Una sala della mostra “Monte di pietà” (foto Marco Cappelletti, courtesy Fondazione Prada) 

E rimetti a noi i debiti

Mostra d'arte o banco dei pegni? La sfida di Christoph Büchel, che ha trasformato Ca' Corner

Fabiana Giacomotti

“Monte di pietà” è una mostra che la gente tende a vedere per quello che è in apparenza, cioè una stratificazione mostruosa di oggetti disparatissimi e di ovvia simbologia. Ma il curatore ha lasciato tanti segni di sberleffo o consolazione "È un’ indagine del concetto di debito come radice della società e veicolo di potere"

Non è chiaro se lo scopo ultimo di Christoph Büchel fosse quello di innervosire i visitatori. Quello che è certo è che dalla mostra “Monte di Pietà”, aperta da un paio di settimane alla Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina in contemporanea con la Biennale Arte dopo tre anni di lavoro, l’archivio settecentesco del Monte di Napoli interamente ricostruito, i visitatori escono di umore elettrico, per non dire i veneziani che imboccano la stretta calle alle spalle della facciata proprio inviperiti, le donne specialmente. “Cossa crede, che semo in vendita tuti?”, quasi non sapessero che la residenza della Regina Cornaro sia stata davvero il banco dei pegni cittadino fra il 1834 e il 1969, insomma non proprio una destinazione d’uso temporanea, e quindi archivio storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia fino a tempi recentissimi, cioè quando Miuccia Prada e Patrizio Bertelli ne hanno preso la gestione dalla Fondazione Musei Civici che, dipendendo dal comune, aveva bisogno di fare cassa, avviandone i restauri conservativi e le attività lagunari della Fondazione Prada. Nutrivano anche il desiderio di mettervi su casa; si sono scontrati con una cittadinanza ostile e una burocrazia tignosa per oltre un decennio. Il contratto era molto esplicito, eppure Miuccia Prada non ha potuto dare il via ai lavori all’ultimo piano fino a poco tempo fa, tanto che se doveste schiacciare per sbaglio il tasto dell’ascensore per il piano quinto, all’apertura delle porte trovereste una squadra di muratori che lavora alla posa del pavimento del salone affacciato sul Canal Grande, mentre il museo ai tre piani sottostanti funziona a meraviglia da tredici anni. 

 

I visitatori escono di umore elettrico, per non dire dei veneziani, proprio inviperiti: “Cossa crede, che semo in vendita tuti?”

    
Ogni giunta, un nuovo ostacolo: a leggere le invettive della stampa quando, nel 2011, venne chiuso il primo accordo e quell’offerta che ripianava tutti i conti del governo Orsoni, 40 milioni di euro, pareva che Ca’ Corner della Regina fosse stata fino a quel momento un luogo di delizie, curata in tutti i suoi affreschi e i suoi cirmoli e non, come invece era, un edificio bisognoso di restauri, ingombro di cartacce, lasciti dubbi, brutto mobilio, il sottotetto devastato dalle infiltrazioni d’acqua piovana. Ma sapete come vanno le cose: ci si lamenta delle migliorie recenti, fino a quando il peggio precedente torna a farsi vivo, in solido e in effigie, e dunque dovreste vederli, i veneziani, quando arrivano al primo piano della mostra e osservano le foto del medesimo palazzo negli anni Venti con le gondole che sbarcano masserizie e i tramezzi di legno con gli spioncini per consegnare gli oggetti preziosi in pegno sul fondo del salone del piano nobile. Dovrebbero commuoversi, invece si indignano. D’altronde, nulla dà sul sistema nervoso della gente più del confronto con le proprie miserie e le proprie debolezze. Ne ebbi una prova molti anni fa, quando con Fabrizio Sclavi incaricammo un fotografo di scattare l’interno di un “pawn shop” di Las Vegas dove i ludopatici lasciavano dentiere e arti finti, a centinaia, in cambio di un pugno di dollari da giocarsi al casinò a fianco e fummo sommersi dalle proteste. Non poteva essere vero, era una scenografia e noi dei disgraziati, la gente non poteva essere così viziosa da privarsi di un braccio per scommettere sull’ignoto: quel servizio, che sconfessava millenni di filosofia occidentale sulla natura intrinsecamente buona dell’uomo, sulla sua tensione verso il meglio e la perfezione, venne fatto sparire e mai più riprodotto. 

  

Una sala della mostra adibita a cappelletta, con carrozzine da invalidi appese al soffitto (foto Marco Cappelletti, courtesy Fondazione Prada) 
     

Un vassoio di denti di ceramica l’ha piazzato anche Büchel in una vetrinetta accanto a una valigetta ricolma di diamanti di sintesi che è al tempo stesso opera d’arte e metafora dell’inganno (le pietre sono il risultato di un processo fisico e simbolico di distruzione e trasformazione dell’intero corpus di opere in suo possesso prodotte da Algordanza AG, un’azienda fondata in Svizzera nel 2004 che realizza diamanti della memoria), ma tutto questo è nulla in confronto agli arti artificiali che, con un gesto di sfida, ha collocato nella seconda sala del pianterreno, adibita a cappelletta, Madonnina al centro, candele tutt’intorno, carrozzine da invalidi appoggiate ovunque e anche appese al soffitto. Appena entrata, una collega molto devota si è irritata moltissimo, dev’essere una reazione automatica di difesa, ha scandito che in tutta quella messinscena non vedeva granché se non dell’ottimo materiale per un post su Instagram che certamente tutti noi del giro radical non avremmo mancato di fare, quindi ha girato sui tacchi e se n’è andata prima che potessi raccontarle del santuario della Madonna di Castelmonte a Cividale del Friuli dove la gente ha lasciato per secoli stampelle, gambe di legno ed ex voto di arti sanati, oltre a ricche offerte: lo visitai a cinque anni, mi fece una tale impressione che non volli più metterci piede, adesso leggo sul web che il “padre sacrista” accetta solo quadri di piccole dimensioni, chissà che fine hanno fatto tutti quei bastoni di legno, quelle gambe e quel palpabile dolore. 

 

L’apparenza è di una stratificazione ipertrofica e di una simbologia fin troppo ovvia. Ma il curatore ha lasciato tanti segni di sberleffo o consolazione

  
“Monte di Pietà” è una mostra che la gente tende a vedere per quello che è in apparenza, cioè una stratificazione ipertrofica, mostruosa, di oggetti disparatissimi e di simbologia fin troppo ovvia (tavoli da gioco, slot machine, montagne di abiti, quadri, catenine, enciclopedie Treccani, una collezione di ceramiche rinascimentali di storia molto travagliata) venendone travolta e paralizzata, cioè senza riuscire ad organizzare il pensiero a sufficienza per cogliere i tanti segni lasciati cadere qui e là dal curatore come monito, sberleffo, consolazione. Vi si legge il passato, un passato anche molto italiano e in odore di santità, visto che gli inventori del “monte” siamo noi, anzi i francescani che a un certo punto della loro parabola di frati vicini alla gente scesero a patti con l’idea che il tempo non si dovesse solo consacrare a Dio ma che potesse essere di utile impiego per dare un po’ di respiro ai “necessitosi”, conio di Bernardino da Siena, e al contempo sostenere i piccoli artigiani nello sviluppo dei loro affari con la concessione di prestiti a tassi non usurai (gli studiosi disquisiscono da decenni sulla primazia fra Ascoli e Perugia, ma sulla fondazione del primo Monte siamo comunque attorno al 1450). Ma vi si legge anche il legame fra il passato, un presente fin troppo vicino e un possibile, non sperabile futuro: bombe, residuati bellici, armi. La sezione che li raccoglie è indicata da un cartello (“Museo del debito e della guerra – Orari di apertura: Tutto l’anno, tutti i giorni su prenotazione”) che, se non fosse per l’iperbole temporale, potrebbe essere, ancora una volta, realtà: dopotutto, la pregiatissima via Montenapoleone, “prima via dello shopping europeo” come titoliamo quasi ogni giorno orgogliosi, 18 mila euro di canone al metro quadrato, ospitava il Monte voluto proprio da Bonaparte perché gestisse il debito pubblico della Repubblica Cisalpina, fondata sull’uso delle armi e di una conquista che non tutti avevano visto come portatrice di libertà. I debiti di guerra fatti pagare ai vinti, vecchia storia. 

  

Foto: Marco Cappelletti Courtesy: Fondazione Prada 
      

Dice Büchel che “Monte di Pietà” è “un’approfondita indagine del concetto di debito come radice della società umana e veicolo primario con cui è esercitato il potere politico e culturale” e che dunque Venezia, storicamente un crocevia di commistioni e scambi commerciali e artistici, fosse il contesto ideale per esplorare le relazioni tra questi temi e le profonde dinamiche della società contemporanea. L’ha sondato anche attraverso un progetto seminale sulla criptovaluta e la volatilità delle transazioni finanziarie della sfera digitale che, in un processo quasi alchemico, bruciano ricchezza per produrre nuovo valore: a metà fra realtà e provocazione artistica, l’ha battezzato “schei”, come poteva essere altrimenti, e lo fa promuovere su TikTok da una performer, la ”regina di schei” o “granfluencer”, una tizia colorata e molto vernacola della quale solo i veneziani, forse, possono cogliere l’ultimo rimando alla donna a cui il palazzo è intitolato: al ritorno da Cipro dopo essere stata costretta a cedere lo scettro alla Repubblica Veneta, una vedova che voleva regnare su un’isola strategica per traffici e commerci nel Mediterraneo del Doge, figurarsi, Caterina Cornaro venne infatti ribattezzata “regina senza regno ma con tanti schei”: le addolcirono la perdita con un vitalizio di ottomila ducati all’anno, il castello di Asolo con cento soldati a presidio e la conservazione del titolo. Il curatore ne ha collocato il ritratto, grande opera di Tiziano, dietro un banco di collanine da poco prezzo, fra decine di altri: non lo nota nessuno, nessuno sa chi sia quella bella donna con una corona di stile bizantino in testa. 

  

Il rapporto tutto speciale tra le donne e i Monti di pietà, che hanno rappresentato il ponte fra le leggi di mercato e i basilari princìpi solidaristici

   
E qui arriviamo al rapporto tutto speciale tra i Monti di Pietà e le donne. Come ha scritto in molti saggi Maria Giuseppina Muzzarelli, massima esperta del tema, con la loro attività, di certo legata al credito su pegno, ma anche orientata a garantire una dote alle donne più povere o a contribuire al mantenimento di un ospedale, un orfanotrofio o al sostegno o ampliamento di un’azienda artigiana o di una piccola impresa, i Monti hanno rappresentato il ponte ideale fra le leggi di mercato e i più basilari principi solidaristici, adeguandosi ai cambiamenti socio-economici non solo in Italia, ma anche in area mediterranea e in tutta Europa, e a questo dobbiamo la loro lunghissima durata. In particolare, però, hanno sopperito alle esigenze finanziarie di base di moltissime donne che, senza questo immediato ricorso al credito a tassi calmierati o su pegno, non avrebbero avuto di che sostentare la famiglia in momenti di crisi, e nemmeno di veder fiorire le loro piccole o medie attività. Se, da una parte, le doti di abiti, coperte, giubbe e gioielli potevano tornare utili anche quando in cattive condizioni, i libri mastri dei banchi dimostrano in modo inoppugnabile che i funzionari dei Monti di Pietà concedessero denaro non solo in cambio di oggetti d’oro o piatti d’argento, ma perfino di calzette ricamate “poco usate”, di maniche rattoppate, di giubboni lisi. Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori: questa era la pietà, questa non vogliamo più vedere ora che viaggiamo in suv, che ci interroghiamo a centinaia di migliaia sul futuro di Gucci e di Valentino e sul costo della t shirt “I told ya” che Jonathan Anderson ha riprodotto per Zendaya in “Challengers” ispirandosi a John Kennedy jr. 

 
Per questioni di decoro, o per meglio dire di maschilismo, erano quasi sempre le donne a recarsi al banco, se ne trova traccia non solo e ancora nei romanzi ottocenteschi, ma perfino nei film fino a tutti gli anni Quaranta, la moglie che va a impegnarsi la catenina per dare sollievo al marito rimasto senza lavoro o mutilato in guerra è un classico della cinematografia lacrimevole fra le due guerre. E’ anche vero però che non solo le donne in crisi di liquidità, ma anche le mercantesse facessero ricorso ai banchi con molta frequenza, sia per attività proprie (perfino nel ramo della prostituzione), sia per sviluppare quelle di famiglia. Talvolta diventavano loro stesse prestatrici: fonti notarili del Trecento e Quattrocento testimoniano di donne che agiscono nel settore mercantile o che offrono credito per operazioni di vario tipo. Tra queste Maria Zani, moglie del doge, che nel 1209 presta centoventi ducati a un veneziano per finanziare un’impresa commerciale per mare, oppure la genovese Eliador, moglie del ricco mercante Solimano di Salerno, che pochi decenni prima investe danaro (preso a prestito o derivato da dote non si sa) nel commercio d’Oltremare, diventando unica donna proprietaria di nave fra sessantacinque armatori maschi. E questa è una storia meno raccontata, perché tuttora si crede che le donne siano rimaste murate in casa fino al secolo scorso e poi, puf, all’improvviso siano diventate dattilografe, segretarie, operaie. Vi erano insegnanti donne “nel far di conto” fin dal Trecento, e poi casi famosissimi come quello di Margherita Bandini, moglie di Francesco di Marco Datini, che proprio grazie a un’istruzione gestionale seppe raggiungere mansioni manageriali nell’azienda del mercante tessile di Prato, alternandosi con il marito nelle relazioni sociali e di affari e, naturalmente, quello di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo il Magnifico che, al momento di piangerne la morte, riconosce di aver perduto non solo la madre, ma “uno instrumento che mi levava di molte fatiche”. Una storia ancora da scrivere, e soprattutto da diffondere. Peccato che si agitino tanto, le donne che visitano questa mostra. Ma parlare di denaro, si sa, per molte è ancora un problema, figurarsi di prestiti.