Il Foglio Weekend
Il Nazi della porta accanto: un rassegna di personaggi dopo la Festa della Liberazione
E anche questo faticosissimo 25 aprile è passato dopo il Salone del Mobile e la Biennale di Venezia, eventi che però non sono così "divisivi" e defatiganti. Cosa abbiamo portato a casa? Alcune prese di posizioni interessanti: qualcuno è riuscito a dirsi antifascista, qualcun altro fascista
"Anche questo 25 aprile se lo semo levato dalle palle", direbbe l’avvocato Covelli di vanziniana memoria, oggi finalmente libero di esprimersi, e che, immaginiamo, si direbbe orgogliosamente fascista. Faticoso, faticosissimo, però, questo 25 aprile, dopo il Salone del Mobile e la Biennale di Venezia, eventi che però non sono così “divisivi” e defatiganti. Cosa abbiamo portato a casa? Alcune prese di posizioni interessanti: qualcuno è riuscito a dirsi antifascista, qualcun altro fascista. Nel primo caso il ministro Sangiuliano, in un’intervista a Repubblica (stava andando bene, ma improvvisamente ha detto che c’è stata “anche una dittatura comunista in Italia”, mannaggia). Nel secondo caso, il giornalista Rai Massimo Magliaro, già portavoce del segretario Msi Almirante, che da Floris ha detto: Sì, sono fascista, e allora? Che fate, chiamate i Carabinieri? Che ricorda un po’ il “che fai, mi cacci”, di finiana memoria. Allora il fascismo (per Fini) era male assoluto, oggi è relativo, e insomma accettato, tollerato, interpretato: è come le spalline e i capelli cotonati, è tornato, facciamocene una ragione. Lo si vede ovunque. I saluti romani, lo ha stabilito la Cassazione, son tollerati, basta che siano intesi come commemorazione. E’ un po’ come la parola “fr” detta agli omosessuali. Conta il tono. Altri segnali: la scuola irpina in cui è stata fatta cantare “Faccetta nera”, forse per sbaglio, o perché se ne è perso il senso politico, e forse diventerà una hit post ideologica come “Bella ciao”, ormai usata come ambìto sountrack nelle serie tv spagnole. E alla Maserati hanno chiamato “Folgore” un nuovo modello (a quando una Balilla, magari ibrida?).
Il tema vero, il bersaglio grosso, però, è altrove. Se il fascismo è passé, superato, cheap, la bestia nera è il nazismo. Lì non si scherza. Nazista è brutto, è bruttissimo. Infatti lì tutti protestano, si indignano. Meloni denuncia il prof. Canfora che forse verrà messo ai ceppi come Ilaria Salis (e in galere italiane forse messe peggio di quelle ungheresi) per aver definito la premier “una mentecatta neonazista nell’anima che sta con i neonazisti ucraini”. Ecco, i nazisti ucraini. Perché i nazisti stanno ovunque, soprattutto all’estero. Per Putin, Zelensky e tutti gli ucraini sono nazisti, o neonazisti. Per Zelensky, è invece Putin nazista o neonazista. Gli americani democratici dipingono Trump coi baffetti: nazi. Trump, all’avanguardia, ha lanciato il sasso: anche Hitler ha fatto cose buone. Ma anche i pro Palestina dicono che Israele è nazista, mentre gli israeliani dicono che il leader iraniano Khamenei “è come Hitler”.
Ma se sono tutti nazi, nessuno è nazi? Non sarà l’attesa del nazismo parte integrante del nazismo? Del resto viviamo in tempi bizzarri, si sa, uno va alla manifestazione pro Israele e si ritrova La Russa, grande sbandieratore di braccia alzate, detentore di busti mussoliniani (come andare alla manifestazione per la lotta del grano e trovarci i celiaci). Ma guai a definirlo nazista. Eppure erano molto amici, il nazismo e il fascismo, con tutto il Patto d’acciaio del ‘39 e la grande amicizia Hitler-Mussolini. E tecnicamente si chiamerebbe “nazi-fascismo”, ma niente. Nazismo è brutto. Così sono nazisti coloro che vogliono ricorrere alla Gpa anche nota come utero in affitto (detto da un sacco di gente, tra cui Salvini). Salvini però, accusato da molti d’esserlo pure lui, protesta: “Non accetto che mi si sia del nazista”. In un caso, pure da Famiglia Cristiana. Un precursore fu poi Berlusconi che nel 2003 proferì la famosa frase “la prenderemo per un ruolo da kapò in un film sul nazismo” al presidente del gruppo dei socialdemocratici tedeschi al Parlamento europeo, Martin Schulz.
Al cinema (estero) il nazismo è poi sempre andato fortissimo. “Io li odio, i nazisti dell’Illinois!”, diceva John Belushi nei “Blues Brothers”, ma recentemente il regista di quel film, John Landis, ha detto che quel partito - i nazisti dell'Illinois - esiste veramente in America. In Italia tutto finisce sempre in commedia, sottotitolata. A Dalmine, provincia di Bergamo, un giovane durante il dibattito sul Ddl Zan andò in piazza vestito proprio da nazista dell’Illinois per protestare contro la compressione della sua libertà di pensiero. Giampietro Belotti, 33 anni, si vide allora ritirare il porto d’armi per le numerose pistole che possedeva (naturalmente ora lamenta l’ulteriore compressione del suo diritto a sparare, c’è stato un ricorso al Tar, ecc. C’è un giudice – amministrativo – a Berlino, ma anche a Bergamo).
Gli è andata bene, però, al nazista bergamasco. Altrove poteva finire malissimo. In Germania a marzo un ultrà della Lazio in trasferta è stato arrestato. Insieme a degli altri aveva pensato bene di andare a festeggiare nella storica birreria di Monaco Hofbräuhaus (quella in cui Adolf Hitler fece i primi comizi). Ma già a settembre altri due italiani erano stati arrestati per aver fatto il saluto romano, questa volta all’Oktoberfest. Insomma la trasferta neonazista non porta mai bene, soprattutto in Germania. Non bisogna mai andare in Germania, consiglierebbe il prof. Sassaroli di “Amici miei”.
E i tour antinazisti? Ci vorrebbe una Lonely Planet. Il turismo nazista o antinazista è in continua crescita. Celebre ormai il caso di Ilaria Salis, attualmente detenuta a Budapest, e di Zerocalcare, che è andato ad assistere al processo, e di Christian Raimo, che l’ha sostenuta; il professore di Montesacro, si sa, inneggia alla caccia ai nazisti soprattutto ungheresi. Che devono essere nazisti particolarmente prelibati, come i bracchi ungheresi di Draghi e la commedia all’ungherese, come veniva chiamata quella dei telefoni bianchi del Ventennio (tutto torna).
Ma qualcuno avrà poi calcolato l’impatto sul pil ungherese di tutti questi spostamenti (anche, con avvocati, deputati, personale di ambasciate e consolati)? Ci saranno delle convenzioni, delle agenzie? Dei pacchetti? C’è chi va a caccia di fagiani in Spagna o alla volpe in Inghilterra, e c’è chi parte per cacciare nazisti in Ungheria, attività più rischiosa. La caccia al nazista è diventata uno sport, mentre una volta era un lavoro serio che faceva il Mossad (ora lo fa Christian Raimo). E del resto il Mossad non ci sta a capì più niente (da mo).
Parlando di cose serie, e con la crisi che c’è, ci si chiede questa lotta al nazismo che fatturati porterà invece in Italia. Editorialmente, è territorio quasi vergine. Adesso ci prova un altro che è sempre all’avanguardia, lo Stefano Massini auteur della trilogia dei Lehman (che ha sbancato i teatri di mezzo mondo) e delle recenti celebrazioni scalfariane, col suo “Mein Kempf” appena uscito per Einaudi. Lui ce la mette tutta. “Il feroce distillato della religione nazista”, recita la controcopertina. Nazismo da bere. “Dopo molti anni di ricerca e di scrittura, notomizzando parola per parola del testo originario, Stefano Massini ci consegna la sua biopsia del testo maledetto”. Notomizzando? Anvedi. L’Hitler di Massini aspira a diventare la nuova Elena Ferrante del nazismo.
E farebbe benissimo, perché poi ce le rubano tutte queste storie. Gli americani, per primi, che il nazismo non l’hanno mai avuto (a parte l’Illinois e altri casi sporadici e nuovi) han da tempo invaso il mercato, come i cinesi con l’auto elettrica. Jonathan Littell fece le sue “Benevole”, con enorme successo, e vogliamo parlare della splendida rapsodia nazista di Christopher Isherwood? Mentre la tedesca Hannah Harendt con “La banalità del male” vendette tantissimo anche da noi, beneficiando tra l’altro del genio nostrano del doppiaggio. Avrebbe avuto lo stesso successo se si fosse intitolato, come nell’originale, “Eichmann in Jerusalem”? Massini però ha avuto la ièlla di incocciare nell’ennesimo revamp del caso Scurati (la JK Rowling dell’antifascismo). E quindi ci si chiede: riuscirà il nazismo a generare una simile fantastica filiera? Libri che diventano spettacoli teatrali che diventano serie Sky come quella in arrivo tratta da “M”? (e anche noi, le capocciate contro il muro dall’invidia: quel romanzetto, invece che a Roma o Milano oggi, ti vuoi mettere in testa di ambientarlo durante il ventennio? Ci si ricordano delle scene, in una palestra dove si andava a Roma, non proprio un covo di lettori forti, dove a un certo punto ogni avvocato e notaio aveva nell’armadietto il suo tomo con la “M” in copertina, con lettering originale anni Trenta, ovviamente, “per stigmatizzare”).
Oggi però fare un nuovo libro sul fascismo non è mica facile, è un mercato saturo. Si deve ricorrere a spinoff, a sottogeneri. Ecco dunque la versione “young fascism”: tipo giovani vampiri che andavano di moda qualche anno fa: romanzi su giovani vite che incocciano nel fascismo e nei suoi derivati. Sta già avendo gran successo ed è nella dozzina dello Strega “Dalla stessa parte mi troverai”, romanzo di Valentina Mira (classe 1991) edito da Sem, che racconta dell’amore tra Rossella e Mario Scrocca, arrestato nel 1987 come uno dei responsabili della strage di Acca Larentia. Nella rassegna stampa sul sito dell’editore non c’è spazio per le recensioni dei critici, né dei lettori, bensì per le più invoglianti dichiarazioni sdegnate dei politici di Fratelli d’Italia: “la fiera del revisionismo e dell’odio politico” (sottosegretario Montaruli); “mostra un inaccettabile giustificazionismo nei confronti delle Brigate rosse” (Mollicone, presidente Commissione Cultura Camera); è “la banalizzazione del male che approda al Premio Strega grazie ai favori dell’amichettismo di sinistra” (Rampelli, vicepresidente della Camera). Beata lei.
Non ha avuto ancora recensioni né censure di governo il romanzo dell’esordiente Davide Coppo (1986), redattore di Rivista Studio, che racconta lo sbandamento nel postfascismo di un liceale alla ricerca di sé. E’ ambientato a Milano e si intitola “La parte sbagliata” (edizioni E/O) e potrebbe inaugurare un nuovo genere, giovani fasci nella Milano anni Duemila, poi diventati intellettuali riflessivi di sinistra. Dall’olio di ricino ai grani antichi, promette benissimo. Sempre ambientato a Milano un altro romanzo, l’ultima opera di Gian Arturo Ferrari, già venerato guru dell’editoria, che ha appena lanciato il suo “La storia se ne frega dell’onore”, giallo anzi “bibliomistery” Marsilio ambientato nel mondo editoriale ai tempi del Duce.
Ma sul nazismo? Niente. Sul nazismo si consuma un grande vuoto. Gli autori italiani si trovano sprovvisti. Mancano gli strumenti espressivi. Se il fascismo è eterno, il nazismo quando conoscerà la sua stagione? Anche col cinema, siamo appiedati. Il critico Donald Liebenson ha stilato una classifica dei dieci migliori film su “come uccidere un nazista” sul Vanity Fair americano. Sì, perché nazismo è fondativo del cinema Usa, è pervasivo, dal “Grande dittatore” a “Casablanca”, da “Quella sporca dozzina”, a “Indiana Jones”, a “Inglourious Basterds” di Tarantino.
Noi poco o niente. Intendiamo il nazismo globale, non quello in versione b/n San Lorenzo (quartiere) che invece funziona e ha avuto sempre successo, come il recente “La storia” versione Rai 1 ma già con “Roma città aperta”. Fuori dal Grande Raccordo Anulare, niente. Ci si è concentrati sul fascismo. Forse scrivere o filmare il nazismo ci viene difficile perché nella letteratura e nel cinema italiano la realtà è sempre depotenziata, si vede benissimo anche proprio con le serie. In “Call my agent Italia” non ci sono le battute taglienti dell’originale francese, la lesbica è un po’ meno lesbica dell’originale, ma già in “Supersex”, il nostro “Boogie nights”, scopriamo che Rocco Siffredi fa il porno mica perché gli piace scopare, no, piuttosto perché la mamma laggiù nel natìo borgo non lo ricopriva dello sguardo affettuoso di cui aveva bisogno. Così anche il fascismo funziona tantissimo in tv perché è percepito come versione depotenziata del nazismo, all’italiana insomma. In fondo, tutti hanno avuto un nonno fascista (noi no, anzi, tutti orgogliosamente antifa quando era anche più complicato di oggi, perdendo aziende e impieghi). Invece il nazista, l’efferato nazista, è altro da noi, dunque non è rappresentabile. La colpa si mette “fuori” come nelle migliori rimozioni. Però è un peccato, sarebbe un grande traino anche per tutto il settore dell’audiovisivo. Ci aveva provato Visconti. Ma poi? Liliana Cavani, certo. Bertolucci, uno dei registi nostri più internazionali, ha fatto benissimo col fascismo a km zero, con “Il conformista” e anche “Novecento”, ma nazisti niente. Dovremo attendere un Guadagnino glamour con un generale delle SS impersonato da Josh O’ Connor?
Forse poi è anche un problema di domanda, più che di offerta. Accetterebbero, le audience globali, un kolossal italiano sui nazisti? Da una parte la produzione creativa italiana si sa che è relegata al local. Quando ci mettiamo a raccontare fenomeni globali non risultiamo credibili. Un film italiano sull’11 Settembre del resto farebbe ridere. E anche la nostra coppia in crisi di Latina rimane relegata a coppia in crisi di Latina, non diventa “larga”, non diventa mai archetipo della coppia in crisi (ma già Arbasino: “ambientare una storia mentre Kennedy viene assassinato a Dallas è una cosa, a Brescia mentre cade un governo Fanfani, è diverso”).
E poi, a proposito di credibilità: il nazismo è anche simbolo di efficace spietatezza, di efferata organizzazione, di carneficine eseguite al millimetro. “Lucida follia”, si dice sempre per il nazismo (la lucida follia è la splendida cornice del nazismo). Non vorrebbero subito, le eventuali piattaforme, l’inserimento di caratteri locali, il nazista canterino o dal buon cuore, il torturatore pasticcione, il generale amante della pizza? Il tutto ambientato nella splendida cornice di Noto o di Capri? Però qui la questione è seria. Riprendendo anche la polemica di Favino sull’appropriazione culturale degli americani, se è vero che ci rubano Enzo Ferrari, non è ancora arrivato lo scrittore italiano che “chiama in causa” come si dice in questi casi, per libri “necessari”, il nazismo. Ci saranno dei complessi culturali? Eppure li abbiamo avuti in casa, ed erano molto amici dei buoni fascisti. Cosa aspettiamo? Faremo come con la Mafia, che ci siamo fatti scippare da Hollywood per avere “Il Padrino”? Ma il ministro Sangiuliano, molto attento a sforbiciare i fondi al cinema, quanto investirebbe su un kolossal nazista con la Campania Film Commission? Chiederebbe magari una consulenza a Galeazzo Bignami, esperto di travestimenti nazi (magari poi Oscar per i costumi, meglio di Milena Canonero, vai a sapere come finiscono queste cose).
Suggeriamo anche un plot: proprio in queste settimane di inaugurazione della Biennale d’Arte di Venezia, mentre si son svolte alcune proteste, contro i padiglioni israeliano, americano e tedesco (perché ospitante un’artista israeliana!), nessuno ha ricordato che esattamente novant’anni fa, nel ‘34, Adolf Hitler in persona visitava la mostra, per il suo primo viaggio di Stato in Italia. Il cancelliere visitò la Biennale anche per una specie di rivincita. Da giovane acquarellista era stato rimbalzato ovunque, anche all’Accademia di Vienna. A Venezia anni dopo venne accolto invece in pompa magna, calò sui Giardini come un fulmine, non gli piacque niente, non il padiglione tedesco (che fece rifare, com’è oggi), e ancor meno l’arte che vide, arte sommamente degenerata, era del resto l’epoca del cubismo, dell’astrattismo e dell’espressionismo. Si innamorò invece di una crosta, un dipinto raffigurante delle placide barchette, dell’artista toscano Memo Vagaggini, appeso nel padiglione italiano. Le camicie nere lo staccano e glielo regalano subito. Incontra per la prima volta Mussolini e gli storici ricordano che Hitler in quell’incontro parlò dell’origine “negroide” dei popoli mediterranei (italiani inclusi), cosa che non piacque per niente, ma oggi sarebbe perfettamente in tema con l’idea di questa Biennale sull’essere tutti stranieri e migranti.
Allo stesso tempo alla Peggy Guggenheim si tiene in questi mesi una bella mostra su Jean Cocteau, che dopo esser stato comunista diventa grande fan dei nazi. Ecco, un Hitler confuso nella Biennale ‘34 tra gondole, souvenir, assillanti camicie nere, artisti di regime, sarebbe un plot mica male (titolo di lavoro, “Lost in Biennale”, ma non aspettiamo che un’altra Coppola ce lo freghi). Però, nella realtà, inaugurando il padiglione italiano, i potenti della destra di oggi si sono soprattutto spruzzati con l’acqua contenuta nell’installazione, facendo arrabbiare molto l’artista. Magari questa scena la tagliamo, sennò finisce di nuovo tutto in commedia. Balneare.
Intervista a Gabriele Lavia