Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre negli anni Sessanta. Vivevano in un hotel di poco prezzo dalle parti di Saint-Germain. Tutti i giorni erano al caffè (foto Archivio LaPresse)

L'essere e il bar

Giuseppe Marcenaro
Tutto era iniziato nel 1930 con un cocktail all’albicocca per tre: Aron, Sartre e De Beauvoir. L’esistenzialismo al tempo della Rive Gauche. Uno stile di vita, una moda: era esistenzialista chiunque praticasse l’amore libero e facesse le ore piccole nelle caves.

Per oltre vent’anni fecero rumore. Erano degli individualisti, per vocazione naturale contro ogni opinione comune. Irriducibili nel far sentire gli altri a disagio. La Rive Gauche a Parigi il loro palcoscenico. Superbi mattatori recitavano in uno scenario di vecchie case e vecchie strade dove vivevano, scrivevano, polemizzavano, diffondendo un “sistema esistenziale” libero: l’invenzione del quotidiano. Anche chi non si sognava e non era in grado di partecipare al dibattito culturale predicato dagli intellettuali engagée, divenne un adepto per imitazione. Il fascino esercitato dall’esistenzialismo sui giovani e sugli inquieti propose uno stile di vita, una moda.

 

Era esistenzialista chiunque praticasse l’amore libero e facesse le ore piccole nelle caves al suono incessante di orchestrine jazz. Esistenzialista chi si infrattava ad ascoltare l’étoile dei club, il trombettista e scrittore Boris Vian che, scandalizzando entusiasmò con il suo romanzo “J’irai cracher sur vos tombes”. Sprofondati in una chiacchiera senza fine, concionavano tutti di autenticità, magari nell’angolo più oscuro di un locale dove, tra cortine di fumo Gauloises e papier mais, si diffondeva la voce roca di Juliette Gréco. Nell’abbigliamento avrebbero inventato uno stile protopunk. Indossavano camicie e impermeabili di scarto. Poi decisero per il più iconico degli indumenti: il dolcevita nero. Tipi che per essere à la page si imponevano forzata libertà.

 

Si presentavano all’ingresso d’uno dei locali geodetici, il “Tabou”, ed erano ammessi, chiunque fossero, “se dall’aspetto erano interessanti e se avevano un libro sottobraccio”. Libri “obbligatoriamente” di Raymond Queneau, Maurice Merleau-Ponty, Jean-Paul Sartre, Albert Camus, che, autori di culto, per caffè e bar, si mischiavano ai loro lettori. Gabriel Marcel arrivava scandalizzato: “Ho inteso una signora che diceva: ‘Che orrore l’esistenzialismo! Ho un amico il cui figlio è un esistenzialisata: vive in una cucina con una negra!’”. Gli strepiti di quel mondo occupavano la scena mondiale. Riuscivano a farsi sentire ovunque. Tutto ciò che proveniva dal quartiere parigino di Saint-Germain-de-Prés feceva notizia.

 

Il mondo d’allora, diciamo soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale e poco oltre, il mondo delle lettere e della cultura, anche della politica, era curioso e voleva essere al corrente di ciò che si diceva e faceva a Parigi. Fu quella l’era dell’ascesa degli intellettuali engagée. I più intraprendenti, ostinati a resistere, dissipatasi la ventata del grande dibattito pubblico fatto di assemblee infuocate, libri, spettacoli, performance e piazzate, si contrassero via via nei confini del loro paese, occupandosi di questioni nazionali come la guerra d’Algeria, il regime di De Gaulle, confondendosi infine nel maggio del ’68. Il mondo degli intellettuali della Rive Gauche, dopo tanto rumore, si dissolse in un Pernod. T

 

utto era comiciato con un cocktail all’albicocca, al caffè Bec-de-Gaz, in rue de Montparnasse, attorno a un tavolino dove stavano tre giovani chiacchieroni: Jean-Paul Sartre, Raymond Aron e Simone de Beauvoir. Era l’inverno del 1930. Nessuno sapeva chi fossero. Un giorno, la ragazza, Simone, allora venticinquenne, da sempre incline a guardare il mondo con sufficienza, rievocando il “loro tempo”, avrebbe definito “mandarini” gli engagée attorno ai quali, negli anni centrali del Novecento, si era sviluppato, filosofico-politico-letterario, il movimento degli esistenzialisti. Dopo il chiasso, gli scandali, le leggende cui avevano dato luogo nel loro quartier generale a Saint-Germain-des-Prés, dove si erano insediati.

 

La “nuova generazione” era cresciuta nel clima del diffuso prestigio di intellettuali come André Malraux, che nel 1933, stranoto, avrebbe ricevuto il Prix Goncourt per il suo libro “La condition humaine”; o come André Gide, che riceveva nella sua casa in rue Venau; Céline, in orgoglioso isolamento, stava scrivendo un’esplorazione cupa e nichilista della natura umana e delle sue miserie quotidiane, “Voyage au bout de la nuit”. Pubblicato nel 1932, avrebbe dato vita a un nuovo stile letterario modernizzatore della letteratura francese ed europea. Sembrerebbe che per produrre “un segno” letterario destinato a durare occorra essere dei solitari. Marginali come lo erano stati Sartre quando scrisse “La nausée” o Camus al tempo de “L’étranger”. Poi, storia nota.

 

Nei giorni dei cocktail all’albicocca, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, ancora sconosciuti, insegnavano nella provincia francese: lui a Le Havre, lei a Rouen. Aron, compagno di scuola di Sartre, con cui aveva condiviso i corsi all’Ecole normale superieure, studiava a Berlino. Erano tutti e tre a Parigi per le vacanze invernali. Al Bec-de-Gaz Aron metteva al corrente i due amici di aver “scoperto” in Germania una “nuova filosofia”. Veniva definita fenomenologia, “una parola dall’equilibrio elegante che, da sola, in francese come in inglese, può costituire il verso di un trimetro giambico”, come la definisce Sarah Bakewell nel suo “Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, essere e cocktail” (trad. Michele Zurlo, Fazi, 416 pp., 20 euro).

 

“I filosofi tradizionali – diceva Aron – partivano da assiomi astratti o da teorie, i fenomenologi tedeschi vanno diritto alla vita come questa viene esperita, attimo dopo attimo. Hanno abbandonato i rompicapi sulla questione se le cose siano reali o se sia possibile per noi sapere qualcosa di certo su di esse”. Il maggior fenomenologo si chiamava Edmund Husserl “che invita a non perdere tempo con le interpretazioni che si accumulano sulle cose”. Un altro fenomenologo di cui Aron faceva il nome era Martin Heidegger. Sosteneva che nel corso della storia, i filosofi non avessero fatto altro che perdere del gran tempo in concioni secondarie, trascurando la più importante, la questione dell’Essere. “Che cosa significa essere? Occorre ignorare il disordine intellettuale, rivolgere l’attenzione alle cose e lasciare che si rivelino a noi. Vedi, mio piccolo compagno – insisteva Aron con Sartre – se sei un fenomenologo puoi parlare di questo cocktail, ed è filosofia”.

 

Un giorno Simone de Beauvoir evocò quella remota chiacchiera. Sorpreso di non essere al corrente della fenomenologia, Sartre era impallidito. Pretendeva di conoscere tutte le cose del mondo. “Di quanto diceva Aron non ne vedemmo l’interesse perché non ci capimmo niente”. Sartre era sbiancato per la stizza. Si era reso conto che qualcuno era arrivato prima di lui alla definizione di un pensiero che stava perseguendo da tempo. Non dimenticò mai quel momento. Addittura quarant’anni dopo, in un’intervista, confessò come la “rivelazione” di Aron lo avesse “messo al tappeto”. Si era fiondato nella libreria più vicina: “Datemi tutto quello che avete sulla fenomenologia! Subito!”. Aron gli propose di recarsi a Berlino per studiare presso l’Istituto francese “il nuovo fenomeno filosofico”, come aveva fatto lui. L’ala sinistra del nazismo stava per oscurare il loro tempo, ma Sartre voleva cambiare il corso della propria vita. Era stanco dell’insegnamento, annoiato da quanto aveva appreso all’università e soprattutto angosciato di non essere ancora l’autore di genio che fin dall’infanzia si era sentito destinato a diventare.

 

Era convinto che per poter scrivere, romanzi, saggi, qualunque cosa, avrebbe dovuto “vivere delle avventure”: aveva vagheggiato di mischiarsi ai facchini nel porto di Costantinopoli, meditare con i monaci di Monte Athos, vivere con i paria in qualche contrada dell’India, affrontare le tempeste con i pescatori sui banchi di Terranova. E fin a quel momento l’unica avventura era quella in una scuoletta a Le Havre. Quando tornò dalla Germania gli sembrò d’avere capito tutto. Si era trasfigurato nel padre fondatore di una nuova filosofia, coniugando la fenomenologia tedesca con il boulevardier parigino. Aveva “inventato” l’esistenzialismo moderno. La filosofia del cocktail all’albicocca, dell’emozione per un incontro di pugilato, per un film, per una canzone jazz, per l’incrocio di sguardi tra due sconosciuti. Fece filosofia sul voyerismo, sulla vergogna, sul sadismo, sulla rivoluzione, sulla musica e sul sesso. La libertà centro dell’esistenza. La sua idea era inebriante. Quando cominciò a diffondersi, specialmente verso la fine della Seconda guerra mondiale, mutò Sartre in un divo, in un maître à penser.

 

Celebrato, corteggiato, intervistato, fotografato, richiesto di esprimere il suo pensiero su tutto… E Sartre non si tirava mai indietro. Era sempre a mezzo. Non da meno Simone de Beauvoir, la compagna di sempre. Una coppia celebre che faceva del proprio privato una pubblica rappresentazione. Parlavano e scrivevano soltanto di sé. Pubblicavano libri, intervenivano sui giornali. Viaggiavano per promuovere le loro opere, sontuose metafore autobiografiche. Le loro vite modelli da emulare. Una vera e proprio coppia reale dell’esistenzialismo. “Sartre si rese conto per la prima volta di essere diventatato una vedette la sera del 28 ottobre 1945 quando si presentò, invitato dal Club Maintenat, a tenere una conferenza nella Salle des Centraux a Parigi. Avrebbe parlato su ‘L’esistenzialismo è un umanesimo’. La sala fu letteralmente presa d’assalto. La conferenza era a pagamento e in breve si esaurirono i biglietti. Le porte furono aperte alla fiumana. La calca si spintonava. Alcuni scalmanati svennero per il caldo. Il giorno dopo giornali commentarono: “Il filosofo Sartre, donne in estasi”. 

 


Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre (immagine di YouTube)


 

Molti degli intervenuti, in quella specie di assemblea di assatanati, probabilmente non riuscirono neppure a vedere Sartre, la cui statura di appena un metro e mezzo doveva renderlo più intuibile che visibile. Sartre stava traguardando la quarantina, le spalle curve, “le labbra da cernia”, un’aria macilenta, orecchie a sventola, gli occhi guardavano in due direzioni diverse. Predicava: “Non c’è un cammino tracciato per condurre l’uomo alla sua salvezza; egli deve costantemente inventare questo suo cammino. Tuttavia, nell’inventarlo, egli è libero, responsabile, senza alibi, e ogni speranza di esserlo risiede in lui”. Veniva ascoltato in un momento in cui gran parte dell’Europa era in rovina, circolavano le notizie sui campi di sterminio nazisti, le bombe atomiche erano cadute su Hiroshima e Nagasaki. “Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo decidere di vivere”. Sartre offriva una filosofia per i reduci da terribili spaventi. Fu aspramente criticato: “E’ soltanto un miscuglio nauseabondo di pretenziosità filosofica”. Gli attacchi accrebbero il fascino esercitato dall’esistenzialismo sui giovani e sugli inquieti i quali lo resero il proprio stile di vita e un’etichetta alla moda.

 

Avrebbe scritto Simone de Beauvoir in “La forza delle cose”: “Sartre detestava le routine e le gerarchie, le carriere, i focolari, i diritti e i doveri, tutto il serio della vita. Non si adattava all’idea di fare un mestiere, di avere dei colleghi, dei superiori, delle regole da osservare e da imporre; non sarebbe mai diventato un padre di famiglia e nemmeno un uomo sposato… Di me sono state create due immagini. Sono una pazza, una mezza pazza, un’eccentrica… Ho abitudini dissolute; si racconta che nel ’45 a Rouen sono stata vista ballare nuda su delle botti; ho praticato con assiduità tutti i vizi, la mia vita è un continuo carnevale. Con i tacchi bassi, i capelli tirati, somiglio a una patronessa, a un’istitutrice (nel senso peggiorativo che la destra dà a questa parola), a un caposquadra dei boy-scout. Passo la mia esistenza fra i libri o a tavolino, tutto cervello. Nulla impedisce di conciliare i due ritratti. L’essenziale è presentarmi come un’anormale. Il fatto è che sono una scrittrice: una donna scrittrice non è una donna di casa che scrive, ma qualcuno la cui intera esistenza è condizionata dallo scrivere. E’ una vita che ne vale un’altra: che ha i suoi motivi, il suo ordine, i suoi fini che si possono giudicare stravaganti solo se di essa non si capisce niente”.

 

Sartre e la de Beauvoir sguazzavano nella ventata modaiola che avevano prodotto. Vivevano in un hotel di poco prezzo dalle parti di Saint-Germain. Tutti i giorni erano al caffè, dove potevano essere sorpresi mentre scrivevano o discutevano. Al Flore, ai Deux Magots, al Bar Napoleon tenevano banco con amici e colleghi, artisti, scrittori, studenti e amanti: Roger Blin, Marcel Duhamel, Robert Scipion, autore di un romanzo, “Prête-moi ta plume”, scritto nei caffè; Jean Cau, poeta e segretario di Sartre; Jacques Douai, cantante che lanciò la ballata “Les feuilles mortes” di Prévert e Kosma; il “lettrista” Gabriel Pomerand e Bernard Lucas, l’“inventore” del Tabou, che aveva pensato come una cave ammuffita sotto un bar di rue Dauphine potesse adattarsi perfettamente alla nuova filosofia alla moda dell’esistenzialismo dove gli intellettuali della Rive Gauche potessero incontrarsi per celebrare i loro riti con vino, danze, amori… Tutti parlavano contemporaneamente. Sostenevano questa o quella causa.

 

Sfornavano articoli polemici pubblicati su Les Temps Modernes, la rivista che Sartre aveva fondato nel 1945. Se avessero avuto tra le mani un pittore come Fantin-Latour si sarebbero fatti ritrarre come i loro celebrati predecessori in un tableau del tipo “Coin de Table” o “Omaggio a Baudelaire” dove figurano letterati e artisti “consacrati”. Nel 1964, fatto che ebbe risonanaza planetaria, Sartre rifiutò il premio Nobel per la letteratura. Aveva già ricusato la Legion d’onore e la cattedra al Collège de France. “Nessun uomo merita di essere consacrato da vivo”. Lui voleva l’immortalità. Affondava nell’eterna e diffusa autoconsiderazione dell’esprit parigino. Ma a Sartre non bastava.

 

Nella miscela di vita e filosofia si dedicò a chi lo aveva preceduto nella grande avventura creativa. Scrisse le biografie di Baudelaire, Mallarmé, Flaubert. Biografie per “spiegare” il senso delle esperienze altrui coniugate alla propria. Il trionfo del narcisismo che si ciba della vita d’altri. Per quanto possa sembrare curioso, nel vortice delle frequentazioni, Sartre mostrava una strana tendenza alla asocialità, fatto che ha portato a ipotizzare fosse dominato dalla sindrome di Asperger, imparentata con l’autismo. Un disturbo ossessivo-compulsivo attribuito dallo stesso Sartre a Flaubert. Per poi scrivere “Flaubert sono io”.