Il concerto, 1626. Hendrick ter Brugghen (Wikimedia commons)  

Dall'Olanda all'Italia

Ter Brugghen, il giovane che vide Caravaggio

Maurizio Crippa

I misteriosi anni italiani del grande pittore olandese,  folgorato dal genio di Merisi. La mostra alle Gallerie Estensi di Modena

E’ molto affascinante provare a immaginare il primo sguardo, la prima impressione, negli occhi di un adolescente olandese del Seicento – anche se a diciassette anni nel Diciassettesimo secolo si era uomini fatti – appena varcate le Alpi. La scoperta dei colori tenui e nebbiosi del digradante paesaggio lombardo negli occhi di un giovane pittore ancora in cerca della sua luce, e così abituato alla luce del bel cielo basso del nord, così bello quando è bello. Scoprire l’aria appiccicosa della pianura, i dirupi selvatici dell’Appennino e poi, finalmente, l’esplosione di forma, di colori, di luce, di chiari e di scuri di Roma. Roma che era la capitale mondiale dell’arte.

 

L’arte, a Roma, un pittore che aveva più o meno il doppio dei suoi anni, sanguigno e geniale, la stava rivoluzionando: suscitando lo stupore di principi, cardinali, collezionisti e persino del popolino (fu gran clamore attorno alla Madonna dei pellegrini). La Roma in cui Caravaggio stava cambiando la storia dell’arte. E’ questa la cosa più affascinante da immaginare, dentro agli occhi di Hendrick ter Brugghen. Così si chiamava quel giovane giunto da Utrecht. Conobbe davvero Caravaggio? I due si incontrarono nel breve giro d’anni, all’inizio del Seicento, in cui è documentata la presenza di entrambi nella città del Papa? Non è dato sapere, anche se è probabile. Del resto, della vita e dell’intero passaggio italiano di colui che era destinato a diventare, tornato in patria, una delle glorie della pittura olandese davvero poco si conosce. Mistero affascinante. Così come è affascinante scoprire il percorso giovanile, sulle orme e sotto l’influsso di Caravaggio, di questo grande artista poco noto da noi e di cui finora era stato trascurato proprio il cruciale periodo italiano, che invece oggi ci colpisce come una novità.

 

Alcune opere esposte alle Gallerie Estensi di Modena, nella mostra “Ter Brugghen. Dall’Olanda all’Italia sulle orme di Caravaggio” sono il ricordo diretto del genio di Merisi, come la  Vocazione di Matteo (1620) conservata a Le Havre e la Cena in Emmaus  (1614) del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Altre sono potentemente caravaggesche come il San Giovanni Evangelista (1614) che sembra un ragazzo di borgata dei Musei reali di Torino o il drammatico Pilato si lava le mani (1615-20) del Museo Nazionale di Lublino. Le pennellate potenti, urgenti, continue, materiche come rughe sui volti e sui corpi, l’uso delle luci, la composizione concitata sono anche un impeto della gioventù artistica, racconta il curatore, lo storico e critico Gianni Papi: “Negli anni successivi lui e gli altri della ‘schola’ di Caravaggio si faranno più composti, levigati, smaltati”. Non fu solo lui infatti a essere sedotto, e mai più abbandonato, nel giro di quei pochi anni romani, dal genio romano che portava un soprannome così lombardo. Da Utrecht a Roma erano arrivati, quasi coetanei, Gerrit  van Honthorst, noto da noi con la poetica traslitterazione di Gherardo delle Notti, e Dirck van Baburen, destinati con lui a passare alla storia dell’arte come “i caravaggisti di Utrecht” che irradiarono nel nord Europa quel modo “naturalistico”, ma secondo il gusto fiammingo, del potente italiano. 

Bisogna per un attimo immaginare cosa fossero, quell’Europa e quella Roma. Un’Europa in cui le persone, le merci e anche l’arte viaggiavano senza sosta, incuranti persino delle guerre. Accanto ai “mercanti di strada” e alle loro confraternite, una transnazionale “repubblica dei mercanti”, è sempre esistita una “repubblica degli artisti” la cui mobilità, i cui gusti e interessi prensili, aperti alle novità, hanno creato una koiné molto più estesa di quanto immaginiamo. Scavalcando persino le guerre di religione. I Paesi Bassi che Hendrick e i suoi futuri sodali attraversano sono quelli della infinita Guerra degli ottant’anni in cui le province fiamminghe tentavano di liberarsi dal giogo della cattolicissima Spagna. Utrecht era rimasta, per qualche accidente della storia, su un confine religioso. I cattolici seppure angariati avevano resistito, il Papa aveva fatto di Utrecht e di Haarlem i suoi baluardi, ben presto arrivarono in Olanda i gesuiti, come in una terra da evangelizzare. Che da quella città giovani artisti convergessero nella capitale della cattolicità, e si facessero affascinare da una nuova maniera capace di vivificare gli episodi della storia sacra, non è così sorprendente. Non lo fu neanche per il nostro giovane artista, di certo non partito alla ventura.  Suo padre, Jan Egberts ter Brugghen, si era trasferito a Utrecht e aveva salito i gradini della carriera fino a diventare segretario presso la Corte di Utrecht e poi balivo del Consiglio provinciale d’Olanda all’Aia. Hendrick aveva già avuto la sua iniziazione in bottega a Utrecht e quando partì per l’Italia, nel 1605 probabilmente, non era un pivello. Una annotazione in un “registro d’anime”, un censimento parrocchiale a Roma,  un’attestazione nei documenti del marchese Vincenzo Giustiniani, collezionista di Caravaggio e di tutti i pittori fiamminghi e caravaggeschi che giungevano per lavorare a Roma, e una sua dichiarazione in tribunale del 1615 in cui afferma di avere lavorato Milano nel 1614 sono i pochi indizi. Di più i documenti non dicono, ma si sa che il nostro eroe tornò a Utrecht per divenire uno dei maggiori pittori del suo paese – a Roma aveva conosciuto Rubens che vent’anni dopo parlerà di lui come del più grande pittore olandese – e morirvi ancor giovane, a 41 anni, forse di peste. Ma questa è un’altra storia, che verrà dopo.

 

La nostra inizia ai primi del Seicento, a Roma, e il suo filo conduttore è la scoperta di un grande artista inspiegabilmente rimasto nascosto finora. Il filo conduttore di questa affascinante riscoperta lo dipana Gianni Papi, tra i maggiori studiosi di Caravaggio e dell’ambiente caravaggesco, che ha curato volumi e mostre su Cecco del Caravaggio, Jusepe de Ribera “lo Spagnoletto”, il grande pittore del Seicento ticinese Giovanni Serodine e altro ancora. E che alla soluzione del “mistero Ter Brugghen” si dedica da vent’anni. La bella mostra, curata con Federico Fischetti, è la risposta. Come ha detto Vittorio Sgarbi alla presentazione modenese: “E’ una cosa straordinaria poter andare a una mostra e scoprire cose nuove, imparare”. Spiega Papi: “E’ una mostra pionieristica, mi sono dovuto affidare soprattutto ai contenuti linguistici delle opere, ai dati stilistici”, per poter collocare il nostro illustre “poco conosciuto” nella schiera di questi artisti che sapevano “dipingere con avere gli oggetti naturali davanti”, come li definiva il marchese Giustiniani, cioè con quel naturalismo che è il primo gran portato dell’arte di Caravaggio. Papi, in un meticoloso lavoro durato anni, ha ricostruito il corpus italiano, una decina di opere sicure del giovane artista, a partire dalla potente, drammatica grande tela della Negazione di san Pietro che era appartenuta appunto a Giustiniani e oggi è conservata alla collezione Spier di Londra. Nei suoi studi, Papi ha potuto ricostruire genesi e collocazione dei dipinti di Ter Brugghen, così che ora per la prima volta possono essere ammirati uno accanto all’altro, tra cui l’Adorazione dei pastori della collezione Spier. E inoltre, il raffronto con alcune opere della maturità, dopo il ritorno a Utrecht; ma anche i suoi sodali di Utrecht e con José Ribera, altro grande caravaggista spagnolo, a dimostrae come l’impatto vitale con Caravaggio abbia poi informato molti luoghi dell’arte europea. e infine poi il confronto serrato con un altro grande interprete del “naturalismo” di quegli anni, Serodine, con cui non per caso Ter Brugghen è stato spesso scambiato.

E qui è il momento di svelare quale sia stato lo spunto di questa mostra, e perché proprio a Modena. Tutto nasce dall’intuizione e dal lavoro dell’altro curatore, Federico Fischetti, che alle Gallerie Estensi si occupa delle arti figurative del Sei e Settecento. E a Modena c’è un quadro, quello che oggi apre la mostra il Santo scrivente (1614). Il volto intensissimo di un uomo non giovane, con la barba, chino sul libro. Questo quadro è a Modena perché faceva parte della strabiliante collezione di Francesco I d’Este, che lo riteneva opera inestimabile, attribuita alla mano di Caravaggio. Poi il quadro rimase dimenticato e per questo si salvò dalla dispersione che le grandi collezioni d’Este hanno subito. Fino a poco tempo fa, è stato attribuito appunto a Serodine. Finché l’intuizione e gli studi di Fischetti, corroborati da quelli di Papi, hanno cambiato le carte. E allora, col sostegno della direttrice Martina Bagnoli, che con questa mostra raffinata chiude il suo incarico a Modena, è nata questa mostra che vale una scoperta, così diversa per intenti dalle tante mostre blockbuster. E che regala emozioni, come quell’intenso Ritratto di  giovane sconosciuto, che sprigiona gravità e potenza e che sarebbe bello, ma non c’è prova, che sia un autoritratto.

 

E’ anche un’occasione per capire che la storia dell’arte è in tutto e per tutto storia dell’Italia. Illuminati da Caravaggio, i suoi ammiratori lo hanno seguito nel suo nomadismo nel sud, da Napoli fino a Messina, lo hanno amplificato e ne hanno portato il verbo nel nord Europa. Ma Papi ci fa scoprire un’altro dettaglio, inseguendo gli indizi di questo misterioso e ricco soggiorno. Il giovane Hendrick tornò a un certo punto a Utrecht, e sulla strada dovette passare per forza per Milano. Ma non fu una tappa tecnica, come si è a lungo pensato. Alcune sue opere sono state infatti dipinte a Milano, non a caso due erano state conservate alla Certosa di Pavia. Milano ricca capitale dell’arte controriformista; Milano la città natale, in cui però Caravaggio non ha lasciato tracce. Sarà invece quel giovane e talentoso olandese, che ha negli occhi la luce di Merisi, a riportare a Milano l’arte del suo ispiratore. Si ferma mesi, forse un anno. Riceve commissioni, lavora. Incredibilmente, addirittura a quattro mani con Giulio Cesare Procaccini, star affermata nella terra della Controriforma di Carlo e del cugino collezionista Federigo, ma di certo il meno caravaggesco dei pittori. E invece in mostra ci sono opere, come il San Giovanni, realizzate in un lavoro a quattro mani. Il vecchio classicista lombardo e il giovane caravaggista olandese. Vittorio Sgarbi ne è affascinato: “Trovo davvero incredibil, stupendo  che un caravaggesco abbia riportato Caravaggio nella sua città, e per mano di un anti caravaggeco”. Un occasione affascinante, per usare un gioco di quelli che piacciono a Sgarbi, “per scoprire un Ter Brugghen con le rughe prima che diventasse liscio”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"