Gustave Caillebotte, "Rue de Paris; temps de pluie" (foto via Google Art Project)

Vita da flâneuse

Annamaria Guadagni
E’ nato maschio, animale di città, spettatore indolente della folla Un memoir di viaggi ne scopre la declinazione al femminile.

Animale di città, sopravvive solo in habitat artificiali, strade, piazze, reti metropolitane, ama il sole riflesso nelle vetrine, respira smog, osserva la folla che si forma, si scioglie, si ricompone; si immerge nel blu notte con qualche nostalgia per la vecchia luce dei lampioni che allungava le ombre; si muove a piedi senza fretta e il suo passo trasforma lo spazio in un luogo, definisce una topografia personale; può permettersi di guardare non visto e questa eccitante libertà alimenta il suo spirito creativo… Il flâneur, fascinosa figura della modernità borghese, inscritta nel divino triangolo Baudelaire-Poe-Benjamin e da sempre al centro di dispute di significato, è attore e spettatore dello spettacolo urbano.

 

Il prototipo vivente che metto subito a fuoco sullo schermo del mio computer è Orhan Pamuk, colto in compagnia del suo cane per le strade notturne di Istanbul mentre esplora luoghi, cerca storie e oggetti come quelli catalogati nel Museo dell’innocenza, il singolare memorial personalmente allestito in una palazzina color amaranto del quartiere di Çukurcuma. Lì fanno bella mostra mozziconi di sigaretta macchiati di rossetto e infilzati da spilli come farfalle morte, chiavi di forme desuete appese a fili trasparenti, foto di ragazze ritagliate dai giornali al tempo di un impossibile amore, abiti e scarpe come quelli di una commessa di nome Füsun, che sfilò una delle sue decolleté gialle per appoggiare il piede nudo dentro la vetrina del negozio, nell’atto di prendere la borsa destinata alla fidanzata di Kemal. Sappiamo che l’emozione prodotta da quel piede magro e abbronzato, con le unghie laccate di rosso, cambierà per sempre la vita di Kemal… Il romanzo di Orhan Pamuk e il museo omonimo, che accoglie in un trionfo feticista tutti gli oggetti di quella storia, sono la fantastica messa in scena di una flânerie consumata, il monumento malizioso all’innocenza perduta della città e di una generazione.  

 



Orhan Pamuk nel Museo dell’innocenza di istanbul (foto via Masumiyetmuzesi)


 

Molto più difficile è immaginare una flâneuse, che in fondo – dizionario alla mano – potrebbe essere soltanto una poltrona. O un bel rossetto, il rose-flâneuse della collezione di un grande marchio di cosmetici.

 

A riempire di significato una parola vuota, che esiste solo come declinazione femminile di “qui flâne”, prova l’americana Lauren Elkin, autrice di saggi letterari e collaboratrice del Times Literary Supplement e della sezione libri del New York Times. Sua una curiosa gallerie di flâneuse, contenuta in un memoir di viaggi: “Flâneuse. Women Walk the City in Paris, New York, Tokyo, Venice and London”, pubblicato da Chatto & Windus. Dove la ricerca muove da due immagini precise: una silhouette di signora che si accende una sigaretta per strada nel 1929, in uno scatto in bianco e nero di Marianne Breslauer, e George Sand che a metà Ottocento deve travestirsi da ragazzo per uscire e confondersi tra la folla. A Parigi c’è voluto quasi un secolo per forzare l’agibilità dello spazio pubblico e passeggiare fumando, vestite da donna, senza essere considerate prostitute. Una flâneuse sembra subito essere una donna che sta dove non dovrebbe.

 

Troppo facile adesso innamorarsi della Ville Lumière e passare ore a La Rotonde, sul Boulevard di Montparnasse, a guardare chi passa, a immaginarne le storie, a scrivere o semplicemente a pensare, scambiando chiacchiere con occasionali avventori… L’esperienza ora è alla portata di molte giovani donne. Non fu così per le ragazze della bohème – quella vera – come la pittrice russa Marie Bashkirtseff, che raccontò la sua trasformazione da giovane aristocratica ad artista di successo. Morta di tubercolosi a 25 anni, nel 1879 Marie scriveva: “Vorrei molto la libertà di uscire da sola: andare, tornare, sedermi su una panchina dei giardini delle Tuilerie e, soprattutto, andare al Lussemburgo a guardare le vetrine decorate dei negozi, entrare nelle chiese e nei musei, e passeggiare la sera nelle stradine della città vecchia. Questo è quello che invidio. Senza questa libertà non si diventa grandi artisti”.

 

Cresciuta nei sobborghi newyorkesi di Long Island, di origine russa, ebrea a metà, Lauren Elkin arriva a Parigi e si mette in cerca di un’esploratrice urbana del passato, un’altra flâneuse con cui condividere il mondo visto dal tavolo di un caffè. E sceglie un’osservatrice assai diversa dall’ovvio: niente Gertrude Stein, Alice Toklas, Anaïs Nin… No, la sua guida è un’esule del primo Novecento senza radici, senza passato e senza futuro, che di quella bella gente – Hemingway e Miller inclusi – scrisse sarcastica: “Quella non era Parigi, era l’America o l’Inghilterra a Parigi. La vera Parigi non aveva nulla a che fare con quelli. Appena arrivavano i turisti, i veri Montparnos facevano fagotto”.

 

 Ecco allora Jane Rhys, pseudonimo di Ella Gwendolen Rees Williams, nata in Dominica nel 1890 da padre gallese e madre creola, conosciuta come l’autrice del prequel di “Jane Eyre” – “Il grande mare dei sargassi” – che la rese celebre solo nel 1966, già vecchia. Ella arriva a Parigi nel 1919 al seguito del marito, un giornalista olandese che era stato nella Legione straniera e aveva lavorato per l’intelligence. Nella sua vita, tutto era stato fallimentare: la cacciata dal suo esotico paradiso d’infanzia, con la rovina della piantagione paterna nei Caraibi, i freddi inverni oltre Manica nella scuola dove era irrisa per l’accento cantilenante, il mancato ingresso all’accademia d’arte drammatica per la pessima dizione, la vita raminga come ballerina di fila… A Parigi, Ella diventa scrittrice, scrive romanzi e racconti ambientati nei boulevard e nei caffè, trova l’editore e il mentore che la trasforma in Jean Rhys: è Ford Madox Ford, noto flâneur – l’autore di “The Soul of London” – allievo e amico di Joseph Conrad e, nonostante l’aspetto da tricheco e lo sguardo miope, grandissimo dongiovanni: aveva lasciato l’Inghilterra con la sua amante australiana, la pittrice Stella Bowen, per lo scandalo suscitato dalla sua agitata vita sentimentale.

 

Ma perché dovremmo considerare Jane Rhys una flâneuse: per la vita errante e disperata, per aver passato giornate nei caffè, sperando che qualcuno le parlasse e le offrisse da bere, per la relazione con Madox Ford? Lauren Elkin cerca uno sguardo diverso sulla città e trova in lei un altro modo di guardare Parigi. Una visione opposta rispetto a quella padronale di Hemingway, che tutto possiede: i boulevard, le persone, gli oggetti, tutto gli appartiene perché possa disporne nei romanzi. Rhys no: i suoi personaggi non parlano, non vestono, non rispondono in modo giusto, danno troppe informazioni o ne danno troppo poche; la metropoli è il luogo dove si può essere se stessi ma, neppure a Parigi, una donna può sfuggire al giudizio degli altri. Così la città diventa uno specchio: lei vorrebbe essere invisibile, spende tutti i suoi soldi in un cappotto di astrakan per somigliare alle altre, ma davvero non può smettere di vedere la sua inadeguatezza riflessa.

 

Jane Rhys non è la sola a provare questo disagio: come fa una donna a osservare senza essere vista, quando è proprio lei lo spettacolo? Nel rapporto della regista Agnès Varda con Parigi c’è “una vaga paura della grande città e dei suoi pericoli”. Nel suo film del 1961 “Cléo dalle 5 alle 7” – due ore nella vita di una ragazza ye ye che aspetta di sapere se è malata di cancro – questo vago timore si traduce in concreta paura della morte. Alta, bellissima, bionda, camminando per la città Clèo vede scorrere la vita e questa passeggiata le rivela la differenza tra guardare e essere guardati, tra pensare come ci vedono gli altri e avere un punto di vista.  

 

Nel 1930 Virginia Woolf scrive a Ethel Smyth: “Non potrei mantenere il senso di unità e di coerenza e di tutto ciò che in me forma il desiderio di scrivere ‘Gita al faro’ se non fossi continuamente stimolata (…) se non mi immergessi dentro Londra, tra l’ora del tè e quella di cena, camminando, camminando…”. Per Lauren Elkin, Mrs Dalloway, protagonista del romanzo omonimo, è la più grande flâneuse nella letteratura del Novecento, il suo stesso nome non è altro che “who dallies along the way”, qualcuno che indugia per strada. Dunque Londra è tappa obbligata e innegabile l’identificazione di Woolf con la città: se Bloomsbury è un luogo dell’immaginario prima che un quartiere, si deve a lei; il suo nome, con quello di John Maynard Keynes, resta certamente il più citato tra quelli dell’omonimo snobissimo gruppo.

 

Più curioso il passaggio a Venezia, dove Elkin è in cerca dell’ambientazione per un suo racconto e di una veduta personale in un posto ahimé consunto dagli sguardi. Venezia si rivela labirintica, più facile perdercisi che in una metropoli contemporanea; e naturalmente è il museo galleggiante che conosciamo, dove la “vera vita” prevalente è quella del turista. Luogo di avvistamento di personaggi usciti dal cinema, dall’arte, dalla pubblicità, Venezia è un set ideale della finzione vivente, ci si potrebbero incontrare senza stupirsi Paperino e Mickey Mouse seduti insieme a bere una bibita. Vagabondando, Lauren Elkin prende l’aperitivo nel bar vicino a Rialto dove passa abitualmente Toni Negri, si trova a cena accanto al tavolo dove si festeggia il compleanno di RoboCop, l’attore americano Peter Weller appena sceso abbronzatissimo da una gondola, incontra l’artista concettuale Sophie Calle. E proprio lei, l’autrice di “Suite Vénitienne” si rivela la figura iniziatica, la flâneuse vivente.

 

Allieva di Baudrillard a Nanterre (morto il maestro, lei rivelerà senza possibili smentite d’essere stata  aiutata a laurearsi presentando lavori fatti da altri), Sophie Calle è un personaggio del “Leviatano”, il romanzo di Paul Auster: e per capire dove ci troviamo basterà ricordare che ha trasferito nella vita, realizzato e documentato, lo stesso gioco che Auster le fa condurre nella finzione. Dove appare come l’artista che adotta una dieta cromatica, mangiando ogni giorno solo cibi di uno stesso colore: rossi o verdi o gialli; o dove segue le lettere dell’alfabeto: tutto sotto il dominio di b,c, d… Ma Sophie Calle è nota per aver trasformato lo stalking in arte: la “Suite Vénitienne” è l’inseguimento di Henri B. ( e di sua moglie) per far sua (di Sophie) la stessa Venezia, guardando le stesse vetrine, aspettandolo fuori dai ristoranti, entrando negli stessi musei, obbligando il malcapitato ma sempre più intrigato Henri a pensare all’unica ragione ammissibile, se a seguirti è una donna: l’amore. Insomma, siamo al cortocircuito tra un archetipo letterario, l’inseguimento nel meraviglioso racconto di Edgar Allan Poe “L’uomo della folla”, e la topografia emotiva dei Situazionisti, i teorici della flânerie più vicini a noi. E’ con queste chiavi che Sophie Calle ha esplorato il labirinto di Venezia.

 

Di tutt’altra pasta era fatta Martha Gellhorn, che in questo libro vediamo in una straordinaria foto scattata a Paestum da Robert Capa nel 1953. E questa è lei, in una lettera a Stanley Pennel: “C’è troppo spazio nel mondo. Io ne sono sconcertata e ne sono pazza”. Nata a Saint Louis, Missouri, nel 1908, Gellhorn è stata una grandissima corrispondente di guerra: la ragazza che partì con Hemingway per la guerra di Spagna – l’avrebbe poi sposato restando sua moglie per cinque anni, e feroce fu la competizione tra i due; celeberrimo il telegramma che lui le spedì nel 1944: “Sei una corrispondente di guerra o mia moglie nel mio letto?”. Gellhorn fu la giornalista che, esclusa dall’embedding nello sbarco di Normandia, salì su una nave travestita da infermiera; nei sessant’anni della sua carriera, avrebbe poi coperto i più importanti conflitti del secolo. Grande viaggiatrice, donna avventurosa, ragazza-soldato indurita dalla vita, ma perché flâneuse? Intanto perché lei stessa considerò consapevolmente il viaggio e la flânerie come estensioni di uno stesso impulso, ridefinendo questa attitudine, contraddicendone l’idea solitaria e dissociata, orientandone l’obiettivo verso la rivelazione e la condivisione di ciò che si è visto: faccia a faccia con la sofferenza e con la guerra, Gellhorn trasforma il suo sguardo in una testimonianza attiva. Aveva cominciato a farlo durante la guerra di Spagna, dove – non potendo seguire i combattimenti – scelse di raccontare Madrid, la città distrutta, la realtà dal basso, dalla strada dove la gente che ha perso la casa aspetta sbigottita il prossimo bombardamento. Questo è stato l’angolo visuale dei suoi reportage: in qualunque posto ma sempre da terra, mai dall’alto.

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