La persistenza della memoria, di Salvador Dalì

Fili di memoria

I nostri ricordi definiscono chi siamo, ma non sempre sono lo specchio della realtà

Mattia Manoni

Studi neurologici rivelano cosa li influenza. Grazie al riconsolidamento è possibile rievocare un ricordo per modificarlo, ed è uno degli strumenti utilizzati in psicoterapia per attribuire un nuovo significato a ricordi dolorosi o difficili da sostenere, così da renderli più sopportabili

Non si è molto distanti dal vero nell’affermare che si è ciò che si ricorda di aver fatto, ciò che si ricorda di aver provato e chi si ricorda di aver conosciuto. In sostanza, non è molto distante dal vero affermare che i ricordi contribuiscono in larga misura non solo a modellare la nostra identità, ma anche ad aiutarci a predire ciò che capiterà. Secondo Daniel Siegel – notissimo professore di psichiatria della californiana School of Medicine – la memoria è “l’insieme dei processi con cui gli avvenimenti della nostra vita possono influenzare il cervello in modo tale da alterare la sua attività successiva in maniera specifica” (Raffaello Cortina Editore, 2013). E’ interessante, dunque, che parlando di memoria, ricordi e passato si tiri in ballo l’idea di futuro ma anche quella di oblio, cioè del modo in cui, per fortuna, si dimentica. 


Infatti, fino a poco più di una decina di anni fa l’ipotesi prevalente era quella che considerava il dimenticare un processo passivo in cui il ricordo che non viene sollecitato decade lentamente fino a scomparire, così come potrebbe decadere qualsiasi altra cosa soggetta all’implacabile scorrere del tempo. Ciò che non era ancora stato ipotizzato è che solo scordando si ha la possibilità di acquisire nuove informazioni. Dimenticare, dunque, sarebbe un processo attivo. Qualcosa che si può immaginare come una continua e necessaria ristrutturazione tra ciò che se ne va, ciò che rimane e ciò di nuovo che entra.
Ma partiamo dall’inizio. Come funziona la memoria? Conosciamo il modo in cui si formano i ricordi? Chiaramente la memoria, come qualsiasi altra attività mentale, è una funzione emergente del cervello, cioè qualcosa che si manifesta grazie all’attività di quest’ultimo, emergendone, appunto. Questo significa anche che al variare dell’una varia anche l’altro e viceversa. A livello neurobiologico, infatti, è solo grazie alla continua formazione di legami, cioè di sinapsi tra un neurone e l’altro, che la memoria di un fatto o di un apprendimento si può mantenere. Infatti, rievocando, sollecitando un fatto specifico questi legami si fortificano permettendoci di ricordare più a lungo; è per questo che ripetere a voce alta mentre si studia è importante.  


Oltre al momento in cui un ricordo viene acquisito e quello in cui viene rievocato, esistono due momenti fondamentali attraverso i quali un apprendimento deve passare per dirsi assimilato a tutti gli effetti, e cioè quelli del consolidamento e del deposito. Consolidare un ricordo significa attraversare una fase di elaborazione in cui l’apprendimento appena acquisito si trova, per un periodo di tempo relativamente breve, in una situazione di instabilità prima di essere definitivamente depositato.  
I primi a scoprire questo funzionamento sono stati dei ricercatori del dipartimento di psicologia della Rutgers-New Brunswick University nel 1969, pubblicando uno studio su Science eseguito su dei ratti e intitolato “Retrograde Amnesia Produced by Electroconvulsive Shock after Reactivation of a Consolidated Memory Trace” (Amnesia retrograda prodotta dallo shock elettroconvulsivo dopo la riattivazione di una traccia mnemonica consolidata). Ciò che lo studio ha messo in luce è proprio il fatto che interferendo con un ricordo mentre questo si trova nella fase di consolidamento (in questo caso tramite una scossa elettrica, sì, non il massimo dal punto di vista etico) il ricordo può andare perso, cosa che non accade invece se la scossa elettrica (l’interferenza) viene data quando il ricordo è depositato, quindi quando è stabilmente immagazzinato. Inoltre, questo lavoro è stato tra i primi a sottolineare come sia possibile, rievocando una memoria depositata, portata dunque di nuovo in una fase di instabilità, renderla suscettibile a modifiche, riuscendo persino a cancellarla. Almeno nei topi. Negli esseri umani, invece, in quanto animali fortemente simbolici risulterebbe più difficile. Non a caso nel film diretto da Michel Gondry “Eternal sunshine of the spotless mind” (noto anche per la terribile traduzione italiana del titolo in: “Se mi lasci ti cancello”) i due protagonisti continuano ad incontrarsi nonostante si siano fatti cancellare la memoria per potersi dimenticare.  


Il meccanismo attraverso cui è possibile rievocare un ricordo per modificarne la valenza si chiama riconsolidamento, ed è uno degli strumenti utilizzati in psicoterapia per attribuire un nuovo significato a ricordi dolorosi o difficili da sostenere, così da renderli più sopportabili. Lavorando a livello psicologico sui significati che si attribuiscono agli eventi si influisce anche sul modo in cui i neuroni si collegano fra loro, riuscendo così anche a modulare il modo in cui il cervello è strutturato; il bello del rapporto mente-cervello è proprio questo: la sua bidirezionalità.
Un buon esempio di questo “sviluppo cerebrale esperienza-dipendente” è stato fornito da un famosissimo studio dell’University College London eseguito nel 1999 da Eleanor A. Maguire e colleghi. In questo lavoro i ricercatori hanno sottoposto sedici tassisti londinesi a delle risonanze magnetiche con l’obiettivo di indagare quale fosse lo stato del loro ippocampo, una struttura cerebrale che si trova nelle profondità del cervello nota per svolgere un ruolo centrale nella formazione della memoria spaziale. Infatti, comparando l’ippocampo dei tassisti con quello di un gruppo di controllo è emerso che quello dei primi risultava più grande. Perché? Perché imparare a muoversi per le strade di Londra ha delle conseguenze a livello cerebrale, e l’ippocampo, occupandosi anche di immagazzinare le rappresentazioni spaziali dell’ambiente circostante, deve aumentare di dimensione in coloro che necessitano di elevate capacità di navigazione.  
Et voilà.

 

Come si starà iniziando a capire esistono diversi tipi di memoria, si va da quella spaziale a quella a breve e a lungo termine fino alla procedurale (la memoria relativa alle azioni motorie), e ognuna tende a essere localizzata in strutture cerebrali specifiche, sensibili a modificarsi in base agli stimoli provenienti dall’ambiente. Questo processo di modulazione strutturale dell’encefalo si chiama plasticità cerebrale, riguarda praticamente tutte le funzioni mentali e solo da poco si è scoperto che rimane attivo durante tutto il corso della vita, e non solo in giovane o giovanissima età. In effetti la necessità di modulare comportamenti o abitudini in base alle richieste ambientali o personali è un’esigenza che continua nonostante l’avanzare dell’età.
Ma la memoria è veramente una fonte affidabile? E’ veramente una specie di carta carbone di ciò che abbiamo vissuto e che ci è capitato? Sebbene ci sia ancora dibattito a questo riguardo, la risposta ad oggi pare propendere per il no: non ci si può fidare dei propri ricordi. Stando a quanto riporta una revisione del 2020 intitolata “What science tells us about false and repressed memories” (cosa ci dice la scienza sui ricordi falsi e repressi), i ricercatori che si occupano di memoria hanno trovato percentuali di falsi ricordi che variano molto, oscillando tra lo 0 e il 70 per cento e tra il 15, il 30 e il 46 per cento. Percentuali però che gli autori di questa revisione hanno ricondotto al 30 per cento. 
Il fatto è che in laboratorio è abbastanza facile stimolare il ricordo di qualcosa che non è mai accaduto, specialmente se si tratta di qualcosa di negativo, come essere stati morsi da un cane, essersi resi responsabili di un furto o essere stati ospedalizzati. Allo stesso tempo però la revisione sottolinea come, riguardo alle memorie rimosse, esista un voluminoso corpus di ricerche che sostiene come gli eventi autobiografici negativi e violenti, soprattutto se ripetuti, siano generalmente ben ricordati, e quindi affidabili. 
Pare che anche sognare sia un comportamento coinvolto nella formazione delle memorie. I sogni sarebbero uno degli strumenti utilizzati per immagazzinare e stabilizzare ciò che si è appreso o vissuto; per questo, sembrerebbe, le esperienze quotidiane vengono sognate con un ritardo di qualche giorno rispetto a quando avvengono: perché consolidarle e infine depositarle richiede tempo. Il sogno, dunque, parrebbe essere uno strumento utile a rievocare i ricordi così da renderli malleabili, così da poterli integrare nella rete di conoscenze preesistente, cioè in quella che diverrà memoria a lungo termine. Probabilmente è per questo che anche le specie non umane sognano, perché anche loro hanno ricordi e conoscenze da dover immagazzinare. In fondo, ricordarsi che gli animali particolarmente colorati sono spesso velenosi, che quelli con certe forme sono pericolosi o avere bene a mente i luoghi in cui si trovano sorgenti d’acqua perenni, sono conoscenze utili a molti viventi.


Non è affatto scontato come si riescano a depositare le nuove conoscenze mantenendo quelle che già si possiedono, una questione che, come ricordano due neuroscienziati tedeschi, Björn Rasch e Jan Born, in un articolo intitolato “About sleep’s role in memory”, ha preso il nome di “stability-plasticity dilemma”. Troppa plasticità cerebrale immagazzinerebbe tutte le novità lasciando andare le informazioni già acquisite, mentre troppa stabilità tutelerebbe ciò che si possiede impedendo però nuove acquisizioni. L’ipotesi, comunque, è che esista una sorta di apprendimento rapido in grado di garantire in maniera molto efficiente l’acquisizione di nuovi ricordi che però sarebbero molto vulnerabili alle interferenze. E solo con lo scorrere del tempo verrebbero gradualmente integrati nella memoria a lungo termine senza sovrascrivere i ricordi più vecchi. L’ipotesi, dunque, è che proprio grazie alla riattivazione ripetuta dei ricordi durante il sonno, la memoria a lungo termine venga allenata e i nuovi ricordi gradualmente rafforzati e adattati a quelli a lungo termine preesistenti.
Esagerando un po’ si potrebbe dire che la memoria è “uno specchio che mente spudoratamente” soprattutto secondo la prospettiva costruttivista della mente, cioè secondo un approccio che vede la creazione dell’esperienza personale (memoria compresa) non come un fedele rispecchiamento della realtà, ma come un processo nel quale entrano in gioco desideri, credenze e prospettive personali che contribuiscono a modellarla. Tutto ciò che possiamo percepire, infatti, può essere immaginato come una stanza piena di scatole – che ipotizziamo essere i ricordi – che vengono ordinate e impilate secondo canoni propri. Questo perché si costruisce sempre su qualcosa di preesistente; che sia l’eredità genetica, le aspettative personali o lo stile della propria famiglia nell’affrontare le situazioni, rendendo dunque anche la memoria un costrutto molto soggettivo. Per questo se due diverse persone vivono la stessa giornata costellata da stimoli identici si ricorderanno comunque cose differenti. Ad esempio, se mentre stavano ammirando un importante monumento una delle due era affamata, c’è la possibilità che in futuro, quando richiamerà alla memoria quel momento, insieme ai circuiti visivi necessari per crearne l’immagine mentale, si riattiveranno anche quelli della fame. 
Null’altro che apprendimento associativo a livello neuronale. Incredibile, no? Soprattutto molto utile.
Sebbene da quanto si sia detto fino ad ora parrebbe che la prospettiva personale, la soggettività dell’esperienza rischi di alzare barriere di incomprensione tra una persona e l’altra, non è affatto così, almeno non lo è in maniera tale da rendere le esperienze incomunicabili e non condivisibili.
Del resto, leggenda vuole che Federico II, lo “stupor mundi”, volesse sapere se il linguaggio nelle persone si presentasse in maniera appresa o meno. Per rispondere a questa domanda diede ordine di crescere dei bambini senza parlar loro. Il fatto che si narri che i fanciulli non siano arrivati all’età adulta ci parla della nostra necessità di relazioni. Necessità che di certo è accompagnata da comportamenti appresi e circuiti neuronali specifici per riuscire a comunicare, trasmettere e intuire il proprio vissuto e quello altrui.

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