst”

  

Ma a Londra nell’estate di ottant’anni fa si potevano vedere anche opere più tradizionali. L’arte degenerata, infatti, era una categoria politica, che non implicava una definizione estetica, con criteri chiari. Era piuttosto l’espressione di una scelta ideologica, e di propaganda attiva, che poteva variare in funzione delle necessità. Dunque fra le trecento opere dei 64 artisti invitati a Londra si poteva trovare un’opera super tradizionale, come “La mamma col bambino” un disegno a tempera su carta di Christian Rohlfs del 1928, nei toni del beige, del crema e del marrone; pochi tratti decisi per restituire l’espressione di terrore negli occhi della madre, e di sgomento in quelli del bambino. Faceva parte del prestito, in tutto nove opere fra le quali una selezione di disegni di Käthe Kollwitz, che era stato concesso per la mostra dall’avvocato berlinese Wilhelm Abegg. Non un semplice collezionista, ma uno dei principali oppositori al nazismo: già segretario di stato al ministero degli Interni prussiano, Abegg era fuggito da Berlino meno di un mese dopo l’avvento al potere di Hitler, e approdato a Zurigo era diventato uno dei protagonisti dei vari movimenti di resistenza e un attivista delle associazioni di volontari create in aiuto ai rifugiati.

 

Anche Abegg, come tutti gli altri collezionisti, proprietari di opere contemporanee, mercanti, galleristi, critici, e direttori di musei, in tutto una novantina di persone, venne contatto dagli organizzatori della mostra di Londra. Costoro erano tre o quattro pazzi, mossi innanzitutto dall’interesse personale, prima che dalla spinta ideale. Nöel “Peter” Norton, per esempio, la gallerista di Cork Street, vicina di casa dell’eccentrica miliardaria americana Peggy Guggenheim che già collezionava Mondrian, Kokoschka, Klee, fu la prima ad avere l’idea di una risposta internazionale alla mostra nazista di Monaco. Era la moglie di un funzionario del Foreign Office, e ben presto dovette temperare i suoi ardori. Accanto a lei c’era sin dall’inizio la giovane gallerista svizzera Irmgard Burchard, che stava lavorando su progetto simile. E c’era il berlinese Paul Westheim, il critico d’arte che aveva fatto carriera a Berlino con Das Kunstblatt, ed era emigrato a Parigi a causa di Hitler. Insieme si trovarono a operare di concerto, non senza attriti, conflitti, colpi di scena e rotture, e riuscirono a coinvolgere una serie di personalità della cultura e della società civile inglese, a cominciare dal direttore della National Gallery, Herbert Read, subito nominato presidente del comitato organizzatore. E ottennero facilmente il patrocinio di nomi prestigiosi come Clive Bell, Virginia Woolf, Rebecca West, H. G. Wells e persino di Axel Munthe, di Lord Ivor Spencer-Churchill e di Pablo Picasso.

 

L’intento era chiaro. Volevano rispondere alla propaganda nazista contro l’entartete Kunst, l’arte degenerata, che i nazisti avevano non solo bandito ma anche messo in mostra nel 1937, a Monaco, tre anni dopo una prima esposizione a Dresda, per celebrare la nuova ideologia del regime e l’efficacia del nuovo corso impresso da Hitler per arginare la degenerazione giudaico-bolscevica della Repubblica di Weimar, rilanciare l’occupazione, restituire vigore e fierezza alla nazione germanica e alla razza ariana. Ma l’iniziativa era delicata. Esporre a Londra gli artisti tedeschi messi al bando a Berlino era infatti una sfida di prima grandezza, che poteva comportare un rischio politico incalcolabile, come ricorda la recente mostra che ha riproposto alla Wiener Library di Londra quella allestita a Berlino alla Villa Libermann sul Wannsee.

 

Così, ottant’anni dopo quell’ultima estate di pace – un’estate torrida e tremenda, che in seguito all’ingresso della Wehrmacht a Vienna e all’annessione dell’Austria al Terzo Reich vide sbarcare a Londra 50 mila ebrei emigrati dalla Germania e dall’Europa centrale, fra i quali anche il vecchio Sigmund Freud, ormai malato e ultra ottantenne, destinato a finire i suoi giorni nella villetta di Maresfield Gardens – possiamo disporre di una meticolosa ricostruzione di quella famosa mostra londinese, con tutti i dettagli sul contesto storico, sui protagonisti, sulle forze in campo e sul sottile gioco diplomatico che fu necessario per realizzarla. E’ un capitolo incredibile nella storia dell’arte e della cultura contemporanea, e un capitolo chiave nella storia d’Europa del Novecento per chiunque abbia a cuore il ruolo che l’arte e la libertà dell’arte e soprattutto il mercato, esercitarono in difesa della più generale libertà politica e civile.

 

I curatori di questa bella iniziativa londinese, Lucy Wasensteiner e Martin Faass, hanno prodotto non solo una mostra documentaria, ma soprattutto un utilissimo catalogo bilingue, in inglese e tedesco, “London 1938. Defending ‘degenerate’ art - Mit Kandinsky, Libermann und Nolde gegen Hitler”. Frutto di un’inchiesta a tappeto, è un libro a più voci che si legge come un romanzo giallo, tanto è disseminato di tracce, indizi, prove schiaccianti e controprove imbarazzanti. Come e meglio della mostra stessa, aiuta infatti a ricostruire non solo le origini dell’esibizione straordinaria del 1938 alle Burlington Galleries, ma permette di conoscere tutti i retroscena, i compromessi, le cautele che gli organizzatori adottarono per non fare naufragare un’impresa politicamente controversa come la loro.

Nel pieno della propaganda nazista per la difesa della razza. E Chamberlain si apprestava a correre in soccorso di Hitler

 

Londra e l’Europa intera erano all’epoca nel pieno della campagna nazista per l’arianizzazione della cultura e la difesa della razza. Nell’illusione di salvare la pace e il proprio onore, il premier Neville Chamberlain, si apprestava a correre in soccorso a Hitler, firmando il patto di Monaco, col risultato di ottenere invece la guerra e il disonore come avrebbe tuonato Winston Churchill. E infatti, dopo essersi annesso l’Austria, Hitler si sarebbe annesso il territorio dei Sudeti, in primavera sarebbe entrato a Praga e nel settembre del 1939 avrebbe occupato la Polonia, spartendosela con Stalin. E cosa volevano i curatori della mostra londinese sull’arte bandita dal nazismo? Volevano reagire contro la propaganda nazista, dando una risposta internazionale alla campagna nazista contro l’entartete Kunst. Certo. Volevano valorizzare gli artisti condannati dalla trimurti del regime, Bernhard Rust, Alfred Rosenberg, Joseph Goebbels, che da anni non solo teorizzavano ma mettevano in pratica la Gleichshaltung, la nazificazione dello stato e della società in nome dell’ideologia nazista. Ma volevano anche continuare a fare affari, come era il caso di Nöel “Peter” Norton, che per prima ebbe l’idea e per prima l’abbandonò, quando si accorse che rischiava di nuocere al marito, Clifford Norton, segretario particolare di Sir Robert Vansittart, uno dei più noti oppositori del regime nazista, e nel 1938 assegnato di sede a Varsavia.

 

Volevano cercare di darsi una legittimazione professionale, come Irmgard Burchard, la gallerista di Zurigo, che saltò subito sul progetto della Norton, associandosi con lei, visto che, assistita dal marito designer Richard Paul Lohse, da tre anni aveva iniziato a trattare con successo molti artisti d’avanguardia, come Paul Klee e Willi Baumeister. O potevano inseguire un destino professionale tagliato su misura per loro, come Edith Hoffman, la storica dell’arte, londinese di adozione ma viennese di nascita, figlia di un diplomatico ceco ebreo e pronta dunque a traversare le frontiere, col passaporto di servizio, per andare a caccia di capolavori. Potevano persino sperare di ritrovare una carriera interrotta dall’esilio, come Paul Westheim, l’ebreo berlinese, grande esperto di arte contemporanea fuggito a Parigi nel 1933,e ancora in contatto con i grandi collezionisti in esilio, come il magnate dell’industria tessile Erich Göritz, come il banchiere e mecenate Hugo Simon, che continuavano a ricevere i suoi consigli e le sue raccomandazioni. Coinvolto sin dall’inizio da Nöel Norton, Westheim, ben presto getterà la spugna, cercando addirittura di sabotare la mostra londinese, finché Herbert Read non gli farà capire espressamente che era meglio rinunciare alla presenza di un ebreo emigrato per non compromettere la riuscita della mostra.

 

In effetti, i curatori di Londra dovevano soprattutto cercare di ammansire le autorità inglesi e l’opinione pubblica, rinunciando a partire lancia in resta in difesa degli artisti ebrei, degli emigrati, dei rifugiati politici. Da qui il balletto di mosse e contromosse nei mesi drammatici dei preparativi della mostra. Con Westheim che per primo da Parigi segnala la collezione dell’avvocato Abegg a Irmgard Burchard nel dicembre 1937, e Irmgard Burchard che da Zurigo gli domanda se può davvero assicurarne il prestito. E di nuovo Westheim che informa gli organizzatori della mostra che parte della collezione di Erich e Senta Göritz si trova in Gran Bretagna, dove i due erano emigrati nel 1934, mentre altre mille opere erano finite al Museo di Tel Aviv, i cui curatori sono disposti a prestare almeno sei tele di Lovis Corinth. E poi Westheim che esce dai gangheri, e protesta contro Nöel Norton, quando costei rinuncia al titolo originario della mostra, “Banned Art”, scegliendone uno più anodino. E lui reagisce minacciando di sabotare Londra per allestire in proprio una mostra a Parigi.

  

Dunque non solo la storia dell’arte, la storia degli artisti, dei collezionisti, dei pazzi curatori pronti a rischiare in proprio per fare un’opera di antipropaganda alla propaganda nazista, ma le minute passioni triviali, l’odio, l’orgoglio, la stizza e l’invidia, che sempre sono al cuore di ogni impresa umana, e che formano la vera trama segreta di un’impresa memorabile.

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