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Luci della Carrà

Simonetta Sciandivasci

Manichini, abiti di scena e un caschetto biondo. Una mostra racconta la regina senza tempo del varietà, la donna con l’ombelico scoperto, la diva della porta accanto a suo agio in lamé anche alle dieci del mattino

Ha detto Roberto D’Agostino che Raffaella Carrà è stata dichiarata sito archeologico: “Si può entrare solo con piccone, casco e guida”. Un po’ è vero e un po’ no. Nessuno sprovveduto, o irresponsabile, o sguarnito di protezioni è mai stato in pericolo avvicinandosi a lei: è sempre successo il contrario, persino con Eminem, quando lo fece esibire a Sanremo mentre gli italiani si indignavano (un popolo d’indignati indefessi dal 1946) e la voce del loro dissenso era quella di Gigi D’Alessio, che dichiarò “ci sono tanti di noi bravissimi a dire le parolacce, non c’è bisogno di lui”. Raffa ignorò tutti, disse al Tg1 che sperava di far cambiare idea almeno a qualcuno e così fu, per più di qualcuno, cioè per chiunque fosse sintonizzato: prese per mano il rapper bianco e sboccato come fosse un concorrente di Carràmba che sorpresa, uno di quelli che avevano perso di vista un fratello minore da vent’anni, e lo portò al centro del palco a prendersi gli applausi: bastò questo a rassicurare e far pentire tutti per aver demonizzato un ragazzetto biondo con la felpa e l’aria triste, dimenticando che doveva anche lui aver famiglia e mamma e papà e cuore e un dio. Il varietà è nato per farci compagnia, tenerci uniti e alleviarci dalla fatica di “tenerci in piedi in un mondo in rovina”, la sola cosa cui badare e per la quale spendere energie, secondo Julius Evola: il talento di Raffaella è diffondere l’energia necessaria a quello sforzo, a quella sopportazione, un’energia che ha dosi precise, immutabili, imperscrutabili e che lei ha trasformato in luce, perché la luce è inestinguibile e quando si posa sulle cose le rende incontrovertibili, lasciandole misteriose se sono misteriose, fastidiose se sono fastidiose, familiari pure se sono incomprensibili.

  

Raffaella uguale da sempre, non assomiglia a niente, non porta il segno di nessun tempo perché i tempi li ha sempre anticipati tutti quanti 

Raffaella Carrà è uguale da sempre, non assomiglia a niente, non porta il segno di nessun tempo, perché i tempi li ha sempre anticipati tutti quanti, e in questo sì che è un sito archeologico. La nostra Chefren, la sfinge di Giza. Entri nella mostra “Iconoclasti. Lo stile di Raffaella carrà nell’opera di costumisti e stilisti” che Fabiana Giacomotti ha allestito in suo onore, al Teatro1 di Cinecittà (visitabile fino al 15 luglio), e quella sfinge è agli angoli della sala ed è la prima cosa che noti: manichini neri appesi per aria, sdraiati, acquattati, in posa da Sfinge, appunto, con sopra solo una parrucca bionda, quel caschetto che di colpo ti appare così simile a quello egiziano e che ha fatto di Raffaella Carrà la silhouette di un prisma continuamente in movimento e tuttavia immodificabile. Una volta, era il 2005, le chiesero se non fosse diventato opportuno cambiare taglio di capelli, passare al riccio (se siete deboli di cuore, non leggete qui: il liscio di Raffa è liscio artificiale e chi lo sa se esiste qualcuno, sulla faccia della terra, che l’ha mai vista non liscia, o semplicemente spettinata – probabilmente no). Rispose così: “Credo nella pulizia della linea, così come in quella di un programma televisivo, di un comportamento. Pulizia! Se ti trovi bene pettinata così, allora non devi cambiare. E a me non sono mai piaciuti il rococò e il barocco, i troppi gioielli, l’eccesso”. Frank Sinatra era pazzo di lei, avrebbe voluto sposarla, ma lei rifiutò per molte ragioni, la prima delle quali fu che lui le regalava collane. Provate a usarlo come criterio di selezione: provate a negarvi a un uomo che vi regala collane e capirete che il rigore di Raffaella Carrà è qualcosa di molto serio e carnale.

  

Le spalline acuminate che ha sfoggiato prima di Freddy Mercury; i pantaloni svasati che ha portato senza mai sembrare un’hippie 

L’idea di Iconoclasti è rappresentare l’avventura che è stata vestire una così, una che era già tutta vestita dal suo taglio di capelli, una donna che è un prisma di luce, disponibile e impenetrabile, snodata e ferma d’una fermezza che più passa il tempo e più ci sembra irreale, pappemolli come diventiamo di anno in anno sempre di più, una che non ha mai avuto alcuna intenzione di alterare il confine tra vita privata e spettacolo, perché ha fatto lo spettacolo senza dare spettacolo (l’opposto di quello che la televisione e quel che resta del varietà fanno adesso), una che, senza essere una bambolona, senza scandali privati pendenti, con il viso pulito e per bene da fanciullina bolognese allevata dai nonni in una famiglia agiatissima e colta, negli anni Settanta andava in Rai e cantava agli italiani la migliore educazione sessuale e sentimentale di sempre (A far l’amore comincia tu, le sue paure di quel momento le fai scoppiare soltanto tu, fagli capire quello che vuoi… Ho inventato il tuca tuca per poterti dire che mi piaci mi piaci mi piaci mi piaci… Forza ragazzi spazzola e chi mi cambierà) e tutta una prossemica del desiderio stupefacente e inedita perché giocosa, lieve, spensierata, un esorcismo pop della sacralità di sesso e verginità verso cui abbiamo un debito enorme, incalcolabile. Nessun costumista ha mai potuto neanche osare di cucirle addosso la didascalia di tutto questo. Né tantomeno Raffaella Carrà ha mai permesso a nessun costumista di fare del suo personaggio un testimone di chi è lei a casa, di farlo combaciare con il suo diario e le sue ossessioni e i suoi passatempi e le sue partite a tressette con Renato Zero per rilassarsi (lo direste mai, della ballerina che ci ha mostrato l’ombelico in tv, della showgirl con le paillettes, la presentatrice con le spalline che Lady Gaga e Madonna hanno scopiazzato in tutti i modi, l’interprete di Cristiano Malgioglio, lo direste mai che gioca a tressette?). E’ questa la sottrazione che Fabiana Giacomotti, direttore scientifico del Master in Teoria e strategia della moda all’Università La Sapienza di Roma, racconta nella sua mostra (selezione di 40 abiti su 400, tutti provenienti dall’archivio storico della Rai, da Annamode, dalla sartoria TheOne, molti dei quali esposti ora per la prima volta – una chicca: su alcuni pannelli ci sono i fumetti di Cinzia Leone): il tipo di icona che Raffaella Carrà ha impedito che qualcuno le fabbricasse addosso e, pure, il fascino che questa sottrazione ha esercitato sui suoi costumisti. In ogni abito, se lo osservate bene, al contrario di una risposta, di un compendio, di una sintesi, c’è una domanda: chi sei, Raffaella? Cosa puoi ancora diventare? Perché la fissità del rigore non è immobilità, non è ostacolo alla sperimentazione: Raffaella Carrà, scusate la ripetizione, è arrivata sempre prima e, se non lo abbiamo troppo chiaro, è solo perché dove arrivava, non piantava bandiera, così da lasciare a quelle che ci sarebbero arrivate, vent’anni dopo, il brivido (l’illusione?) di credersi prime, avventuriere, apripista. La disposizione dei vestiti che vedrete a Cinecittà racconta perfettamente questa domanda sempre aperta e il modo in cui Raffaella non si è mai ritratta dalla sfida di giocare e indossare la varietà di tutte le risposte possibili, dal farsi suggerire da qualcun altro un passo in più per il suo personaggio, interessata com’è sempre stata al contatto con gli altri. “Anch’io ho il mio partito, il partito della gente”, ha dichiarato qualche anno fa, dicendosi fiduciosa che la “rivoluzione di Beppe Grillo” potesse andare da qualche parte – e adesso chissà come la pensa, ma che importa, laran laran, il cuore batte già.

  

Sinatra era pazzo di lei, avrebbe voluto sposarla, ma lei rifiutò per molte ragioni, la prima delle quali fu che lui le regalava collane 

Nell’ultima sala della mostra, dopo un abito rosso bustier in vinile (peraltro indossato da Lady Gaga) e un altro rosso in fil coupè con pattina d’oro, ci sono un paio di salopette, una con i pantaloni borchiati e un’altra coperta di glitter. Chi sei, Raffaella, cosa puoi ancora diventare? Ci si sono spaccati la testa in tantissimi, quando Raffa era già Raffa e anche prima: quando sognava il cinema e non demordeva e studiava e finì persino a Hollywood, non ci rimase molto ma abbastanza per maturare la tempra per dire, quando fu presa per il programma Io, Agata e tu con Nino Ferrer: “Datemi tre minuti solo per me, anche padre Virginio Rotondi ha tre minuti solo per lui”, perché in quel tempo voleva ballare da sola, “ballare punto e basta”. Fu accontentata. Non molto dopo, si presentò da Ettore Bernabei e lui le disse che l’avrebbero esportata in tutto il mondo, come la Ferrari. Da allora, Raffaella prese a fidarsi di chi voleva guardarla e lasciarsi ispirare da lei. La mostra racconta anche questo: l’incontro tra una donna molto risoluta e definita – “icona dell’assertività” l’ha definita qualcuno - e altre donne e uomini (soprattutto uomini) desiderosi di fare di lei qualcosa di più e di sempre nuovo, di fare di lei la Carrà, senza che lei desse istruzioni, senza indossare paracadute, visto quanto bene ha sempre saputo volare. “Io sono perfettamente a mio agio in lamé, anche alle dieci del mattino: vestirmi da signora non mi piace”, ha detto una volta. Eppure, ricorda un pannello della mostra, in Pronto Raffaella, il primo programma televisivo studiato per la fascia oraria di mezzogiorno, in onda dal 1983 al 1985, quello che le fece inventare la “tv in salotto”, il suo guardaroba era fatto di tailleur. Coloratissimi, certo, ma pur sempre tailleur. Erano i primi anni Ottanta e Raffa assomigliava già alla Diane Keaton della copertina di Baby Boom (1987), una commedia su una donna in carriera che si ritrova a far la mamma adottiva per caso e controvoglia. Persino Diane Keaton è arrivata in ritardo rispetto alla nostra Raffa, d’altronde come tutte.

  

Una prossemica del desiderio stupefacente e inedita perché giocosa, lieve, un esorcismo pop della sacralità di sesso e verginità

Qualcuno ha scritto che Raffaella non sarebbe diventata chi è senza Corrado Colabucci, il suo costumista di sempre, il più amato, il più fidato, quello che le scoprì l’ombelico e le disegnò gli stivaletti fatti con la stessa stoffa dei pantaloni. Uno che ha realizzato una collezione per Audrey Hepburn e che, accanto a Enrico Rufini e Luca Sabatelli, ha scritto la storia dell’incrocio tra moda e costume nel nostro paese. Solo che chi lo sa se l’avrebbe trovata, Colabucci, un’altra disposta a farsi scoprire l’ombelico in tv. Ad accettare di far scandalo, quando gli scandali potevano costare una carriera. Ad affidarsi così, a prestarsi sempre a contenere ed espandere lo stile, la scoperta. Dal 2000, a disegnare i vestiti di Raffaella c’è stato anche Gai Mattiolo. Nel 2013, quando ha iniziato a condurre The Voice of Italy, si è lasciata vestire con jeans attillati e giacche di nappa colorata di Versace e sul viso è parsa ancora quella che è a suo agio in lamé, anche alle dieci del mattino, anche se sono passati decenni, mentre noialtre umane stiamo bene in lamé, in media, solo di notte, per qualche anno della nostra vita, prima dei trent’anni e il punto è che, nonostante questo, Raffaella Carrà non la sentiamo diva, ma la sentiamo, come Tiziano Ferro, nostra, nostra, nostra – “e Raffaella canta a casa mia, e Raffaella è mia, mia, mia”. E non per via delle “lacrime distillate su Rai1” (scrisse Edmondo Berselli, che però non ce l’aveva tanto con lei quanto con l’assurdità di pretendere che la sinistra combattesse per il servizio pubblico, quando il servizio pubblico era scadente) e per quella parte della sua carriera in cui è stata materna e madre meglio e più delle mamme con i figli (lei non ne ha mai avuti). La sentiamo nostra, Raffaella, perché canticchiamo i suoi ritornelli da juke-box popolare mentre guardiamo le sue spalline acuminate, che lei ha portato prima di Freddy Mercury; i pantaloni svasati che lei ha portato senza mai sembrare un’hippie; le pettorine lavorate a maglia che ha sfoggiato senza mai sembrare Giovanna D’Arco. Tutte cose che fanno di lei una diva e che, anziché allontanarla, ce la rendono prossima, vicina ai sogni che sappiamo di non poter (non voler) realizzare, compreso quello di essere per bene e di buon umore sempre, di aver sempre un laran laran da voler cantare, qualunque cosa accada, di aver sempre la forza di indossare abitini luccicanti ed estranei e incompatibili con noi, di aver sempre la forza di giocare e di farlo sul serio.

  

Sulla bio di Twitter, Raffaella ha scritto: “Emiliana doc”. Gli emiliani, diceva Zavoli, li distingui dai romagnoli perché quando chiedi da bere ti portano l’acqua (i romagnoli, invece, ti portano il vino). Per gli emiliani, dice Massimo Zamboni nel libro che ha scritto insieme a Vasco Brondi, Anime galleggianti (La nave di Teseo), il mare è un confine invalicabile: loro restano al di qua, a lavorare la terra, a lavorare sodo. Ed è proprio quello che ha fatto Raffaella Carrà: restare al di qua, lavorare sodo e creare un personaggio attraverso il quale tutti, costumisti e pubblico, travalicassimo tutto.