Torna in libreria “Rue des Maléfices” di Yonnet. Il buio di Parigi

Giuseppe Marcenaro

Nei bassifondi della Ville Lumière, uno dei libri più belli mai scritti sulla capitale francese. Una corte dei miracoli a due passi da Notre-Dame, cartolina a grandezza naturale dipinta da un Bosch novecentesco

Un viaggio in metrò verso Montreuil è come un tour nei tubi del cesso. Ogni fermata è l’ondata di uno sciacquone che scarica canaglierie di ceffi. Dalla stazione Nation a quella di Buzenval, sul vagone sotterraneo sale un autentico sciame di scarmi con teste rapate e catene ai fianchi. Un trucido butterato, come avesse preso una fucilata di pallini in faccia, scruta una tipa d’età indefinibile dai capelli sciolti e labbra viola. Occhi sbarrati, cerchiati di indaco come l’ultimo incubo di Otto Dix. Il vaioloso la punta scodinzolando la catena che gli pende al fianco sul pacco che gonfia la sua braga di pelle. Promette mercanzia. Fin quando la combriccola sua lo trascina via alla prima fermata, Buzenval, dove monta una tanfata di nera umanità. Sguardi marcati da sordidi recrimini contro la sorte che li ha scodellati nella parte sfigata dell’esistente. Da lì tracima una scalcagnata con una gabbia per criceti, recata con cura e maestria protettiva, a evitare che qualche monellaccio non disturbi l’animaletto che custodisce. Trova posto a sedere, accomodandosi compunta tale una signorina inglese d’antan. La gabbia delicatamente in grembo come fosse uno Yokshire terrier infiocchettato. Nella gabbia sta una pantegana color antracite la cui coda spellata, come un ago, spenzola tra le sbarre della gabbia e scende sulle gambe della gentilissima custode che, di tratto in tratto, vezzeggia il topaccio. Lei gorgheggia col rosicante, come fosse il più simpatico criceto del mondo. Nessuno le fa caso. Su questa linea del metrò tutto c’est normal. Alla fermata di Maraichers altra imbarcata di alieni. Infilando la mano nella gabbia, con assoluta noncuranza del mondo, la padroncina offre al suo animaletto pezzi di pane. Fanno colazione insieme. Lei smozzica la baguette. Il topo rosicchia. Il treno arriva alla Port de Montreuil. Fine corsa.

  

Scendere dal metrò equivale a tuffarsi nelle gallerie delle miniere di Marcinelle e sciamare tra le comparse in “Metropolis” di Fritz Lang. Poi, sbucando dal dedalo sotterraneo, finalmente la luce. Una giornata di sole. Ma la visione e la truzzeria del mondo non cambia. La gente, carbonata, è senza colori. La topara si è perduta tra la folla. Il mercato di Montreuil delira. Al limitare di un marciapiedi un arabo scrofoloso chiama tutti. Offre tuberi bitorzoluti in mostra su un fazzoletto blu notte steso per terra. Più avanti megere scarmigliate berciano con bocche sdentate. Reclamizzano calze e mutande usate, due tegami con il bordo spesso d’unto, nero. Dietro un quasi impenetrabile crocchio di schiene un esile banchetto espone fotografie d’antan. Sono il controtipo del mondo seppellito. Fotografie che neppure l’orrida e sconcertante fantasia di Diane Arbus con i suoi soggetti sciancati, decorati di grucce e arti artificiali, avrebbe potuto immaginare. Le fotografie sono lo scarto documentale della risacca del mondo, il top del vintage di Montreuil.

 

Sono queste immagini, quelle di uno dei tanti universi paralleli contemporanei che, con terrificante meraviglia, si sovrappongono nella mente a tante analoghe suscitate dalle pagine del libro-mondo di Jacques Yonnet, “Rue des Maléfices. Chronique secrète d’une ville” (ed. Edt, 330 pp., 23 euro).

 

Yonnet, uomo di un solo libro. Fortuna che per palcoscenico la sorte gli avesse riservato Parigi. Ma non la Ville Lumière. Un’altra Parigi. Il quartiere superanimato della rue Mouffetard, sulla rive gauche. Un universo parallelo. Yonnet ritrovò qui i suoni di quell’argot estintosi nei bassifondi di un fin de siècle. Quale secolo? Ottocento? Novecento? Un altro? Comunque extra.

 

Ai suoi tempi, gli anni Cinquanta del Novecento, Yonnet fu considerato una delle più brillanti meteore della letteratura. Apprezzato da Queneau, Audiberti, Prévert, Béalu… Gente dagli occhi esterrefatti, capaci di stellari indifferenze, vocati a mettersi fuori dello spazio e del tempo. Come Yonnet, troppo indifferente per dedicarsi a una “carriera” letteraria. Eppure, con quell’unico suo “Rue des Maléfices. Chronique secrète d’una ville”, aggiunse al mondo uno dei più bei libri su Parigi di tutti i tempi. In realtà fu autore di qualcosa d’altro: cinque pièces per il teatro dei burattini. Cinque poesie. Stop. Era nato nel 1915 e non apprezzava il lavoro. Neppure quello del poeta. Si dice che la sua famiglia immaginasse per lui, dopo buoni studi, una vita tranquilla, l’esistenza di un notaio. Divenne invece un ispirato della conversazione. Amava inabissarsi negli interstizi della vita. Si trasfigurò in un clandestino. Trovò la sua autentica tranche de vie durante l’occupazione nazista della capitale francese, quando entrò nella resistenza in quel 5ème arrondissement, dove, come per un miracolistico contronatura, sopravvivevano dimenticati dal mondo gli emarginati della terra. Scoprì il fondo dei fondi, una giungla, una corte dei miracoli a due passi da Notre-Dame dove ancora stavano, alieni di una strana modernità, i “sopravissuti” dai tempo di François Villon. Erano i clochards, gli straccivendoli, i guaritori, gli osti, gli zingari… Esistenze che condividevano credenze, superstizioni e magie. Tutto il sapere leggendario ereditato dalla storia degli uomini. Gente che passava il tempo odiandosi e amandosi, sputacchiandosi l’un l’altro addosso sciabolate di perfidie e malocchio, piantando spilloni su bambole dotate di poteri inquietanti.

 

Durante l’occupazione di Parigi, il resistente Yonnet, tra un sabotaggio e un’imboscata ai crucchi, dopo le “azioni”, si “riparava” nascondendosi in quell’oblio di maghi, di grandi griot che in trance “cantavano” le gesta dei cavalieri antiqui dell’occulto, dei sovrani straccioni, delle Dulcinee sbilenche, reginette del sotterraneo “delirio” della Mouffe: universo di bettole, anditi, angoli bui, passaggi sotterranei, affollati da sciancate diversità. Il trionfo del deforme, dell’ammirabile, del freak.

 

Sia che lo vivesse, sia che lo abbia immaginato, Yonnet “inventa” il suo viaggio tra le quinte di un mondo altro. Si affonda, malsicuri, nei pavées scivolosi, negli afrori di straccio bagnato. Con soprassalti si scantona nel buio: lì dietro aspetta la sua preda un assassino… Compagni di strada soltanto sghimbesci. Una cartolina a grandezza naturale dipinta da un novecentesco Hieronymus Bosch, ebbro e stralunato.

 

Yonnet, l’antiscrittore per eccellenza. Erudito al punto giusto per aver “esplorato” i classici repertori di “storia locale”, quelli delle antiche memorie nelle carte della Bibliothéque de l’Arsenal, raschiate da ricercatori trafitti dall’acribia per avvenimenti minuti. Modelli cui Yonnet deve aver tratto qualche “scena”: “Paris anecdote” di Privat d’Anglemont; “Odeurs de Paris” di Louis Veuillot; “Coins de Paris” di Georges Cain; “Paris, ses organes, ses fonctions et sa vie”, l’impropria “enciclopedia” di Parigi di Maxime Du Camp; per arrivare al frivolissimo erudito Octave Uzanne e al suo “Bouquinistes et bouquineurs: physiologie des quais de Paris”… Opere di curioso e vivace intrattenimento, raccolte di figurine cui manca l’anima. Quella che invece esibisce Yonnet, dopo averla trovata nell’animatissimo e sotterraneo mondo della rue Mouffetard, nella straparigina rive gauche. Il nome della strada esisteva già nel 1239. Nella “Guide historique des rues de Paris”, in rue Mouffetard, tali a reperti archeologici, vengono indicati una macelleria con insegna del XVIII secolo, la fontana del Pont-de-Fer del 1671, una casa con insegna “Au vieux Chêne”, altre con il blasone “Au Rémouleur” e “A la bonne Sourse”.

 

In “Rue des Maléfices, romanzo-saggio-evocazione-narrazione di vita selvaggia, “costruito” con un fervido stile, lingua coniugata all’angoloso argot dei bassifondi, Yonnet compie il “viaggio al centro della terra” guidato da eccezionali Virgilio, personaggi mitici, reali o immaginati: Cyril, il mastro orologiaio che si vagheggia, come un dottor Coppelio, conosca la maniera di fermare il tempo. Il tempo lavora per chi sa mettersi fuori del tempo. “Le lancette ruotano alternativamente a destra e a sinistra, io invecchio e ringiovanisco un giorno sì e uno no… Quel chioschetto fatto di assi di legno verde è la bottega (nemmeno tre metri quadrati) di Cyril, il mastro orologiaio. Nato a Kiev Dio sa quando… Mamma Geogette, la lavandaia, una delle veterane della Maube, che aveva conosciuto il Château-Rouge e père Lunette, e aveva visto lo scavo di rue Lagrande, nel 1938 mi aveva detto: ‘Formidabile che l’è quel tipo! L’è aggiustaio di pendole e trafficone di cipolle d’occasione. Mai una voce su di lui. Di tanto in tanto si cambia d’identità. Dice che ne ha diritto. E’ già la quattordicesima squinzia che si fa. Ha messo sottoterra più di metà delle altre. Tutte con la stessa faccetta. Vall’a capire’”.

 

A Cyril piacevano le storie. Gli mettevano allegria. “Bevemmo – racconta Yonnet – parecchio e diventammo compari… Andavamo a mangiare Chez Pignol, una bettola minuscola e zeppa di gente… Lì si mangia a serranda abbassata”.

 

Cyril è uno dei veritable fantasmi di Yonnot, come Minna la Chatte e Renard Goupil, che vivono per salvare animali e poi, inavvertitamente sfuggiti alla loro attenzione, vengono uccisi dal malvagio Renard… Come il Dormeur du Pont-au-Double, un vecchio paralizzato che cura gli altrui malanni “dormendoci sopra”, pensando cioè intensamente, durante il sonno, alla guarigione dell’afflitto. Yonnet medesimo garantisce l’esito della cura per averla sperimentata… Il Vecchio del dopo Mezzanotte appare nelle gargottes, evocatosi chissà da dove, e dopo aver “predicato” fondamentali e illuminanti oracoli svanisce nel nulla. Yonnet – anche talentuoso disegnatore – sostiene d’aver ritratto una sera il Vecchio dei responsi. Al mattino successivo il disegno era svanito… E poi Poloche, pescatore di gamberi d’acqua dolce “per il quale gli annegati nella Senna rappresentano un autentico tesoro”. Per raccontare la propria inadattabilità al mondo, Poloche “costringe” il “narratore”, Yonnet, a tracannare un muscadet alla Bouteille d’Or.

 

“E chi si ricordava più il Vecchio Pastore, che l’ultimo inverno si era portato via?”. Ottantaquattro anni, alto, con la barba, dritto come un albero. “Aveva saputo leggere ma non se lo ricordava più: a che gli sarebbe servito? Invece conosceva i nomi di centinaia di stelle, che indicava senza sbagliarsi mai. Le tappe della sua esistenza erano scandite dalla scomparsa dei suoi cani. Diventato rigattiere, portava con sé la serena tranquillità dei patriarchi”.

 

Quelli di “Rue des Maléfices”, quasi tutti monchi, guerci, sciancati e storpi, che zoppiccando nei sogni marciano nella vita, sono una corte dei miracoli, parente stretta di una cronaca medioevale andata fuori registro. Il tempo lavora per chi sa mettersi fuori del tempo. E’ gente cui “manca del tutto il rispetto per la Morte in sé, come manca la deferenza dovuta alla cosa morta. Si tengono lontani da un moribondo ed evitano con cura il contatto e addirittura la prossimità con un defunto ‘troppo fresco’, cioè deceduto da meno di ventiquattr’ore… Uno di loro, un orientale nato a Mosul mi spiegò le pratiche cui era dedita una certa setta del suo paese, per sapere se un morto potrà unirsi alla sfera degli eletti…”. E poi… anche Maurice, soi-disant figlio naturale di un re, di cui si ricorda soltanto un meraviglioso tatuaggio sul petto, opera di Toulouse-Lautrec… E Craquette, la sua compagna, che passava la notte a sedurre gli ubriachi.

 

La scrittura di Yonnet è un introibo “alle misteriose correnti che fanno palpitare la città nelle vene più segrete”, che spirano nei medesimi luoghi dai secoli dei secoli. Dove le leggende si stratificano negli ambagi più reconditi, dove la folla degli esclusi si riconosce e le ombre si materializzano al Vieux Chêne, ai Trois Mailletz e alle Quatre Fesses, locanda gestita da due anziane signorine in carne, con ampi deretani: quattro fesses, quattro chiappe…

 

In questo perfetto hellzapoppin, che attraversa il tempo e lo spazio, dalla Guerra dei cent’anni alla Paris du Grand Siècle, Yonnet “ferma” l’azione al suo presente, alla città occupata dai nazisti, dove anche gli inermi, nell’orrore che domina i giorni, sono indotti agli atti più scellerati. Lui medesimo, con calma ragionieresca, racconta come abbia ucciso un informatore della Gestapo. Lo ha fatto in pezzi, disperdendoli poi in vari cantoni della città: “La testa decollata, pensosa, con un occhio socchiuso, mi osservava mentre mi occupavo del resto. L’avevo messa su un piatto di rame comprato a Bicètre. Il tronco, che gonfia un po’ la valigia, è al deposito bagagli di Montparnasse. Il bacino e le gambe stanno ad Austerlitz…”. La tragedia muta in pochade. L’uomo non sa più darsi ragione di se stesso.

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