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Alla faccia dei big data, i cartelloni pubblicitari funzionano ancora

Michele Masneri

Intelligenti, enormi, eccitanti, ci fanno stare a testa in su. E la digitalizzazione ha aiutato molto 

Roma. Il cartellone rivive un momento d’oro. Il cosiddetto “outdoor advertising”, o “out of home”, la pubblicità esterna – quella fuori di casa e fuori dai nostri dispositivi elettronici – salirà del 3 per cento quest’anno raggiungendo la cifra di 38 miliardi di dollari di spesa globale. Sono dati citati dal magazine Recode su base Zenith. E sorprendono nell’epoca dei big data in cui si pensa che l’unica pubblicità a crescere sia quella digitale. Invece il poster non perde il suo fascino; così a ricorrervi sono molti gruppi “new”, basti pensare ai tappezzamenti da parte di Netflix che nei giorni scorsi ha disseminato le città italiane dei poster sul caso Cucchi, o ad Apple con i suoi iPhone. I poster sono talmente strategici che diverse compagnie della Silicon Valley si stanno comprando aziende di cartellonistica: Netflix ha acquistato per 300 milioni di dollari una quota in Regency Outdoor Advertising, compagnia che gestisce primarie affissioni a Hollywood. Anche Google starebbe pensando di entrare nel mercato.

 

“A livello globale il trend è questo”, conferma col Foglio Fabrizio du Chène de Vère, amministratore delegato di IGPDecaux, azienda leader del settore in Italia. “La spinta forte in questo momento è dovuta allo spostamento di crescenti parti delle popolazioni dalle campagne alle città, dove la pubblicità outdoor ha possibilità di essere vista da grandi masse di persone, ed è qualcosa che sta accadendo nei paesi in via si sviluppo”. “In occidente invece – continua il manager – c’è un’altra tendenza, quella della digitalizzazione, con la sostituzione di cartelloni di carta o retroilluminati in pvc con dispositivi a led con degli schermi. Tendenza particolarmente in crescita in Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina e Germania”. Il cartellone “intelligente” permette di avere incassi molto più alti. “Un settore che riguarda ormai il 10 per cento dell’outdoor e che comprende stazioni, aeroporti, metropolitane e pensiline dei mezzi di superficie. La sfida è poi quella di fare interagire i cartelloni con gli smartphone dei potenziali clienti”, dice du Chène de Vère, “cioè mettere certi tipi di pubblicità dove è maggiore la affluenza di potenziali clienti”.

 

Il cartellone intelligente è solo l’ultima trasformazione di un settore antico. Nel medioevo si ricorreva alle affissioni, ma i cartelloni vennero lanciati già nel 1790 con l’invenzione della litografia, che permise i grandi formati, e la prima ad avvantaggiarsene fu l’industria del circo, per pubblicizzare i suoi spettacoli. Nel 1889 i primi poster furono mostrati all’Esposizione di Parigi e quattro anni dopo a quella di Chicago. Dopo il circo, a capirne il potenziale fu l’industria automobilistica, con la Ford Model T che fu la prima auto di serie ad avere i suoi poster, fatti in modo da essere visti da migliaia di potenziali guidatori. In Italia intanto Ferdinand du Chène de Vère (antenato del Nostro) fondò nel 1886 la prima compagnia di pubblicità “dinamica” approfittando del trasporto pubblico che era stato fortemente sviluppato con l’unità d’Italia: ci sono le tramvie a cavallo, i primi tram a vapore, e nel 1890 la società si aggiudica l’esclusiva delle pubblicità su tutti i tram di Milano e poi del Regno.

 

Nel 1964, spiega l’ad di IGPDecaux, un altro suo antenato si inventa le pensiline: regala al comune di Milano dei luoghi dove ripararsi in attesa del mezzo, in cambio di una parte dei ricavi sulla pubblicità, un modello che ancora oggi funziona, con la società privata che si prende cura “di tenere in ordine e pulita la struttura, perché altrimenti gli inserzionisti non sarebbero molto contenti”.

 

Nel frattempo le tecnologie cambiavano, i poster che potevano resistere solo pochi giorni in balìa degli elementi trovarono nuove tecnologie. In America alcuni luoghi urbani divennero celebri praticamente per i loro cartelloni – Times Square a New York, Piccadilly a Londra. Las Vegas, come fondale di architettura neutra prestato alle inserzioni, affascinò a tal punto Robert Venturi da fargli scrivere un fondamentale testo (“Imparare da Las Vegas”). Anche Tom Wolfe era un estimatore dei cartelloni di Las Vegas: “Ma che insegne! Svettano in forme per le quali l’attuale vocabolario di storia dell’arte non può esserci di alcun aiuto. Posso soltanto tentare di suggerire alcuni nomi: Boomerang-Modern, Palette Curvilinear, Flash Gordon Ming-Alert Spiral, McDonald’s Hamburger Parabola, Mint Casinò Elliptical, Miami Beach Kidney”, scriveva il giornalista americano. “Anche gli edifici sono delle insegne: di notte, in Fremont Street, interi edifici sono illuminati, ma non dai riflessi dei faretti; tramite tubi al neon molto ravvicinati, sono trasformati in vere e proprie sorgenti luminose.

 

Nella pluralità di soluzioni, le insegne familiari della Shell e della Gulf risaltano come fari amichevoli in terra straniera. A Las Vegas, però, per sostenere la competizione con i casinò, sono alte tre volte tanto quelle della vostra stazione di servizio locale”. La cartellonistica prese talmente piede in America che nel 1965 il presidente Lyndon Johnson promulgò un Highway beautification act per rimuovere i troppi cartelloni che affollavano strade e autostrade. “La bellezza appartiene al popolo”, disse il presidente democratico. “E non permetterò che ciò che ci è stato dato dalla natura sia rovinato dall’uomo”. A volere fortemente la legge anti-cartelloni fu la first lady, Lady Bird Johnson.

 

Ma la politica ha sempre beneficiato della cartellonistica. Anche in Italia se ne è fatto vasto uso, dalle elezioni repubblicane – “Nel segreto dell’urna, Dio ti vede, Stalin no!” – alle più recenti tornate elettorali e personalizzazioni dei leader. Dal “Noi possiamo guardarti negli occhi” dell’Msi anni Ottanta di Almirante, che li aveva belli, al primo Forza Italia del 1994 su fondo azzurro con tutte le varianti di “meno tasse per tutti”. La Lega fu da subito molto immaginifica, con dei cartoon con pellerossa (“loro hanno subito l’immigrazione, ora vivono nelle riserve”), al celebre “sveglia padano!, con una gallina nordica che scodella un uovo subito catturato da una massaia ciociara).

 

In America oggi il primo inserzionista “esterno” è McDonald’s, seguito da Apple. L’associazione del settore, Oaaa (Ooutdoor Advertising Association of America) stima che vi siano 368.263 cartelloni. In Italia, dice du Chène de Vère, il comparto vale circa 400 milioni di euro. I settori che più investono sulla pubblicità all’aperto sono “l’elettronica di consumo, l’entertainment – basta guardare ai mega poster di Sky o appunto Netflix, la grande distribuzione con Esselunga, e poi anche quella digitale con Zalando e Amazon”. “In generale la pubblicità esterna punta a una popolazione che sta fuori casa e dunque è considerata più attiva, che si muove per lavoro, o comunque non sta sul divano. Gli americani parlano di un target on the go con un purchasing mode, cioè che hanno voglia di spendere”, dice Flavio Biondi, direttore commerciale di IGPDecaux.

 

Ma il primo committente della cartellonistica in Italia oggi è rappresentato dalla moda e dai beni di lusso. “E’ il primo settore merceologico perché si ritiene che tutti quelli che viaggiano siano altospendenti”, dice Biondi; “adesso Chanel per la prima volta ha investito sulla cartellonistica nelle metropolitane di Milano e Roma”. L’outdoor poi può contare molto sul gigantismo dei corpi, specie se ritratti svestiti sui palazzi. Se negli anni Ottanta a New York fu Calvin Klein a causare incidenti stradali con i suoi modelli in intimità fuoriscala, oggi c’è Cristiano Ronaldo, testimone nerboruto della nuova linea di intimo “Cr7” per il primario marchio Yamamay. Ma la juventina mutanda non verrà esposta sulle facciate di Napoli, “in segno di rispetto”, fanno sapere dall’azienda: non di San Gennaro o qualche altra divinità locale, bensì perché il produttore dell’intimo calcistico è partenopeo, e non vuole offendere la squadra di calcio.